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140 Adolfo Albertazzi


A messer Alvise, buon amico d’infanzia, Vittoria (che era moglie d’un giovine conte) rispose per lamentarsi ch’egli le mandasse anche delle ambasciate affidandole a servi. «La mia professione è sempre stata ed è di donna d’onore, nè mai mi sarebbe caduto nell’animo che aveste usato meco sì fatta discortesia. Basta, pazienza, non resterò per questo di amarvi quale fratello...».

Ma Alvise meritava scusa, e le diceva: «Se io non vi facessi, per qualche vostra donna di casa, intendere i tormenti che per cagion vostra sostengo, in che modo potrei io vivere?».

E poichè la contessa scongiurava invano messer Alvise ad essere prudente, a non mostrare il ritratto di lei ad alcuno, a non mandarle ritratti perchè non voleva essere scoperta; poichè, non crudele come lui la chiamava, poteva dirgli in coscienza: «Io vi amo; il che mi pare che non sia male, nascendo dall’amore ogni buona operazione», qual fallo mai avrebbe commesso concedendogli di parlare, dietro la porta di casa, una sola volta?

Così, da quel primo onesto colloquio doveva penetrare nell’animo di madonna una gran dolcezza d’amore puro, una gran compassione per il nobile giovine innamorato: e quando lo seppe infermo in villa, gli scrisse amorosa che cercasse di venir a Venezia a rimettersi più facilmente; e poi, più tardi, gli si mostrava ammirata «dello splendore che senza pari ritrovava in lui», e per