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Valentino e Lucilio

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Nella Romagna d’una volta La passione d’un gentiluomo veneziano
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VALENTINO E LUCILIO

L’auriga Libanio in carcere! Forse condannato a morire per la rivalità del padrone. Ne amava una bella schiava, giovinetta. Questa la sua colpa! E Boterico, il barbaro divenuto governatore a Tessalonica, aveva dunque ricevuto il battesimo per essere più crudele? cristiano, trattava così i suoi servi? ascoltava così gli ammonimenti dell’imperatore: che governasse con prudente consiglio e cuor buono?

Gelosia d’amore e di gloria. Perchè maggior gloria aveva acquistato Libanio auriga nel circo che in guerra Boterico luogotenente di Teodosio il Grande: ecco quel che gravava la colpa del povero giovine. Dal servizio del governatore assunto a condur nelle corse i cavalli della fazione «prasina», aveva meritato tal favore dal popolo che neppure le altre fazioni gli volevan male; lo vantavano anch’esse vittorioso o vinto. E per lui le corse di Tessalonica levavan grido, oltre la Macedonia, a Costantinopoli, a Roma, a Milano. [p. 126 modifica]

Nessuno infatti, da quando s’eran visti cavalli e carri nel circo, nessuno vi aveva mai dimostrata arte pari alla sua.

Guidava i poledri più focosi e indocili quasi fossero attempati nell’evitar gl’impedimenti e girar le mete; pareva che il più lieve tocco delle sue dita alle redini rilassate avesse una prodigiosa virtù di moderazione o, se bisognava, d’incitamento; ogni studio di agitatori e ogni audacia di giocolieri, compri dagli emuli perchè interrompesse il galloppo, perdesse terreno, si rovesciasse, tornava inutile. E agitava la frusta, ma non percuoteva.

Bello era a vederlo, il ginocchio sinistro fermo all’appoggio del carro, la gamba destra tesa col piede puntato nell’estremo limite a tenersi inconcusso, il petto chino all’innanzi quasi a empirsi dell’ebbrezza de’ suoi corsieri, e il capo drizzato a scorgere, con sguardo imperioso e sereno, certa la gara, libera la vittoria.

— Libanio! Libanio! — acclamava il popolo. Non gridava: — Prasina! — quasi non vedesse più in lui la fazione, ma vedesse lui solo; e l’ansietà delle scommesse era superata dall’ammirazione; e il sole riflettuto dall’elmo, dalla tunica di seta verde e dalle cinghie che la stringevano e increspavano sembrava irradiargli il viso.

Agli occhi di quel pubblico oramai tutto cristiano rifulgeva una apollinea imagine.

Ma adesso Libanio sospirava in una carcere [p. 127 modifica] stretta ed oscura; eran spente le feste che dovevan celebrare Teodosio vincitore di Massimo, Teodosio trionfante a Roma.

— A morte Boterico! A morte l’ingiusto! l’indegno!

Imprecazioni e minacce passavano di bocca in bocca; e si diceva che come l’imperatore aveva perdonata la sedizione di Antiochia, ove era stata abbattuta fin la statua dell’imperatrice, perdonerebbe a Tessalonica se osasse castigare il governatore malvagio.

Prima però di osare tanto, i cittadini più saggi e cospicui speravano d’indur lui stesso, Boterico, al perdono. Che lode gli verrebbe, di uomo generoso, a trar dalla carcere il giovine caro al popolo, e per intercessione della città intera concedergli ciò che era inumano proibire: la felicità dell’amore e delle nozze!

No. L’empio rispose no.

A morte! E nulla più può trattenere la folla: irrompe al palazzo: le guardie cadono trucidate. Boterico si fa innanzi; alza la mano per dire... Troppo tardi dire: perdono. È trucidato.

E sono aperte le porte della carcere.

II.

Quando ebbe notizia della sedizione di Tessalonica Teodosio stava per entrare in Milano, [p. 128 modifica]di dove muoveva a incontrarlo Ambrogio, il santo Vescovo. L’ira dell’imperatore cede alla parola di lui, che era la parola d’un santo. Ma dopo, nel consiglio, parlò il Gran maestro di Palazzo: — Se anche Tessalonica restava impunita, tutto l’impero rovinerebbe, e la storia ne chiederebbe conto all’ultimo imperatore, che aveva vinti i nemici e non aveva saputo vincere i ribelli; che si era addolcito della pietà dei vescovi e non si era inasprito per la licenza del popolo.

Nè gli altri consiglieri furono da meno a rimproverare e a esortare. Teodosio, alla fine, diè l’ordine. Soldati fossero subito mandati a Tessalonica; di là il mondo avesse nuovo, terribile esempio che non s’offendeva senza pena l’autorità imperiale, sebbene l’erede di Roma si facesse ora il segno della Croce.

E non sarebbe l’ultimo imperatore di Roma Teodosio il Grande! Gli ufficiali che ebbero tale missione dal Sovrano e dalla Storia ne godettero, e pensarono di adempierla con neroniana letizia: nel circo, tra la folla festosa, ignara della strage imminente, plaudente all’auriga per il quale Boterico era morto.

III.

Affrancata dal novello Governatore, la giovinetta schiava che Libanio amava diventò sposa a Libanio. Dunque nessun dubbio che [p. 129 modifica]Tessalonica fosse perdonata come già Antiochia. I mercenari testè venuti aumenterebbero le milizie di Boterico solo per resistere ai barbari.

Nessun sospetto. C’era anzi nell’animo popolare quell’aperto consenso di fiducia e di gioia a cui sopra tutto pareva attendere Teodosio trionfatore, Teodosio il Grande.

Furono riprese le feste. E mai corse annunciate nel circo suscitarono tanta aspettazione. Appena i «russati» o rossi e i «veneti» o azzurri avevan saputo che la fazione «albata» o bianca lancerebbe quattro cavalli degli allevamenti di Cappadocia, avevano affrettate richieste a Costantinopoli. Giunsero, per loro, fin poledri di razza araba, dall’Asia Minore. Ma la fazione verde o «prasina» non cercò mutamenti di corridori e di auriga: le bastavano i suoi cavalli armeni, le bastava Libanio.

***

Quanta gente, il gran giorno, per la strada che conduceva al circo! Che frequenza di vetture, fossero rede tirate da cavalli o carruche tirate da mule, con sopra ricchi e patrizi e matrone! In carrozza andò anche Cesario Prisco, il ricco mercante di gioielli, con i suoi figliuoli.

Pienamente felici, quei due. Il minore, che non era mai stato al circo, volgeva le più curiose domande, alle quali l’altro rispondeva con ciò che sapeva di propria scienza e esperienza e con [p. 130 modifica] ciò che aveva imparato dai compagni a scuola, o s’inventava lui. Fin sapeva, Lucilio, perchè dalla «spina» del circo, la quale vi era la parte mediana ove sorgeva l’obelisco, erano stale tolte le statue della dea Tutelina e di Cibele assisa sul leone.

— Perchè? — Valentino chiedeva riflettendo dai begli occhi chiari meraviglie sempre piii improvvise e strane al suo pensiero.

— Perchè — rispondeva Lucilio — l’imperatore ha voluto il battesimo; è cristiano anche lui, come noi.

— E perchè Tutelina e Cibele non erano cristiane come noi?

E perchè questo? perchè quest’altro?

Il padre godeva a udirli cinguettare così. Ma quando Lucilio, il più grande, fu stanco di rispondere ciò che non sapeva e ciò che sapeva, tornò a insistere col padre che gli dicesse per chi parteggiava, per chi scommetterebbe.

— Io sto per i «rossi» — preveniva Valentino. — Me l’ha detto la mamma che vincerà Libanio.

— Libanio, è prasino, non rossato! — esclamò con sufficienza Lucilio. E soggiunse:

— Io credo che vinceranno gli azzurri. E tu, padre? Scommetti per loro! Se sapessi che cavalli hanno! Venuti d’Asia!

— No — ribatteva Valentino —, scommetti per il rosso, che è il colore più bello! [p. 131 modifica]

E il padre, il quale era della fazione albata e aveva seco tante monete d’oro da giocare per i poledri di Cappadocia, fingeva una grande perplessità nella scelta. Dopo un lungo silenzio disse interrogando sè stesso:

— Per vincere starò dunque con Valentino o con Lucilio?

— Con me! — Con me! — pregavano ambedue i fanciulli, a gara.

— Vincerà quello che mi vuol più bene!

— Io!

— Io, padre!

— Vincerà quello a cui voglio più bene.

— Io! io!

— No, io! — e a Valentino si riempirono gli occhi di lacrime. Allora il padre trasse quattro monetine — quadranti — e le diede ai fanciulli, due per ciascuno. — Faremo così: quello che perderà darà un quadrante al fratello, e uno a me. — Accettarono felici di scommettere come gli uomini.

— Ma — ripigliò dopo un poco il padre quasi preso da un nuovo dubbio —: se perderete tutti e due? Se vincerà, invece della rossa o dell’azzurra, la prasina o l’albata?

— Allora — esclamò Lucilio ridendo —: allora ci teniamo noi i quadrantini, e a te niente!

— A te un bacio — concluse Valentino allungando le braccia.

E volevano dargli un bacio tutti e due in una volta. [p. 132 modifica]

IV.

Quando entrarono e salirono al terzo ordine, già i primi gradi, dei patrizi, e i secondi, dei cavalieri, erano pieni; lassù trovarono liberi appena due posti attigui. Cesario Prisco li lasciò ai figliuoli, e rimase in piedi a capo della scalinata, di dove poteva meglio scommettere cogli amici. Lucilio, timido, a bassa voce indicava intanto al fratellino la tribuna imperiale, vuota, il seggio dei giudici, le tre mete dalla parte delle scuderie e le tre mete opposte con la porta trionfale, nella spina, i segnacoli con i delfini e le uova che servivano a numerare i giri della corsa.

Nè l’attesa fu lunga. Un silenzio immenso, improvviso.

Ecco: aperte le scuderie: ecco i carri. Avanzano sino al principio della spina; si allineano; ristanno davanti a una corda... Un istante. E a Valentino tremò il piccolo cuore; ebbe paura, non sapendo di che; cercò cogli occhi il padre. Ma Lucilio lo tirò per la veste e gli sussurrò: — Guarda!

Una mano agita una benda purpurea, la corda cade: via!

Nel galoppo molteplice si vedevan di pari le teste dei cavalli, le fruste alzate e i colori delle tuniche. E cominciarono le scommesse e il richiamo a tutti noto: — Libanio! Libanio! — Libanio non [p. 133 modifica] sferzava. Giunse ultimo alle mete, nel primo giro. Prima le oltrepassò la russata.

Allora Lucilio disse, dimentico del suo entusiasmo per la quadriga veneta o azzurra: — Io scommetto per la russata. E tu Valentino? — Valentino non ricordò più che appunto la rossa era la sua fazione; ricordò che la madre gli aveva detto:

— Vincerà Libanio — e rispose: — Io sto per Libanio, il verde!

— Sta attento! Non vedi che è ultimo, il verde? Guarda! Guarda!

Gli agitatori e giocolieri cominciavano a operare inganni in pro delle loro parti. Balzavano improvvisi, correvano qua e là, e facevan gesti da impaurire, e recavan cose da gettare nell’arena. Uno, a cavallo, tagliò d’un tratto la via, e la quadriga russata, che ancora precedeva, s’impennò; passò innanzi la veneta o azzurra, e giungeva l’albata.

Ma di subito, imprevedibile, un giocoliere si gettò a terra con meravigliosa arte, con pazzo ardire, cogliendo l’istante e l’intervallo fra le gambe posteriori dei cavalli e le ruote della veneta, ora precedente a tutte; e rialzandosi incolume, quasi sorgesse di sotto terra, spaventava i poledri dell’albata sopravveniente.

Così la russata riguadagnò terreno, ma per poco non arrotò la veneta e (fu da tutti i petti una voce di terrore) non la rovesciò. Approfittò dell’istantaneo indugio Libanio, senza che i suoi quattro cavalli, d’un splendido mantello baio dorato, [p. 134 modifica] sembrassero mutar norma al galoppo: superava secondo, subito dopo la veneta, il compimento del secondo giro. Quand’ecco un giocoliere gli gettò incontro un cesto: le ruote non lo toccarono. Un altro gettò un’anfora: evitata. L’auriga ancor primo si rivolse per colpire con la sferza agli occhi i cavalli che già aveva al fianco, ma Libanio evitò il tradimento facendo di nuovo scartare i suoi cavalli. E questa volta oltrepassava primo le mete.

— Libanio! Libanio! — Tutti gli spettatori, in piedi, plaudivano; più alte, deliranti, si levavano le acclamazioni dalla fazione prasina.

Se non che al quarto giro questa ebbe assai da temere. L’albata l’accostava; le era alle ruote. E le scommesse raddoppiavano di foga.

Cesario Prisco, sicuro di vincere, guardò sorridendo ai suoi figliuoli, ed essi parvero sentirne lo sguardo.

— Padre! — gli gridò Lucilio. — Io sto con te; per l’albata! — Ma Valentino pieno di ardire, adesso, felice, battè le mani e avverti tutto il circo:

— Io sto per Libanio!

V.

Repentinamente, enorme, un clamore di barbari all’assalto entrò dalle porte, sorse per le scale, proruppe. I mercenari! Con le spade, le lance, i pugnali, là dentro, a colpire urlando. Urlando [p. 135 modifica] zavano le lame sanguinanti; sul tumulto, sulle strida delle donne, sui gemiti dei ragazzi, sul terrore tacito degli uomini proclamavano la vendetta di Boterico.

Strage! Al macello andavano quanti con la frenesia dello scampo invadevan l’arena, tra le quadrighe già ferme, per di là raggiungere le scuderie o la porta trionfale: i macellatori vi aspettavano il branco. E a morire in massa andavano quanti si addossavano per le scalette; cadevano. I caduti facevano intoppo: monti di corpi da trafiggere inerti.

E dal terzo ordine moti si gettavano giù nella strada; e nei primi ordini cavalieri e patrizi invocavano e si davan la morte tra loro, per non essere sgozzati. A mani giunte, a voce chi alta e chi sommessa, le matrone chiamavano Gesù Nazareno. Le lame in alcune tentavano adagio il petto accompagnate da oscene esclamazioni e risate; in altre il colpo alla gola, accompagnato da un ruggito, era così violento da quasi mozzar il capo.

La strage! Il macello per vendicar Boterico. Per ordine di Teodosio il Grande mille carnefici su diecimila cristiani! Settemila vittime opposero invano il lamento dell’umanità sacrificata alla bestialità più feroce, truculenta, sitibonda di sangue umano.

Per vendicar Boterico! E sulla punta dell’obelisco, nella spina, fu infissa la testa di Libanio. [p. 136 modifica]

***

Cesario Prisco aveva afferrato e preso in braccio il figlio più piccolo, e tratto per mano l’altro, era stato dei primi a scendere. Ma allo sbocco del secondo ordine dovè arrestarsi, ritrarsi nel ripiano, appoggiarsi al balteo per non precipitare; per non perire, lui e i figli, sotto i fuggitivi che l’addossavano. E quelli che scendevano incontravano altri manigoldi che salivano. Cadevano morti. Egli, di là, quasi appartato per un miracoloso consiglio, col bambino che piangeva in braccio, con l’altro che gli stringeva un ginocchio e piangeva, vide i morti ostruir la scala, gli uccisori travalicarli. Poi vide che due, con la rabbia della belva che scopre la preda nascosta, gli muovevano contro: non mercenari: un decurione, erano, e un vecchio legionario.

Fece in tempo a deporre il bambino, a trar le monete d’oro, a tendere le pugna piene, a scongiurare:

— Salvateli! Ammazzate solo me, Cesario Prisco! Quel che possiedo per la vita dei miei figliuoli! Salvateli!

Il legionario carpì la manciata d’oro. Il decurione parve commuoversi. Un istante. Che istante!

Ma scosse il capo e disse:

— Tutte e due, no!

E il legionario: [p. 137 modifica]

— Gli agnellini scarseggiano nel pecorame che abbiamo da macellare!

— Uno sì! — e il decurione prese la sua parte di monete — . Scegli! presto!

Al padre si velarono gli occhi guardando Lucilio e Valentino che si tenevano abbracciati, stretti, muti.

Come a un morente cui ricorre sensibile, viva, la più remota impressione, tornò al padre la sua propria voce che diceva ai figliuoli lontana lontana:

— Chi dei due mi vuol più bene? A chi dei due voglio più bene? — E la voce non rispondeva ora: — Io!

Abbracciati, stretti l’uno all’altro, adesso erano muti. Ed egli non resse alla mostruosa necessità della scelta, alla mostruosa condanna.

— Ammazzatemi! — supplicò scoprendosi il petto.

Ma prime le due lame trafissero a un tempo, sotto i suoi occhi, Valentino e Lucilio.