Un romanzo/IV
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IV.
Una camera a secondo piano, in fondo al corritojo numero 20, con due finestre sulla piazzetta — il lettore può verificarla quando vuole — fu assegnata ai giovani sposi.
Quella camera era tutt’altro che bella.
Un tappeto logoro copriva il pavimento; due letti separati da tutta la larghezza possibile, cinti dal zanzariere, alla veneziana — specie di baracca goffa e priva di eleganza, con tende di mussolina operata. Presso a una delle finestre un piccolo divano pesto e ripesto, sul quale Giulietta depose esitante il suo scialle.
Chiunque abbia viaggiato un poco, sa che i mobili d’albergo sono mobili diversi da tutti gli altri — mobili impossibili e inservibili. Tiretti che non si possono aprire e che una volta aperti non si rinchiudono più; chiavi che non girano nella toppa; tavolette incomode; tavolini che zoppicano — hanno tutti i piedi in stato perfetto, ma tant’è zoppicano; gli specchi poi sono infallibilmente verdi, messi sempre sotto una luce falsa, talchè danno ragione al poeta che scrisse: in uno specchio d’albergo una donna non è mai bella.
E poi c’è quell’aria cosmopolita che vi lascia il continuo succedersi degli abitatori — mille traccie indistinte — mille segni impercettibili — mille odori senza nome.
Ammettiamo che il cameriere cambia le lenzuola; ma chi ha dormito in quel letto?
Di chi è quel brano di lettera che troviamo in un cassettone?
Quanti piedi, quali piedi, che varietà straordinaria di piedi hanno lasciato la loro impronta sul tappeto?
Chi fece cadere quella macchia di caffè sulla cortina della finestra?
E quel divano? — oh, quel divano! — non me ne parlate — non ve ne parlerò nemmeno io.
— Vado giù un momento; disse Olimpio, intanto che Giulia slacciava il primo bottone del suo vestito.
Giulia imaginando in queste parole una delicatezza pudica vi aderì sorridendo; però lo seguì fino all’uscio susurrandogli nell’orecchio:
— Tornerai subito?
— Il tempo di bere un bicchier di vino; vi sono abituato, non potrei dormire così.
L’uscio si chiuse e la fanciulla sentì una stretta al cuore.
Quei letti, quello specchio, quel divano, quel tavolo, le sembravano più che mai tristi; si guardò attorno; cambiò posto ai lumi; ascoltò un momento. Aveva paura.
Le finestre erano aperte; vi si accostò; la notte serena e tranquilla ripeteva i piccoli rumori della piazza S. Marco, i tocchi dell’orologio e l’arruffarsi dei gondolieri sulla riva degli Schiavoni. Le stelle scintillavano. La luna batteva in pieno sul palazzo dei dogi.
Giulia chiuse i vetri.
— Mi conviene spogliarmi in fretta — pensò — se egli ritorna!...
Depose il suo vestito sopra una sedia; sotto i suoi piccoli eleganti stivaletti, simetricamente, uno accanto all’altro.
— Oh!... e le orazioni?
Si inginocchiò, chinò il capo, vi fece puntello colle manine giunte e recitò un po’ distrattamente la sua preghiera della sera.
Finita che l’ebbe, si trovò presso all’uscio:
— Un po’ sentire se egli è sulla scala!
Nessuno.
Continuò a spogliarsi. Ripiegò accuratamente le sottane, allentò i capelli, si guardò nello specchio — perchè? — non saprei, ma lo specchio era verde; distolse subito gli occhi e guardò i due letti.
— Buono! — in quale dovrò coricarmi?
Uno di essi portava al di sopra del capezzale l’imagine della Vergine — l’altro non aveva nulla.
Giulia si pose sotto la protezione dell’imagine sacra, ma nell’entrare in letto agitò le tende dello zanzariere e il lume si spense.
Bujo completo.
— A momenti verrà Olimpio.
Si cacciò sotto, ma coll’orecchio teso a spiare ogni piccolo rumore sulle scale; nè i romori mancavano.
Camerieri, viaggiatori, andavano e venivano senza darsi la pena di misurare i loro passi o di reprimere le loro voci; era uno sbattere di porte, un alternarsi di domande e di risposte, di comandi, di raccomandazioni, uno squillare di campanelli.
Olimpio non si faceva vivo.
A poco a poco tutti quei rumori cessarono e quasi contemporaneamente anche quelli della piazzetta. Dentro e fuori la notte stendeva il suo manto di tenebre e di silenzio.
E Olimpio? Dio!...
Mai la fanciulla aveva provato tanta angoscia come in quegli eterni momenti. Riaccese il lume, guardò le ore al suo piccolo orologio — mezzanotte!
— Oh! Signore, è possibile stare attorno fino alla mezzanotte?
Una vera inquietudine si impadronì della poveretta, che balzò in mezzo alla camera, e gettato sulle spalle il vestito senza allacciarlo corse all’uscio.
All’uscio? perchè?
Giulia non aveva riflettuto. Da quella porta ella aspettava la felicità, da quella porta Olimpio doveva entrare — l’aperse smaniosa.
Il corritojo era quasi all’oscuro; in fondo, un vacillante lumicino spargeva ombre incerte e fantastiche sulle pareti.
Passò un servitore dell’albergo.
— Avete visto mio marito?
Una moglie che chiede conto di suo marito — a mezzanotte — sull’uscio della propria camera! E con quella voce tremante, con quello smarrimento negli occhi! Certo al cameriere, non era mai capitato nulla di simile.
Rispose che l’aveva veduto uscire, e che appena tornato si farebbe premura di avvertirlo che la signora lo aspettava.
Giulia comprese tutto il ridicolo della sua posizione — lo comprese, ma non se ne rese conto — aveva quindici anni!
Rinchiuse l’uscio, cadde su una sedia e ruppe in uno scoppio di pianto.
O bei sogni, bei sogni d’amore! larve color di rosa, cieli azzurri, poetici misteri! O ideale!
Pianse a lungo, dapprima sommesso, poi sfogandosi in singhiozzi e pronunciando disperatamente il nome d’Olimpio.
Il suo maggior dolore era di non poter trovare una ragione che giustificasse quell’assenza prolungata. Aveva incontrato un amico, si sentiva male, o forse erasi smarrito o lasciato attirare da qualche spettacolo? No — tutto questo non era ammissibile, non era sopratutto conciliabile colla mezzanotte passata, quasi il tocco. Giulia non poteva supporre che egli l’avesse dimenticata — la prima notte di matrimonio! — Ma perchè dunque non veniva? Passeggiò inquieta per la camera, riaperse una finestra e stette ascoltando i rari passi che risuonavano sul lastricato della piazza.
La luna era scomparsa; il palazzo dei dogi si staccava come una gran massa nera sull’azzurro del cielo; la laguna nebulosa si confondeva nella oscurità della notte.
— Oh! Venezia, Venezia, rendimi il mio sposo!
Così mormorò la fanciulla protendendo le braccia; ma un alto silenzio regnava sulla piazzetta, sul canale, nei vasti palazzi di granito. La voce lontana d’un gondoliere le portò il primo verso d’una canzone popolare:
«Vieni o bella, vien sul mar...»
Giulia terse nuove lagrime e si allontanò dalla finestra.
Il vecchio orologio di S. Marco suonava le due.
Giulia cadde in ginocchio. Tutte le preghiere della sua infanzia le tornarono a mente, e le recitò tutte con fervore, con passione. Si rivolse all’imagine che stava sopra il letto promettendole un culto particolare se l’avesse tolta da quelle pene. Invocò sua madre ch’ella non aveva conosciuto, ma le madri fanno tanto per i loro figliuoli....
— O mamma mia, vieni a consolarmi!
Ripensò al suo tutore bisbetico, nojoso, egoista; vi ripensò come ad una cara memoria, e le parve ch’ella fosse ben felice in sua compagnia, in una cameretta calda, lieta, colla tazza fumante del caffè e il giuoco degli scacchi.
Rivide, come la sera innanzi, la chiesa parata a festa, i lumi, i fiori, il suo vestito bianco, il suo lungo velo, l’anello — pegno d’eterno amore — che Olimpio le aveva posto in dito ai piedi dell’altare.
Quell’anello lo vedeva ancora — ma lui!...
Poi con danza vertiginosa le passarono per la mente i paesi attraversati nel viaggio, le campagne lombarde, i verdi colli, gli alberi fuggenti e il primo sguardo che diede al mare.
Finalmente non pensò più a nulla — non pianse più. Il suo giovane corpo sfinito cedeva ai prepotenti bisogni della natura — le sue palpebre gonfie di lagrime lottavano invano col sonno.
Si trascinò presso il letto e vi cadde bocconi.
Pochi momenti dopo, dall’aperta finestra, si vedevano rosseggiare sulla laguna le prime tinte dell’aurora.