Trattato di archeologia (Gentile)/Arte romana/I
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I. — Osservazioni generali.
I Greci signoreggiarono il mondo antico e ancòra hanno effetto sulla vita moderna con l’arte, con le grazie e coll’espressione del bello; i Romani invece con la forza, con la sapienza civile e politica. Come nell’arte greca vi è uno sviluppo organico e continuo, dalle prime forme rudimentali alla pienezza del suo fiorire, così un vero sviluppo progressivo e naturale dagli ordinamenti comunali a quelli di vasto impero sta nella romana costituzione, perchè come ai Greci lo spirito artistico, così ai Romani fu congenito e proprio lo spirito politico.
Se però non si può affermare che i Romani fossero naturalmente propensi all’arte, perchè rivolsero la loro attività a imprese ch’essi dicevano di maggior momento, e furono difatti in principio causa del loro progresso, sarebbe però eccessivo se s’intendesse negata ai Romani ed agli antichi popoli italici in generale la naturale disposizione, l’intuito per l’arte. Le disposizioni estetiche erano sopraffatte da altre facoltà più vive e più impellenti, cosicchè quelle o stettero latenti od ebbero un lento sviluppo; e quando per condizione interna di maturità e per favore d’esterne circostanze poterono fiorire, allora vennero arrestate e sopraffatte da irresistibili influenze di un popolo che l’arte aveva portato alla massima esplicazione; come avviene d’un ruscello che, dopo lungo corso, alimentato per altri rivoli accolti, sta per divenire corrente, s’incontra in un maggior corso d’acqua, in quello immette e vi si confonde.
Mentre in Grecia nella più antica età la poesia è già meravigliosamente sviluppata con l’epica, e prepara la via all’arte figurativa con la chiara percezione delle imagini divine e dei tipi eroici, in Roma invece trascorre assai lungo spazio di sua storia prima che una poesia s’addimostri formata con chiara intelligenza di tipi e d’imagini, prima che le divinità cessino d’essere una confusa astrazione e con plastica evidenza diventino fonte d’ispirazione all’arte. Roma dai primi suoi tempi fino al VI secolo, tutta intenta a difendere l’indipendenza sua ed a svolgere gli interni suoi ordinamenti, non ha sviluppo e progresso d’arte. Con l’attività assorbita nella vita pratica, con lo spirito inteso all’utile ed alla realtà del momento, senza slancio verso l’idealità, senza vivace movimento del pensiero nelle imagini, il popolo romano rimane, per il rispetto artistico, in condizione inerte, passiva, pronto al ricevere, ma non già a produrre spontaneamente e con originalità di concetti. E le cause di questo? Se si sta alla leggenda delle origini, che dev’essere vera, altrimenti l’orgoglio patrio degli storici l’avrebbe negata, l’accozzo di elementi diversi, discordi, con tradizioni, credenze ed usi non fusi da tempo insieme impediva uno stato di vita propenso a ciò che è il fine d’ogni civiltà, il culto dell’arte.
Inoltre i Romani non ebbero tempo nei primi periodi di badare all’ornamento dell’intelletto, perchè erano costretti a pensare, come ho detto, all’ingrandimento e alla difesa della propria città e dell’attiguo territorio. Non bisogna poi escludere una causa fisica, cioè proveniente dalle condizioni del luogo e del clima, tanto diverso da quello dei Greci, specialmente atto a promuovere e ad eccitare nella bellezza e varietà della natura il sentimento del bello e del sublime naturale e dinamico. Infine senza dubbio vi influì la più recente origine di Roma, in modo che, quando questa era in condizione di fare di suo impulso e genio, si trovò di fronte una competitrice invincibile nell’arte, quale la Grecia, che l’ammaliò e la vinse col fascino della sua bellezza propria, allora, come si è detto poc’anzi, perfetta.
Perciò il popolo romano sùbito piega sotto l’influenza greca. Se non che un’altra influenza precedente, l’etrusca, aveva già modificati i caratteri ingeniti del popolo romano.
Parve a molti di poter mostrare il genio latino indipendente dall’influenza etrusca, ma questa non è così di leggieri negabile, sebbene sia da ridurre dentro più stretti limiti di quelli che prima le venivano assegnati. L’Etruria già sorgeva a grande civiltà quando Roma era appena nascente; dalla parte del Tevere e da quella del Liri e della Campania, dove un’etrusca federazione erasi formata (Etruria Meridionale o Campana), essa cingeva il Lazio. È possibile credere che uno stato nascente non risentisse della continua vicinanza d’uno stato salito a potenza, a florida civiltà? Può essere esagerata, ma infondata non è certamente la tradizione che lega di così stretti vincoli la sorgente società romana con l’etrusca. Ma d’altra parte però l’arte etrusca non aveva tale intima e sua propria vitalità da produrre una efficacia penetrante, decisiva. Un genio artistico creatore mancava alla gente etrusca, perciò pur essa a sua volta era facilmente soggetta ad influenze straniere; e già riceveva elementi dalla Grecia, e allo spirito ellenico s’inspirava, quando nel periodo storico che si assegna ai Tarquinî l’arte etrusca prese, secondo la tradizione, sviluppo e sèguito in Roma. Queste influenze prima etrusche e poi greche, che nei tempi antichissimi s’infiltravano nel Lazio, lungi dal cessare crebbero quando Roma, fatta potente, si sottomise le nazioni di lei più anticamente civili, alle quali essa avrebbe dato l’arte sua, così appunto come loro diede le sue leggi, se un’arte sua propria avesse potuto avere. Prima era l’influenza greca che per via di relazioni e di commerci s’insinuava nel Lazio; ma poi, quando la forza latina soggiogò le regioni dove la greca civiltà aveva fiorito, a questo pretesto si sottomise, e fu a sua volta il vincitore soggiogato dal vinto. Pongasi mente, per breve istante, al diverso tempo nel corso della civiltà greca e della romana. Si osservi come, al tempo dello splendido fiorire del pensiero e del sentimento greco, nel sec. V a. C. che prende gloria da Atene e nome da Pericle, Roma, ancora piccolo comune, guerreggiasse per la sua indipendenza contro Volsci, Ernici, Equi ed Etruschi, e nell’interno s’affaticasse nella penosa lotta della plebe col patriziato per l’eguaglianza dei diritti civili e politici. Si ricordi che, quando le città capitali dei regni sorti nell’Oriente dallo smembrarsi dell’impero d’Alessandro divennero centri vivi di studî nelle scienze, nelle lettere e nelle arti, e si produceva quell’operoso movimento del pensiero antico che suolsi designare col nome d’ellenismo, allora Roma, fatta sicura contro gli assalti dei popoli più vicini al suo territorio, volgevasi un po’ più lontano alle guerre coi Sanniti, alle prime relazioni coi popoli della Magna Grecia; ma era lungi dall’avere uno scrittore od un artista. La Grecia aveva ormai dato il meglio delle sue forze produttrici, già da lungo aveva trapassato il culmine del suo salire, e volgendo alla discesa ripensava e ripeteva sè stessa, quando Roma, compita la conquista d’Italia (266 av. C.), aggiuntasi la Sicilia (241 av. C.), legava le prime dirette sue relazioni con la Grecia propria. Nell’immediato contatto con la civiltà greca lo spirito romano fu interamente vinto e soggiogato.
Roma, che per più di sei secoli della sua esistenza non aveva avuto letteratura nè arte, o almeno avevale appena in germe, in facoltà ancòra latenti, fu allora commossa di spirito artistico, che penetrava nello spirito per esterno impulso. Quando nella conquista d’Italia i Romani venivano in relazione con le greche città del mezzodì, ammiravano, essi ancor rudi, le splendide opere d’arte per le quali quelle città erano ricche e belle. La presa di Taranto, e poi le legioni portate in Sicilia al tempo della prima guerra punica, le relazioni con la Grecia nel tempo della guerra illirica e dell’annibalica, la presa di Siracusa, città regina del mondo ellenico occidentale, resero i Romani sempre più familiari con la civiltà greca. Una nazione cui ancòra manchino letteratura ed arte, nuova allo studio del bel dire e della filosofia, nuova alla rappresentazione delle belle forme, la s’immagini messa in repentino contatto con l’altra nazione, che in tutto il dominio dell’arte, nella parola, nella musica, nella ritmica, nel disegno, nella plastica aveva toccato, anzi valicato il sommo della perfezione, e si pensi ciò che quel popolo ancor rude sia per risentirne. Le sue facoltà congenite, ma ancora incerte sono sopraffatte, e in loro luogo cresce e vigoreggia uno spirito nuovo, che in Roma fu l’ellenismo, il quale, dopo aver estesa la sua efficacia nel mondo orientale, ora conquista l’Occidente, e nella potenza romana, non che essere da essa spento, trova una forza che lo porta a nuova vita, a più larga diffusione.
Chi primo desta la vita letteraria romana è un greco, Livio Andronico, venuto a Taranto (a. 240 a. C.), che diede ai Romani una versione in versi saturni dell’Odissea, ed una prima azione drammatica di soggetto e di forma greca. Per impulso greco nasceva la poesia romana; Ennio impersona l’invadere della coltura greca nel Lazio, egli che in sè credeva trasmigrata l’anima d’Omero e ambiva di diventare l’Omero latino.
Al tempo della seconda guerra punica le greche muse a volo spiegato entrano nella bellicosa città di Romolo, secondo la bella imagine di Licinio nel distico citato da Aulio Gellio1. Il cittadino romano riconosceva il primato artistico della gente ellenica, e davanti a tanto splendore di civiltà confessava sè stesso rude ed agreste, e da quella civiltà richiamava gli inizi della propria, della Grecia, dicendosi fiero vincitore con l’armi, ma discepolo con lo spirito2. Ma a questa lodevole quiescienza accompagnava un chiaro e profondo sentimento della propria missione nel mondo, cioè l’unificazione delle genti nell’ordine di un forte e grande impero. Il diverso destino proposto alla nazione greca ed alla romana lo ha significato Virgilio con la solenne magniloquenza dei suoi versi immortali3.
V’erano però parti più corrispondenti al genio romano, come quelle che concorrevano alla vita pratica, quali l’eloquenza, la storia, l’architettura, la scoltura storica; e queste, pur mantenendosi greche nel loro germe, svolgendo e variamente combinando i greci elementi, si fecero romane veramente, e adattate agli usi, alle condizioni del nuovo popolo, in sè portarono impressa la forza e la grandiosità di questo. Così all’architettura, combinando l’elemento etrusco o italico dell’arco e della volta, con gli elementi degli ordini greci, il genio romano compose l’eleganza con la grandiosità, compì opere la cui solidità attraversò i secoli, la cui bellezza innamorarono le menti; quindi può dirsi che l’architettura tutta risplenda l’originalità romana.
Bisogna però aggiungere sùbito che questa grande arte romana non divenne mai popolare, poichè, non essendo la manifestazione nativa e spontanea di popolari facoltà, divenne prerogativa, cura e diletto di una parte eletta della nazione, d’una vera aristocrazia intellettuale; e tale divenne quasi forzando la natura romana, non senza aver combattuto un forte contrasto contro il sentimento dei molti, che, tenendosi fedeli alle tradizioni della vita cittadina, agli ordinamenti patrî sociali e religiosi, vedevano nel nuovo spirito d’ideali speculazioni, negli intenti del pensiero alieno dalla vita reale e pratica, una minaccia, un pericolo di crollo delle patrie istituzioni. Catone seniore personifica in sè quest’opposizione dello spirito antico romano contro la novità dello spirito greco. Egli innanzi al popolo lamentava le ricchezze e il lusso dalla Grecia e dall’Asia introdotti in Roma; egli temeva ormai che il popolo romano conquistasse quelle ricchezze e magnificenze, ma da quelle fosse conquistato; dubitava infesti alla città gli artistici simulacri da Siracusa portati in Roma; per disgrazia della città molti ammirare gli ornamenti di Corinto e di Atene, e spregiare beffardi le vecchie imagini fittili dei tempi arcaici; le arti insomma essere illecebrae libidinum4. Ma Catone in sè offre anche esempio di quanto quell’opposizione cedesse vinta, quando egli in tarda età piegò la mente sua allo studio delle lettere greche, perchè da vero Romano, come era prima convinto del male che potessero portare e tenacemente le avversava, così, appena riconosciutane l’opportunità per il suo popolo vincitore, fu primo a disdirsi e a dare esempio di volontà virile nell’apprenderle.
Superate le barriere di quest’opposizione, le arti greche conquistano gli animi romani, e in questi si tramutano e si sviluppano, però sempre nel ristretto àmbito d’una parte della nazione, non già penetrando nel fondo del popolo; si ha un’arte pertanto aristocratica, arte in gran parte da principi, da Mecenati e da poeti.
La tradizione, l’esercitazione dell’arte, le idee dell’artistica rappresentazione restano greche, nella massima parte, modificandosi e svolgendosi secondo i nuovi bisogni e le mutate disposizioni di gusto dei Romani. Si ha quindi in parte riproduzione od imitazione delle antiche opere greche, o nuove combinazioni d’antichi elementi, nei quali l’attività artistica si svolge in un ordine di pensieri che possono essere anche romani; insomma un’arte più propriamente greco-romana.