Top/La passione d'un gentiluomo veneziano
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LA PASSIONE
D'UN GENTILUOMO VENEZIANO
Il «magnifico» gentiluomo Alvise Pasqualigo...
Non vi aspettate una fastidiosa novella in vecchio stile e vecchia forma. No, è un racconto di amore che si può dire di ieri e d’oggi. Perchè, come la passione è eterna nella sua vicenda di colpa e castigo — il castigo che la colpa ha in sè stessa — così ne è vera, e viva, e commossa, e attraente l’espressione, quando è sincera e priva di letteratura. E se qualche cosa varia, varia nel costume e nell’ambiente: ciò che giova nell’apparenza della novità.
Dunque il magnifico gentiluomo Alvise Pasqualigo, tornato dopo lunga assenza a Venezia, incominciò a scrivere lettere a madonna Vittoria: per non darle noia sette anni era stato lontano da lei; tre anni aveva errato per il mondo in vana ricerca di svaghi; sperando che lei almeno gli concedesse di svelarle a voce alcuni segreti, era tornato in patria.
A messer Alvise, buon amico d’infanzia, Vittoria (che era moglie d’un giovine conte) rispose per lamentarsi ch’egli le mandasse anche delle ambasciate affidandole a servi. «La mia professione è sempre stata ed è di donna d’onore, nè mai mi sarebbe caduto nell’animo che aveste usato meco sì fatta discortesia. Basta, pazienza, non resterò per questo di amarvi quale fratello...».
Ma Alvise meritava scusa, e le diceva: «Se io non vi facessi, per qualche vostra donna di casa, intendere i tormenti che per cagion vostra sostengo, in che modo potrei io vivere?».
E poichè la contessa scongiurava invano messer Alvise ad essere prudente, a non mostrare il ritratto di lei ad alcuno, a non mandarle ritratti perchè non voleva essere scoperta; poichè, non crudele come lui la chiamava, poteva dirgli in coscienza: «Io vi amo; il che mi pare che non sia male, nascendo dall’amore ogni buona operazione», qual fallo mai avrebbe commesso concedendogli di parlare, dietro la porta di casa, una sola volta?
Così, da quel primo onesto colloquio doveva penetrare nell’animo di madonna una gran dolcezza d’amore puro, una gran compassione per il nobile giovine innamorato: e quando lo seppe infermo in villa, gli scrisse amorosa che cercasse di venir a Venezia a rimettersi più facilmente; e poi, più tardi, gli si mostrava ammirata «dello splendore che senza pari ritrovava in lui», e per lui pregava il Signore: anche accettava e gli mandava piccoli doni.
Ma Alvise non viveva lieto, nè la promessa di lei, che «se è vero che di là più che di qua vi sia amore, e si ami, esso mio spinto in cielo vi godrà», gli arrecava bastevole conforto; avrebbe voluto tornare a discorrere con lei.
Lei temeva nella dimanda ostinata un’insidia, e disperando che l’amore di lor due rimanesse «giusto, fedele e onesto» com’era incominciato, minacciò Alvise di rifiutare le sue lettere. «Conosciuta la vostra disonestà, mi sono spogliata di quell’amore ch’io vi portava...».
E lui, disperato: «Già che tanto vi piace che dal mondo mi tolga, son contento di soddisfarvi. E per ciò mi risolvo, colla prima occasione, d’andar in luogo tanto lontano che secondo il desiderio vostro finisca i miei giorni» .
Finalmente madonna Vittoria, pentita e impaurita, un giorno l’accolse in casa. Fu quello il giorno della colpa. E da quel dì in avanti le lettere di madonna Vittoria si seguirono piene di amarezza, di tristezza profonda.
Dopo ciascuno dei gioiosi convegni essa piangeva.
«Come foste partito mi gettai nel letto e con gli occhi del corpo (benchè col pensiero a voi) mi addormentai: indi a poco svegliatami e ritrovatami senza di voi, cominciai a piangere sì forte che s’io non mi fossi nascosta sotto la piega del letto, avrei senza dubbio svegliato ognuno di casa... La malinconia m’è sì cresciuta che mi sento uscir fuori l’anima...».
Di lui era compresa così intimamente che a ripensarne le parole ne riudiva la voce e dalla voce ne riacquistava quasi la sensazione intera: si deliziava a martoriarsi finchè si abbatteva in una mortale angoscia.
«Da quell’ultima ora che mi parlaste fino a questa si è cresciuta in me La confusione, ch’io non so più quello ch’io mi faccio. Le vostre dolcissime parole mi sono rimaste così vive nella memoria che, se talor chiudo gli occhi, parmi di vedervi e di ragionar con voi; il che è cagione che molte volte stendo le braccia per abbracciarvi, e mi ritrovo ingannata. Destatami, vergognata di me stessa sento tanta passione che mi è forza di desiderar la morte per uscir una volta di pena...».
Non conosceva ancora la pena della gelosia; ma quando lui, il conte marito, cominciò a sospettare, e già alcuno dei vicini e dei conoscenti mormorava della tresca, dovettero contenersi e non vedersi che di rado. Quali altre donne amava Alvise? Ove passava il giorno? A che feste si recava?
Messer Alvise pareva tuttavia appassionato; e per andare da lei, avvertito da segnali di richiamo, sfidava ogni vigilanza. Se non che lettere anonime persuasero il conte che la moglie lo tradiva e tentarono persuadere madonna Vittoria che era ingannata dall’amante: il Pasqualigo ebbe minacce di morte entro otto giorni se si ritrovasse ancora una volta con Vittoria, ed essa pativa d’una gelosia divenuta incomportabile tormento.
Invano egli tentò di assicurarla che solo per nascondere il vero amore ne simulava ora un altro; Vittoria minacciava di uccidersi.
«Ma ditemi — le scriveva l’amante per frenarla — : vi piacerebbe ch’io rotto ogni freno di ragione, venissi con forza a levarvi di casa per torvi di mano a chi potrebbe tor la vita a voi? O pure vi piacerebbe ch’io, spinto dal desiderio della salute e contentezza vostra, uccidessi lui, e mi convenisse poi d’esser eternamente separato da voi?».
I pericoli infatti aumentavano con l’aumentare dei sospetti nel conte, il quale proibiva alla moglie finanche di stare alla finestra, e fino a un amico dava incarico di osservarla: a un certo Fortunio.
Costui già da tempo aveva saputo che un ritratto di Vittoria era in possesso d’Alvise; più di una volta era stato sul punto di sorprendere gli amanti; forse o senza forse era stato lui l’autore delle lettere anonime e quello che aveva trafugato a madonna un pacchetto di lettere: di madonna era innamorato anche lui. Oltre Fortunio spiava Vittoria una «ribalda» cognata o suocera.
E il marito «tutto il di gridava seco dicendole: io ti darò tanta mala vita che ti farò anzi ora morire...». Essa pensava ad Alvise «confinata in casa, sempre».
«Ieri vi vidi in strada, e credo certo che se lui non era in casa, io era sforzata, rompendo ogni velo d’onestà, di chiamarvi ad alta voce... Insomma, questa nostra vita è troppo aspra e mi pare quasi impossibile di poterla vivere lungo tempo...
«Misera e disavventurata! A che termine sono giunta per amore, dal quale non può o non dovrebbe nascere altro che buoni affetti e pur in me non provo altro che passioni, tormenti, e morte; e se io potessi finire, sarei contenta...».
«Bisogna frenare gli appetiti e scacciare certi pensieri dannosi», esortava Alvise col tono dell’amante che riflette dopo essere stato sodisfatto.
Cercava, nondimeno, di confortarla da vicino. Una volta, per parlarle, si vestì da donzella, e accompagnato da una donna si pose in chiesa, alla predica, nella stessa panca di lei; ma poi, sospettato uomo, fu costretto ad uscire. Un’altra volta, mentre stava discorrendo con Vittoria, essa fu sorpresa da uno di casa e minacciata di morte.
In tale guerra, con troppo brevi tregue, l’amore di messere Alvise si raffreddava, e nell’inquietudine e nei pericoli (egli doveva guardarsi da sicari; e un giorno ferì tre che l’assalirono per via, e non osava andar fuori che accompagnato da tre gentiluomini: Madonna Vittoria temeva che il marito l’avvelenasse) le doglianze e i raffacci diventavano più acerbi e più frequenti.
Per lei Alvise «aveva dispregiati gli onori della sua repubblica, per lei aveva messo a rischio l’onore offendendo, percuotendo e ferendo non solo uomini e donne di basso stato, ma di sangue nobile ed alto; l’amò per tutta la vita attendendo il guiderdone della divina maestà!». E Vittoria, di riscontro: «Le vostre crudeltà sono tante e tante che meritano che ciascuno le fugga!».
Alla fine, lui le scrisse che per non accontentare i suoi, i quali volevano s’ammogliasse, partirebbe da Venezia. Essa lo scongiurò che rimanesse; magari s’ammogliasse; e lo minacciò: «Vi avvertisco bene che vi potrete ancora chiamare pentito. Tenetevi bene a mente queste parole, perchè si verificheranno» .
Lui se ne andò. E lei giurò di vendicarsi.
II.
La lontananza parve spegnere affatto l’antica fiamma nel cuore di messere Alvise Pasqualigo; ma bastò che ritornasse a Venezia perchè la vista dell’amante gli ravvivasse nell’anima, dalle poche faville che v’erano rimaste, tutto il fuoco d’un tempo. Ahimè! Trovò madonna Vittoria mutata al bene e molto sicura contro le tentazioni.
«Mentre che siete stato lontano (essa gli scriveva), per non perdere l’anima insieme col corpo, ho pregato Iddio che rompa il fisso pensiero che di voi avea... e fui esaudita».
Non le credette. E lei:
«Io conosco il vostro amore verso me, fuori di ogni mio merito, ardentissimo, e confesso di aver ricevuto da voi quantità di cortesie, che quando anche spendessi mille volte la vita per voi, non pagherei la minor di quelle. Ma perchè io mi sono deliberata di voler rimettere tutte queste vanità corporali, rivolgere l’animo a Dio e riconoscerlo per mio Signore vivendo vita cristiana, vi prego che non vogliate romper questo mio proponimento col molestarmi ogni ora colle vostre lettere...».
No no... non le credeva; Alvise sospettava il tradimento.
Infatti non pentimento, non rimorsi l’avevano mutata così, ma la colpa di lui che era stato lontano quattro mesi e non le aveva scritto neppure una lettera. E non s’era mutata così come diceva: aveva davvero un amante. Un giorno Alvise vide che nell’altana, ove si biondeggiava i capelli al sole, accoglieva Fortunio. Fortunio, quello delle lettere anonime! Fortunio il delatore!
Essa negò. Ma Fortunio, per vanagloria e paura a un tempo, disse al Pasqualigo: — È vero — . Lei stessa, madonna Vittoria, l’aveva tratto a sè.
E Madonna Vittoria dovè confessare. E confessò senza vergogna, con audacia, con impudenza:
«Voi sapete che vi partiste contra mia voglia e ch’io rimasi tra tanto duolo che come morta me ne giacevo nel letto; onde alla fine, disperata, veggendo che non vi curavate nè anche di consolarmi con una semplice carta, caddi in tanta gelosia, ch’ebbi ad impazzire, e mi risolsi vedendo il mio male senza rimedio, di oprar ogni sorta di malia per liberarmi di tante angoscie.
«Attesi l’occasione, la quale non sì tosto mi venne che l’abbracciai nel modo che avete inteso da quel crudele, che più tosto dovea patir morte che confessarvi le cose passate tra lui e me... Ma pazienza! La mia fortuna ha voluto ch’io spenga affatto l’amor vostro e sì m’accenda di lui che non abbia mai requie...».
Pazienza? Ed essa perdonava a quel perfido: l’amava e nell’amore nuovo, e nell’abiezione, non avrebbe avuto più un pensiero, una parola, uno sguardo per Alvise!
Alvise Pasqualigo allora non sopportò l’abbandono deciso ed assoluto della donna che aveva amata troppo e troppo a lungo; non volle rassegnarsi alla vendetta di madonna Vittoria; non si riebbe, e la gelosia travolse nel fango l’anima sua e la dignità d’un uomo. Nessun innamorato fu mai un mendico più sordido di Alvise Pasqualigo, che scriveva:
«Fate almeno per una volta sola che io venga a voi, ch’io venga a baciar la terra dove voi tenete i piedi...».
Madonna Vittoria, senz’altro, gli rimandava i ricchi doni; le lettere, il ritratto.
E lui:
— «O mio amore infinito, o donna ingrata! E qual altro sarebbe stato che non avesse scoperto al mondo i vostri tradimenti acciocchè foste stata riconosciuta per quella che siete? Voi meritavate pure ch’io scoprissi il vostro adulterio a vostro marito; ma io non voglio che la fragilità di donna poco savia mi faccia far atto indegno di me».
Si sarebbe contentato di essere amato da fratello purchè talora gli fosse concesso di vederla, di ragionarle «con quell’amore che sogliono i fratelli famigliarmente»!
No: essa l’odiava, ora.
«Voi secondo ch’io bramo vi lasciate vedere ogni giorno, ma vi mostrate sì colma d’orgoglio che men noia mi apporterebbe il non vedervi. Se io vi saluto voi vi volgete ad altra parte; s’io vi parlo, sorda e muta vi mostrate, e io posso dire, in verità, d’essere odiato a morte».
Peggio: era burlato.
«La mia mala fortuna vuole che io abbia gli occhi d’Argo acciò ch’io vegga la cagione della mia rovina. Son contento, poi ch’altro non posso, che voi m’inganniate. Ma che i vostri amanti mi burlino, non patirò mai. Se gli avete cari, fate che mi lascino stare e che si contentino di godervi».
Troppo a basso era caduto: un impeto d’ira contro l’amante di lei, se non contro la donna, se non contro se stesso, non avrebbe potuto scuoterlo e sollevarlo? A vedere madonna Vittoria alla finestra, con la faccia ridente, e Fortunio sotto, che le rispondeva, «spinto da furor geloso» e attaccata questione, ferì il drudo...
Ma dopo scongiurò Vittoria che gli perdonasse!
Atterrita, essa rispose: «Il solo rispetto mio doveva por freno ad ogni vostra voglia, nè amandomi doveva aver maggior forza lo sdegno che l’amore; ma poi che le cose passate non hanno rimedio e che mi chiedete perdono, io ve ne faccio grazia...».
E, per convincerlo, gli mandò copia della lettera con cui diceva addio a Fortunio. Gli diceva:
«M’abbandonai ad amarvi vinta da certe qualità che mi pareva di scorgere in voi» .
Le pareva! Le qualità di quell’uomo le parevan amabili dopo che l’aveva saputo delatore, sicario, vigliacco! Che menzogna! Che infamia! Spudorata. Abietta.
E allora, ma solo allora, Alvise Pasqualigo aprì gli occhi. Non comprese che se lei era giunta a tal segno, la prima colpa ricadeva su lui stesso; non ricopiò che per amor suo la donna aveva pianto. Con un pretesto, finalmente, spezzò l’ignobile legame.
E mutato il nome di lei, ne pubblicò, insieme con le sue, le lettere: nel 1569.