Trattato completo di agricoltura/Volume II/Del Pero
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del pero.
§ 941. Il pero (pirus sativa, fig. 302), è una pianta il cui frutto anche anticamente serviva a dar un liquido spiritoso spumante, analogo al sidro de’ pomi, ma alquanto più alcoolico: le pera estive danno anche una maggior quantità di sugo che non i pomi ben maturi. Ciò nonpertanto in Italia il frutto del pero è consumato quasi intieramente allo stato fresco, o lo si fa cuocere od essicare.
Il clima del pero è press’a poco quello del pomo; fiorisce però alquanto prima, e può andar soggetto alle brine più di quello. Sopporta anche i freddi piuttosto intensi dell'Italia settentrionale. Le varietà del pero sono moltissime, e forse maggiori di quelle del pomo, essendo una pianta coltivata da remotissimo tempo; e sarebbe desiderabile che, come si disse delle uve e delle poma, così anche del pero si facessero tabelle in colore e grandezza naturale, con qualche foglia unita cui si applicasse un nome accettato e riconoscibile da tutti una volta per sempre. Intanto noi possiamo dividere le pera in precoci e tardive; in quelle che si mangiano appena colte dalla pianta, quali sono le precoci estive e del principio d’autunno, ed in quelle si mangiano dopo un tempo più o meno lungo dal loro raccolto, quali sono quasi tutte le qualità tardive dell’autunno, e che si dicono anche invernenghe.
Il terreno adattato al pero deve essere alquanto calcare e più profondo di quello che richiedasi pel pomo. Il concime non è strettamente necessario se non nel semenzajo, nel vivajo, e nel momento dell’impianto; in seguito le cure che si prestano al sotto suolo bastano a mantenere la pianta in buona vegetazione.
Il pero si propaga per semi e per barbatelle, o per innesto fatto sul cotogno, sullo spino bianco e sul nespolo. Il miglior metodo è quello di propagarlo per semi, perchè quantunque le piante così ottenute riescano selvatiche e richiedano l’innesto, pure sono sempre le migliori per vigore e durata, e perchè non è necessario rimondarle dai numerosi polloni che sorgerebbero dal pedale. Gioverà quindi il conservare i migliori acini o granelli delle migliori pera che si mangiano nelle differenti stagioni, per seminarle alla fine dell’inverno in terra ben lavorata e concimata, in linee distanti 0m,15 diradando a 0m,10 le pianticelle appena nate sulla stessa linea, conservando possibilmente le più vegnenti. Per due anni si lascia la pianticella nel vivajo, rimondandola dai rametti laterali, e mantenendo la terra sofice e netta dalle cattive erbe. Dopo due anni si prepara la terra pel vivajo, ove si pianteranno alla fine del verno, colle solite precauzioni, ed alla distanza di 0m,60 per ogni verso. Nella primavera del secondo anno di vivajo s’innestano al piede a spacco con due marze o con una sola, secondo la grossezza del giovane tronco; alcuni fanno quest’innesto anche nel novembre, e se nella primavera vegnente vedono che sia deperito, lo rinnovano più in basso. Altri lo innestano anche ad occhio dormiente nell’autunno. Il modo più sicuro però è quello a spacco. Le piante selvatiche che abbiano già un grosso tronco s’innestano in alto. Nel terzo anno di vivajo si taglia via la marza che ha prodotti i rami meno vigorosi, e se ne conserva un solo, ed il più dritto se vuolsi allevare ad albero; o si conservano i due rami migliori e meglio disposti se si desidera formarne spalliera. Dopo l’innesto, tanto nel primo che nel secondo anno, avvertasi di tener monda la pianticella dai germogli selvatici, i quali farebbero deperire i rami innestati. I rami conservati vengono assicurati a paletti, onde non siano guasti dal vento. Per tal modo, se nel vivajo le pianticelle avranno avute tutte le cure necessarie, in un anno o tutt’al più in due si avrà un soggetto abbastanza robusto per essere piantato a dimora.
L’impianto si fa colle solite norme; cioè con fossa ampia a norma delle radici, buon concime ben scomposto, rimondatura delle radici guaste, e taglio dei rametti laterali al piccolo fusto. Per l’allevamento della spalliera si osservi quanto fu detto pel pesco. Per l’allevamento ad albero invece si procederà come pel pomo. Che anzi questa pianta adattandosi meglio d’ogni altra a qualunque foggia, più facilmente si arriverà allo scopo. S’avverta però che dovrassi mantenere un paletto a ciascuna pianticella finchè il tronco non abbia bastante robustezza per reggersi da sè stesso.
In quanto al taglio avvertiremo che i fiori nascono sul legno di tre anni ad eccezione di qualche raro mazzetto alle gemme terminali; e che il pero è ricchissimo di gemme continue, le quali devonsi conservare. Col taglio verde poi si leveranno i germogli succhioni che facilmente sorgono su questa pianta, ad eccezione di quelli che servissero a ristabilire la giusta forma per qualche ramo morto o deperente che fosse da levarsi.
Il pero, al pari del pomo, dopo alcuni anni fruttifica abbondantemente anche abbandonato a sè, purchè dapprincipio se ne sia procurata una regolare disposizione nei rami principali. Il pero inoltre è di un prodotto meno saltuario del pomo, in parte perchè più facilmente mette germogli da legno anche quando è carico di frutti, ed in parte perchè il picciuolo del frutto si stacca meglio senza portar seco parte della gemma continua.
L’abbondanza poi delle gemme continue sui rami del pero, fa sì che spesso questi dopo d’aver fruttificato per quattro o cinque anni illanguidisce e non fruttifica che scarsissimamente, e che deperisce non potendo metter gemme da legno. In tal caso si lasceranno alcuni germogli da legno che sorgessero sulla prima porzione del ramo, allo scopo di ringiovanire la pianta e di renderla nuovamente fruttifera, tagliando via il ramo vecchio, quando il giovane abbia incominciato a portar frutto. Ciononpertanto la durata del pero è assai più lunga di quella d’ogni altro albero fruttifero de’ nostri climi, e, specialmente al colle, ove trova terreno soffice nel quale estendere le proprie radici, se ne riscontra di maestosi per grossezza ed altezza.
La maturanza delle pera si riconosce dal colore particolare che ciascuna varietà prende in pochi giorni (generalmente giallognolo), ma più di tutto dalla fragranza spiegata che tramandano, e dal loro facile staccarsi dalla pianta. Le varietà che maturano dal principio d’estate sino al principio d’autunno devono conservarsi fresche, onde la maturanza non trapassi alla fermentazione, ed il frutto divenga troppo acquoso, oscuro internamente, e d’un sapor acido vinoso. Il raccolto di queste pera sarà fatto con diligenza onde non soffrano ammaccature e facilmente si guastino, giacchè possono conservarsi fresche per molti giorni; e questa diligenza deve essere anco maggiore pel raccolto delle varietà tardive dell’autunno, le quali maturano durante il verno, e talvolta anche in primavera e persino nell’estate vegnente. Per queste ben vedesi che ogni leggier contusione impedirà una lunga conservazione. Come si disse delle poma, anche le pera devono essere colte a mano, o coll’apposito coglifrutta, in giorno sereno, dopo la scomparsa della rugiada e quando non spiri vento.
§ 942. Ora passeremo a far qualche cenno delle malattie e degli insetti nocivi al pomo ed al pero. Ambedue queste piante vanno soggette alla malattia del cancro. Questa malattia si riconosce dalle macchie brune che dapprima si mostrano sul tronco o sui rami; ivi la scorza si disorganizza, si fende e si rialza all’ingiro, mostrando una specie di rigonfiamento spongoso, polverulento e di color bruno (fig. 303). Il cancro si diffonde lungo la corteccia per ogni dove. Sembra che la sua origine dipenda da contusioni, o d’altre cause che agiscono disorganizzando, quali sono i forti colpi di sole. La diffusione deve poi dipendere da alcuni piccoli insetti, prodotti dalla prima apparizione del cancro, i quali vanno poi moltiplicandosi sotto la corteccia. Il miglior rimedio, quando la malattia si mostri nei rami, è la loro completa esportazione; se nel tronco o nelle prime diramazioni, si leverà la corteccia della parte infetta, lavando poscia la piaga con una sola soluzione d’acido solforico.
Le forti contusioni, i tagli mal fatti o troppo ampi e che non possono prontamente essere ricoperti dalla corteccia, o con altra copertura artiticiale lasciando a nudo per lungo tempo il legno, cioè esposto alle vicende atmosferiche di caldo e di freddo, d’umidità e di secchezza, finiscono col produrre l’alterazione del tessuto legnoso dando origine alle ulceri ed alla carie.
Chiamasi adunque ulcera del legno il primo stadio di questa alterazione, quando la superficie denudata del legno assume un color nerastro, e che dalla detta piaga cola un umore parimenti oscuro, corrosivo, sebbene talvolta sia allungato dalle acque di pioggia, il quale disorganizzando anche la nuova corteccia che si avanza dalla periferia, impedisce che la piaga si ricopra, che anzi va continuamente estendendosi guastando tutta la corteccia lungo la quale scorre l'umore. Se poi non si rimedia, come dirò, a questo primo inconveniente, il legno subisce una vera carbonizzazione e putrefazione, il male s’interna nel tronco, il quale continua a disorganizzarsi finchè la pianta perisce o non resta di essa altro che qualche lembo di corteccia ancor sana; allora la malattia dicesi Carie.
Il rimedio è spesso possibile quando la malattia è sul principio, togliendo sino al vivo le parti infette e ricoprendole con mastice composto di
50 | di sterco di vacca; |
28 | di gesso; |
22 | di ceneri, |
3 | di sabbia fina. |
Se le piaghe sono molto larghe e profonde, essendo di già incominciata anche la carie del tronco, si procurerà di levare tutto il legno disorganizzato riempiendo il vuoto coll’ordinario cemento fatto con calce e sabbia. Se poi inferioremente alle parti guaste sorgesse qualche vigoroso ramo o germoglio, si reciderà tutta la parte superiore e si coprirà la ferita col miscuglio più sopra accennato. Molti adoperano il mastice da innesto per ricoprire esternamente e superficialmente queste piaghe o ferite; ma siccome il detto mastice contiene sempre materie resinose, o cera; così queste sostanze liquefacendosi sotto l’azione dei raggi solari, si diffondono sulla corteccia circostante, ne obbliterano i pori e per conseguenza ne inducono il deperimento o l’indurimento di essa.
L’indurimento della corteccia può considerarsi come una malattia nelle piante da frutto. Questo indurimento può essere prodotto dall’evaporazione e secchezza indottavi dai raggi solari che colpiscano la corteccia per lungo tempo nella giornata. Questo fatto si riscontra specialmente nei soggetti tolti dal vivajo i quali dall’ombreggiamento che facevansi l’uno coll’altro, vengono ad un tratto isolati ed esposti ai cocenti raggi; può essere effetto di cattiva nutrizione della pianta, per la quale non aumentando di volume il tronco, la corteccia rimane a lungo stazionaria e quindi invecchia ed indurisce; e finalmente può essere effetto di scoli che tendono a disorganizzare od indurire la corteccia quali sono gli scoli gommosi, resinosi, e quelli che derivano da piaghe o ferite prese da ulcere o da carie. L’indurimento produce una difficoltà nell’ulteriore corso e deposito degli umori sotto la corteccia; epperò la pianta deperisce se quella continua a resistere allo sforzo di nutrizione, oppure rimane malconcia, quando la corteccia in qualche luogo si fende per dar sfogo agli umori. Le precauzioni da usarsi in tal caso in parte le abbiamo già accennate parlando della gomma, ed in parte al § 883 quando parlai delle cure di conservazione delle piante fruttifere, accennando essere vantaggioso il toglierne le cause, cioè o l’influenza dei raggi solari, o rimediando agli scoli, o concimando, o praticando delle incisioni verticali.
La clorosi, ossia, ingiallimento o pallore delle foglie durante l’epoca di vegetazione, è una malattia che frequentemente si riscontra nelle piante, singolarmente nella stagione calda ed asciutta nella quale sembra che le radici ed il tessuto cellulare non possano funzionare normalmente. Oltre alle foglie veggonsi anche le cime più tenere de’ germogli prendere un color bianco gialliccio, e svilupparsi stentatamente. Questa condizione della pianta è dovuta insomma ad un difetto di nutrizione, ad una specie d’inerzia generale degli organi addetti a questa funzione. Talvolta un effetto consimile riscontrasi quando le radici sono rose dalle larve della caruga comune, o quando le radici s’impegnano in un sottosuolo duro e sterile. L’irrigazione e l’aspersione delle foglie già accennata al § 883 spesso vi rimediano; e questa benefica azione può essere efficacemente coadjuvata dall’usare di acque che tengano disciolto del solfato di ferro nella proporzione di una a due gramme per ogni litro d’acqua. L’irrigazione e l’aspersione delle foglie si eseguisce dopo il tramonto del sole, e la si ripete per due o tre volte ogni sei od otto giorni. Sembra che il solfato di ferro agisca stimolando gli organi della nutrizione: esso è però inefficace allorquando la malattia riconosca per causa la corrosione delle radici fatta da vermi o larve d’insetti, e quando dipenda dalla qualità cattiva del terreno.
Ai guasti poi che producono la disorganizzazione e l’alterazione delle parti interne od esterne della pianta s’aggiungono quelli delle muffe, licheni ed altri vegetabili parassiti che vivono a spese della corteccia. Le fenditure e le sinuosità delle parti esterne trattengono il polverio sospeso nell’aria, gli escrementi degli insetti che vi trovano ricetto ed alimento nella corteccia, e la polvere legnosa delle parti prese dalla carie. La scorza indurita, disseccata ed alterata comincia a coprirsi di piccole macchie biancastre e verdognole le quali indicano la presenza di muffe e licheni (fig. 304), finchè formasi un vero terriccio che può nutrire anche erbe parassite di maggior conto qual è il vischio (fig. 305). porta quindi ogni sei o dieci anni, secondo la maggiore o minore vegetazione della pianta, raschiarne la corteccia quasi sino al vivo, onde togliere l’asilo agli insetti e la sede alle vegetazioni parassite.
Fra gl’insetti accenneremo la larva del bombice livrato e quella del bombice a cui dorato, le quali rodono le gemme ed i germogli del pomo e del pero. Le forsecchie o forbicette che si annidano sotto la corteccia vecchia alquanto sollevata dal tronco. Il rinchite o punteruolo (vedi fig. 246) e del quale già parlammo al § 911. La caccia è il solo rimedio al guasto di questi insetti, cioè lo scuotere le piante di buon mattino quando sono ancora allo stato di larva; ed il visitare le piante in autunno o sul finire del verno per liberarle dalle uova depostevi sopra.
Vi ha inoltre la Tigre, insetto piccolissimo che per tutta la state attacca particolarmente la giovane scorza del pomo e del pero, succhiandone l'umore. Quest’insetto si presenta sotto la forma di piccole granulazioni assai ravvicinate (fig. 306).
Verso la fine di giugno la Tigre passa dallo stato di larva a quello d’insetto perfetto, assumendo l’aspetto d’un piccolo pidocchio alato, di color castagno grigio, il quale s’attacca alla pagina inferiore delle foglie consumandone il parenchima, per il che queste ingialliscono e cadono. L’unico mezzo per liberarsi da tale insetto è quello di usare d’un miscuglio fatto con 500 grammi di sapone nero, 4 litri di liscivio, e calce viva in quantità sufficiente da farne una mistura chiara: dopo che le foglie sono cadute, con una spazzola si applica questa mistura sulle parti infette. Anche gli olii servono a tal uopo.Maschio Femmina
Figure ingrandite.
Fra gl’insetti il più dannoso al pomo è il pidocchio, od afide lanigero (fig. 307). La presenza di quest’insetto si riconosce facilmente dalla peluria biancastra che riveste i giovani rami e le foglie; del resto si può riscontrare alla base dei rami e sulle radici, insomma ovunque l’insetto possa ferire facilmente la corteccia e succhiare l’alburno facendo deperire la pianta; inoltre siccome l’umore trasuda per le numerose ferite della corteccia, così si formano numerose escrescenze legnose, dette esostosi (fig. 308 e 309): le quali aumentando ogni anno impediscono la libera circolazione, e finiscono col fare perire la pianta. Questo insetto sembra che sia stato da poco tempo dall’America portato in Inghilterra, da dove poi si diffuse nel resto dell’Europa. Uno solo, fra i tanti mezzi proposti per rimediare ai guasti di tale insetto, pare che produca buon effetto ed è l’ungere le parti infette con sostanze grasse ed oleose. Ciononpertanto bisogna operare prontamente e largamente onde impedirne la rapida propagazione. Si può usare il fuoco, accendendo un fascetto di paglia e passando con questo, sul finire dell’inverno, presso gli ammassi di peluria; i quali prontamente accendendosi, fanno perire gl’insetti; nondimeno bisogna esser rapidi per non intaccare col fuoco anche la corteccia. Vi sono inoltre le larve di moltissimi altri insetti, le di cui femmine depongono le uova sulla stessa pianta, avvolgendole nella peluria; epperò gioverà verso la fine del verno visitare le piante, staccarne le uova ed abbruciarle, se non vogliamo vedere la pianta spoglia di foglie e di frutti avanti la metà di giugno.
Per tutto quanto si è detto, non è quindi da meravigliarsi se quasi dappertutto, e singolarmente ne’ campi, vediamo le piante di pomo e di pero malconcie, tortuose, coperte di muffe, mal disposte, deformi nella ramificazione, e ridotte a tristissimo stato, poichè generalmente si trascurano quelle precauzioni che valgono a mantener vegeta la pianta, ed a renderla fruttifera. Fatto che sia l’impianto il coltivatore le abbandona a sè stesse, e non le osserva se non quando porta qualche primo frutto, il che succede ben tardi. Dopo dieci anni il tronco è ordinariamente dell’egual diametro dell’epoca della piantagione, fuorchè è più malconcio da ferite o contusioni fattegli nel lavorare il terreno sottoposto; ripieno al piede e lungo il tronco di numerose cacciate, le quali non essendo state levate, succhiarono l’umore che doveva andare ad alimentare i rami, e questi trovansi tristi, pieni di seccumi e di parti guaste dagli animali, dai venti e dalle nevi. Se adunque il pomo ed il pero vanno scomparendo dai nostri campi, siccome poco produttivi, la colpa è nostra; coltiviamoli bene e dessi ci compenseranno le fatiche ed i disturbi.