Top/Il cane dello zio Prospero
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IL CANE DELLO ZIO PROSPERO
I.
— Top!
Il cane seguitò per la sua strada, proprio opposta a quella da cui veniva il padrone — Prospero Marzioli — nel tornar a casa.
— Top!
Al secondo più forte richiamo il bracco dovè ricordarsi del castigo meritato altra volta facendo il sordo: una schioppettata della quale, più che pallini, gli restava addosso una gran paura. Piegò il capo; si fermò un istante, quasi a riflettere; poi accorse. E dimandava grazia con la coda e con gli sguardi. Se non aveva da temer lo schioppo — perchè si trovavano in paese —, c’era il bastone non meno spaventevole a rammentarne i colpi; e a vederlo già alzato — misericordia! — si comportò come soleva in tale pericolo. Una tattica tutta sua: s’abbatteva in terra supino, le gambe piegate e rattratte. Così salvava almeno il cocuzzolo e il dorso ed esponeva solo la parte del corpo più tenerella e più acconcia, secondo lui, a commuovere la pietà padronale.
Ma quel giorno nel rivolgere la testa e il collo espose al padrone anche una cosa più commovente: di sotto al collare uscì una carta, un bigliettino che, ben arrotolato, vi era tenuto stretto da un filo. Oh!
Oh! oh! Mentre il signor Prospero se ne stava tranquillo dal barbiere o dalla tabaccaia. Top serviva dunque da portalettere, da messaggero, da... A chi? Uno strappo; e, senza neppur leggere intera una parola, gli fu manifesto, al signor Prospero, chi commetteva il contrabbando. Non gliel’aveva insegnata lui, all’Elena, la calligrafia?
Elena — innamorata!
Ebbe la tentazione di leggere tutto: ma si trattenne, vinto da un senso di profanazione e disgusto, dall’amarezza che gli salì alla gola e quasi dal dubbio che il suo tradimento fosse più riprovevole dello stesso inganno in cui gli pareva d’esser caduto.
Ricompose il biglietto; tornò a legarlo; poi comandò iroso: — Su! Via! — ; e accennava al cane la strada della missione incompiuta.
E Top, contentissimo, scappò a compierla.
II.
Innamorata — Elena! Di chi? Non gl’importava saperlo; particolare secondario nel fatto enorme. Questo: che la bambina di ieri, la fanciulletta in cui egli aveva raccolta tutta la sua affezione e una gioia superiore forse a quella di padre, Elena già palpitava per un bene segreto, celato a lui, lo zio, come a qualsiasi altro che potesse contaminarlo! Peggio che un inganno, quella condotta non dimostrava oltraggiosa diffidenza? ingratitudine? E perchè non avvertire il fratello o la cognata? Non ne aveva l’obbligo. Prospero Marzioli?
Egli rincasò fermando questo proposito nella mente confusa. Ma non entrò per la porta grande: entrò per la porta del camerone che da secoli era usato, dai Marzioli — razza di cacciatori — a uccelliera, museo di vecchie armi, magazzino e officina d’ogni arnese da caccia. E con un calcio spedì la civetta a soffiare in disparte, e avanzando ad aprir la finestra rovesciò la panca con su le pentole del vischio e le ciotole dei chiodi. Quella mattina si sbagliò fin nel distribuire il pasto ai richiami: mise vermi e cuor trito nel beccatoio dei fringuelli; i merli ebbero miglio e canepa. Anche, un beveratoio gli sfuggì di mano e andò in pezzi. E ruppe del tutto, e quindi gettò sotto la tavola, la gabbia di vimini da accomodare. E passato nella camera da pranzo appena fu certo di non essere visto, salì nella sua camera; e adocchiò dalla finestra scostando un po’ la tenda.
Elena se ne stava là, nel cortile, all’ombra. Cuciva. — Innamorata!
Ebbene: c’era da meravigliarsene tanto? Diciott’anni; ormai diciannove; e una bella ragazza. Molto bella! Due occhi di una dolcezza ineffabile; un sorriso di anima pura; i capelli biondi...
«Ah quando tu, zio, le dicevi: — perchè ti pettini così? — e lei diceva: — perchè è di moda — , e tu ribattevi: — non mi piaci — , tu mentivi: avresti voluto che nessuno la vedesse pettinata alla moda, i biondi capelli spartiti su la fronte bianca e serena. E quando, vestita di nuovo, la mortificavi: — questa tinta non ti si confà; stai male — , tu ingelosivi dell’ammirazione che susciterebbe. E quando la sorprendevi nell’atto di specchiarsi e l’accusavi di vanità, e lei, timida, arrossiva quasi colta in fallo, tu dubitavi fin d’allora che verrebbe il giorno in cui, specchiandosi, essa non penserebbe solo a sè, penserebbe a chi non sarebbe certo suo zio».
Dalla voce che gli parlava dentro in tal modo il signor Prospero derivò argomento a darsi, per minor rimprovero, dell’imbecille.
«Timida? Imbecille! È timidezza l’amoreggiare e ricorrere a sotterfugi? valersi di strattagemmi piuttosto che confidare nel senno dello zio, se non della madre o del padre?».
Ma l’intima voce opponeva: «Che sai tu, vissuto fuori del mondo, delle audacie a cui una ragazza, appunto perchè timida, appunto perchè ha soggezione dei suoi e dello zio, può essere indotta dall’amore? Che sai, tu, di quel senso di pudore verginale per cui un’anima ingenua affronterebbe ogni rischio anzi che svelarsi appunto a chi crede d’aver acquistato il senno dall’esperienza della vita? Che sai, tu, degli ostacoli che Elena veda per la realtà del suo sogno e della fede che abbia solo in se stessa per superarli? E perchè mai la rimproveri nel tuo pensiero, appiattato dietro una tenda, e non le manifesti apertamente il tuo pensiero, il tuo dispetto, il tuo rammarico? Saresti timido anche tu? innamorato... anche tu, di lei?».
Come se la tenda si sollevasse di colpo e Elena di laggiù e il mondo intero gli leggessero in faccia quest’ultima dimanda, il signor Prospero si tolse dalla finestra, e si accasciò su la poltrona ad ascoltarsi e a consultarsi.
Innamorato, no, non gli pareva di essere (non gli pareva: a quarantatre anni! di sua nipote!), ma geloso, sì: non poteva negarlo; non poteva ammettere che quella creatura bella, a cui aveva dato tanto del suo cuore e del suo animo, divenisse preda d’un altro, d’un indegno, forse; non poteva immaginarla fidanzata, immaginarsi spettatore dei sommessi colloqui di lei, felice. Un martirio insopportabile!
— Top! Vieni qua. Top! il mio Top! — gridava Elena.
E il povero zio scattò in piedi; tornò ad osservare di soppiatto. Il cane, di ritorno a casa, era venuto a lei; lei lo accarezzava; lo premiava con lo zucchero o i dolci; e intanto rigirava il collare di sotto in su; ne staccava il cartellino, la risposta.
«L’ammazzo!». Ohibò! Ammazzato Top, perduta Elena, che gli resterebbe al mondo? Con la visione rapida e precisa di un morente, il signor Prospero scorse tutto il suo passato, la sua esistenza inutile. Non un amore serio; non una salda amicizia; nessun altro svago, altro diletto che la caccia; nessun altro scopo. Eppure durante diciotto anni gli era sembrato di vivere pienamente, nell’affetto della nipote. Elena! Elena! Quando, piccolina, gli veniva incontro ad abbracciargli le gambe! quando, su le ginocchia, gli tirava i baffi! quando — e lui fingeva di non accorgersene — apriva gli sportelli delle gabbie, e i cardellini e i verdoni, via! Chi gli avrebbe mai detto allora che per lei dovrebbe soffrire? E quando la piccolina si ostinava a non capir le lezioni, e piangeva, e lui s’inquietava e la giudicava poco intelligente, chi gli avrebbe detto: un giorno la conoscerai più furba di te?
«Come avrà fatto a istruir Top? — L’ammazzo!».
Ohibò, signor Prospero! Non bastava levargli, a Top, il collare? Elena comprenderebbe che lo zio sapeva; tremerebbe; gli confesserebbe tutto.
E il signor Prospero deliberò di levar il collare a Top. E, per la speranza di soffrir meno, prese anche una deliberazione più grave.
III.
Se, poco oltre mezzodì, lo zio Prospero non sedeva a tavola ad aspettar il fratello, la cognata avvertiva la domestica o l’Elena: — chiamate il cane! — ; e se il cane non arrivava, eran certe che lo zio desinerebbe in campagna e rincaserebbe solo la sera. Quel giorno dunque si meravigliarono a veder il cane e a non veder lui. In ritardo? Non tardava mai. Invitato da qualche amico? Non aveva amici che lo invitassero a pranzo, e quando ne avesse avuti, non ci sarebbe andato. Cos’era successo? L’Elena stentava a dissimulare l’angustia. Ma per fortuna nessuno, all’infuori di lei, si accorse che a Top mancava il collare; e, per fortuna maggiore, suo padre — nonostante il fiero aspetto — era l’uomo più pacifico di questo mondo. Egli si limitò a dire:
— Chi non mangia, ha mangiato.
Non sospettava di nulla. E non si meravigliava di nulla, Adelmo Marzioli! La spiegazione della strana assenza l’avrebbero, prima o poi: inutile preoccuparsene.
Egli, infatti, l’ebbe prima di averci ripensato: due ore dopo mezzogiorno, alla Congregazione di carità ov’era segretario.
Prospero gli comparve dinanzi con gli occhi semichiusi sotto le ciglia folte e lunghe, in un’attitudine quasi violenta per lo sforzo della volontà. E al fratello, che attendeva zitto e cheto, parlò con un lieve tremito nella voce.
— Ho pensato che è meglio ci dividiamo. Io mi tengo la Valletta; a te l’altro podere, la vigna e la casa. Nella casa mi riservo il camerone. Ci mettiamo il letto; il camino c’è: mi basta.
— Come vuoi — disse Adelmo Marzioli.
— Incarichiamo del rogito il notaio di qui o di Faenza?
— Come vuoi.
— Siamo d’accordo?
— D’accordo.
E Adelmo Marzioli riprese a scrivere.
Se non che mentre Prospero stava per uscire successe quasi un miracolo: il fratello aveva qualchecosa da aggiungere.
— Ehi! Senti!
Prospero si voltò.
— Cosa ne dirà il paese?
Prospero rispose: — Dirà quel che dico io: che io sono un uomo all’antica e le tue donne vanno alla moderna; che, secondo me, voi spendete troppo in proporzione al tuo stipendio e alle entrate, e io voglio assicurarmi della mia parte per quando sarò vecchio e per lasciarla, quando morirò, a mia nipote se non si mariterà, o se sposerà uno della sua condizione. È chiaro?
— È chiaro.
— C’è altro?
— Nient’altro.
***
La separazione non dispiacque neanche alla cognata. Non che Prospero le avesse mai dato soverchio disturbo; sempre però l’avevan tenuta in un certo disagio quel suo carattere scontroso e quelle sue abitudini di misantropo, e da un pezzo in qua egli la seccava con le osservazioni a ogni spesa che si faceva per l’Elena. — Ah ah! vestito nuovo; scarpine nuove! oro! gioielli! Durerà? — Dispiacere, e più che dispiacere, provò invece l’Elena. Come ad accorgersi di Top senza collare pensò che lo zio aveva scoperto la marachella, all’avvenimento che seguì pensò che lo zio era impermalito con lei; e dubitò d’averlo contrario nelle sue speranze. Avrebbe voluto impietosirlo dicendogli: — Io le sono tanto affezionata! sia buono! — , o magari provocarne lo sdegno dicendogli: — Che cosa le ho fatto, io? — ; purchè parlasse! Il silenzio di lui l’atterriva. Ma non osava andar a trovarlo nel camerone; affrontarlo. Finchè ebbe un’idea. Dall’uscio che dal camerone metteva nella stanza da desinare la madre aveva tolta la grossa chiave. Elena s’avvide che per il buco della toppa passava una spera di luce. Allora si chinò, guardò, scorse le gambe dello zio andare e venire. Benissimo! E colto il momento che nessuno poteva udirla, fece, a voce bassa:
— Zio! zio!
Lo zio palpitò; volse lo sguardo intorno; e non fiatò.
— Sono qui dall’uscio! M’ascolti! Una parola, zio!
Egli non fiatò; non si mosse.
— Io le sono tanto affezionata, e lei non mi risponde nemmeno! Cosa le ho fatto, io?
Ma a questo punto Top, il quale giaceva nel cantuccio vicino alla civetta, tese gli orecchi, si alzò, precipitò all’uscio; e drizzato su due piedi contro di esso, si mise ad abbaiare e a guaire affettuosamente.
— Ah Top! il mio Top! Tu sei buono! Diglielo tu allo zio che è cattivo, che mi fa soffrire!
Cattivo? Soffrire? Era un’ingiustizia! un’infamia! Lo zio non ci resse più. Esclamò, ironico:
— Soffri, eh, perchè ho levato il collare a Top?
Poi, con sarcasmo per lei e per sè medesimo:
— A far all’amore non potrebbe servirti, in cambio, il buco di una serratura?
Nessuna risposta. Non s’udì più che il vario vocìo dei richiami. E Top tornò ad accucciarsi vicino alla civetta.
IV.
Non molti giorni dopo, mentre stava aggiustando gli staggi a una rete, il signor Prospero udì battere alla porticella di strada e chiedere forte:
— È permesso?
Nè aveva ancora risposto — avanti! — che un signore entrò; giovine.
— Disturbo, signor Marzioli? Mio padre mi ha consigliato di venir da Lei per...
— Chi è vostro padre? — interruppe il Marzioli senza muoversi da sedere e senza far complimenti.
— Tarelli! Io sono Diego Tarelli.
Ah! aveva dinanzi il figlio del conte; il più ricco del paese: bisognava riceverlo con garbo.
— S’accomodi! Mi dispiace... — affrettò cerimonioso e imbarazzato — ; in questa stamberga..., in questo disordine...
— Amabile disordine! — esclamò, disinvolto, il giovine. — Sapesse come l’invidio, signor Prospero! Lei è il più famoso cacciatore di Romagna! Quante volte a Roma ho pensato a lei!
— A Roma?
— Ci ho compiuti gli studi; e adesso sono, vorrei diventar cacciatore anch’io. Ecco — aggiunse contemplando le gabbie in terra o appese al muro — : ecco i richiami, i cantaiuoli! Quaglie. Un merlo. Cardellini. Fringuelli. Un fanello...
— Un frisone — corresse il signor Prospero.
— Sbagliavo: un frisone; un...
— ...bigione.
— E quante reti! Di quante sorta! Piccole, grandi, a maglie larghe e a maglie strette. E han tutte il loro nome, eh?
— Sì. Quella lassù, distesa, si chiama aiuolo; quella accanto, paretella; quell’altra, è una ragna. Queste qui giù sono erpicatoi, diluvi. Questa che sto aggiustando è una lungagnola.
Intanto Diego Tarelli cercava accostarsi all’uscio (l’uscio dal buco della serratura aperto); e come ci fu, volse il dorso e alzando gli occhi alla parete di contro:
— Anche armi antiche — disse — Curiose!
Il signor Prospero accennava:
— Uno schioppetto del seicento. Una cerbottana; una balestra.
— E gli ordigni, più in basso?
(Com’era difficile...).
— Corni da polvere.
— No: intendo dir gli altri, là, a terra.
(Com’era difficile infilare un bigliettino nel buco della serratura voltandole le spalle!).
— Sono trappole; pignuole; bertovelli.
— E il modo d’usarli?
— Semplicissimo.
Il signor Prospero andò a prendere una gabbia col ritroso per dimostrarla da vicino al visitatore; e questi intanto riuscì a spingere nel buco il biglietto che la mano dell’Elena da un pezzo era pronta a ricevere.
Ma la faccenda non doveva finir bene. Colpa di Top.
Il quale, spalancata d’un salto la porta, entrò, e a veder Diego Tarelli gli fece la festa dovuta a un caro amico.
— Top! Top! — Il giovine non potè fingere di non conoscerlo.
Allora un sospetto balenò alla mente del signor Prospero. Strinse gli occhi sotto le ciglia folte e lunghe. Dimandò, cupo:
— Vi conoscete?
— Chi non conosce Top? Tutto il paese! Io poi ne sono un ammiratore; e appunto perciò sono venuto a disturbarla, signor Prospero. Me lo vende? a qualunque prezzo...
«Me lo vende?» Ahi ahi! Cotesta dimanda, cotesta proposta, urtando nel sospetto che tornò a insistergli in mente, strappò, a un tratto, fuor di sè lo zio. Parve investir il visitatore, minacciarlo con la gabbia in mano. — Vendere, io, Top?
Vendere Top, la sola creatura affezionata che, perduta Elena, gli resterebbe al mondo, almeno per qualche anno?
— Vendere il mio cane? — ripetè più forte. — Io? Top?
E prima che l’altro potesse articolar parola, tanto era rimasto sorpreso da quella veemenza, seguitò:
— E voi dite di essere, di voler essere cacciatore? No! — gridava e gli agitava, avanti e indietro, sotto il naso, la mano sinistra con l’indice teso —. No! Cacciatore tu, giovinotto, non sarai mai! mai! Non sei, tu, che un signorino, un ricco! — E aveva nella voce il disprezzo di chi accusa una brutta azione. — Già! perchè avete dei soldi, molti soldi, voi signori, voi ricconi, vi credete lecito tutto: ogni indelicatezza, ogni sopruso, ogni usurpazione di affetti, di cose care! Ma ci sono delle cose che non si vendono, che non si comprano! Tientelo a mente, giovinotto mio!
Diego Tarelli aveva lui pure sangue romagnolo nelle vene; nondimeno si contenne. Riflettè che aveva a fare non solo con un mezzo matto o un matto intero, ma con lo zio di Elena. E borbottava delle scuse.
— Non credevo d’offenderla... Mi scusi... Mi perdoni...
— Che scusare e perdonare! Vattene e buon giorno!
— Sì! Buon giorno!
Il giovinotto se ne andò chiudendo di colpo la porta.
E il signor Prospero si accasciò su la seggiola.
— È lui! — mormorava —. È lui l’innamorato di Elena!
Bella lezione, però, gli aveva data!
Tale lezione, infatti, tale innamorato che appena fu fuori Diego Tarelli temè il crollo della sua felicità in causa di quel matto zio e di quel benedetto e maledetto cane; e corse alla Congregazione dal signor Adelmo Marzioli a chiedergli la mano della figlia.
V.
Confermandosi nell’ipotesi per cui si era arrabbiato, il signor Prospero ebbe un rigurgito di amarezza in gola; poi si sentì pieno di male il cuore. E si sfogò a inveire, entro di sè, contro la nipote. Stupida! Infatuarsi d’un Tarelli! Credere avesse buone intenzioni e si proponesse davvero di sposar lei! Non dubitare che egli amoreggiasse per divertimento! Stupida! — Poi inveì di nuovo contro quel gaglioffo che lusingava, per divertimento, una ragazza onesta, la nipote di Prospero Marzioli! canaglia! briccone!
Se non che, a pensarci, comprendeva ora come la richiesta di comprar Top fosse stata un pretesto e come la visita, con i salamelecchi e le adulazioni, dovesse avere avuto uno scopo anche più ignobile: stringere amicizia con lo zio; ingraziarselo, servirsi di lui meglio che del cane. — Ragazzaccio! Tu sei furbo, ma...
Più furbo lui, lo zio!, quantunque non arrivasse a immaginar tutta la verità. Questa: mancato il sussidio del collare, giudicando troppo rischioso il gettito dei biglietti e delle letterine dal muro del cortile, oh che restava all’Elena se non suggerire a Diego il mezzo suggerito dallo zio a lei: il buco della serratura?
Nè lo sfogo sollevò il signor Prospero; egli non ebbe riposo nel cuore e nella testa. Adesso voleva e non voleva parlar alla nipote, esortarla a metter giudizio o, no, tacere. Finchè l’ira di nuovo prevalse.
No; l’Elena non meritava i suoi consigli! Non aveva avuto fiducia in lui; non ne aveva: corresse dunque al castigo; alla delusione! E, dopo tutto, per lei sarebbe meglio. Non s’innamorerebbe più così facilmente; forse non si mariterebbe mai; vivrebbe nel bene dei suoi e dello zio. Questo, questo egli, ora, sperava!
«Egoista!» gli gridò la coscienza; e mentre si ascoltava sorpreso, «egoista» gli sembrò ripetessero dalle gabbie, piangendo e cantando, le creature schiave della sua vita inutile; «egoista!» sembrò affermar anche Top, che era stanco di dormire e desiderava andar fuori, in campagna, a caccia.
Onde Prospero Marzioli, più afflitto che mai, si alzò, prese lo schioppo, passò il braccio nella cinghia; si diresse alla porta da cui il bracco l’aveva preceduto. Ma sulla soglia ristette.
E tornò indietro; e venne all’uscio a figger lo sguardo nel buco della serratura. Non vide nessuno. Elena! Elena! Chiamarla? Non ne ebbe la forza.
Oh! fuggire di là, in campagna, a caccia, con Top, a guarire del male che aveva nel cuore!
VI.
Rimase alla Valletta una settimana: tempo sufficiente perchè il vecchio contadino, il quale dianzi l’aiutava a tender le reti, a invischiare, o a batter le macchie, si convincesse che il padrone era ammattito del tutto. Aveva mandato a prendere i richiami, la civetta e gli arnesi; ma non si recarono nemmeno una volta al paretaio o nelle larghe a tirar alle allodole. Camminavano su e giù per i campi aspettando che il cane scovasse la lepre, e non sparavano un colpo; e sedevano stanchi alle prode dei fossi. Ivi il padrone o contemplava, vattelapesca chi e che cosa, oppure discorreva in modo che non l’avrebbe capito l’arciprete.
— La verginità volontaria avvicina l’umanità a Dio. Lo credi?
— Sissignore — il vecchio rispondeva, fedele al principio che conviene dar sempre ragione ai matti.
— Da che mondo è monda la vita fu considerata come una prova dell’uomo e della donna per elevarsi, perfezionarsi l’anima; e l’amore, come s’intende dai più, fu considerato un abbassamento, un prolungamento di quella prova superata soltanto dalla verginità. Lo credi?
— Dice bene lei!
E un’altra volta, quel poveretto, tenne al contadino questo bel discorso:
— Tu negli alberi non vedi che frasche da sfogliare, legna da tagliare e da bruciare; nei fiori non vedi che un ghiribizzo della madre terra; negli uccelli non vedi che materia da umido o da arrosto. Sforzati invece a pensare che tutte queste creature sono animate dello spirito che ci dà vita a noi, e starai meglio con loro che con gli uomini e con le donne. Lo credi?
Il vecchio rispose:
— Credo sia già suonato mezzogiorno. Andiamo a mangiare, signor padrone?
Rincasando non si accorgevano, l’uno per la filosofia e l’altro per l’appetito, che Top era scomparso.
Top, con mirabile puntualità, all’ora di desinare giungeva ogni giorno a casa Marzioli, dove l’Elena gli preparava la zuppa. Mangiava; dormiva; quindi tornava in campagna desideroso di novità.
Ma ne era più desideroso, di novità, il signor Prospero. E l’ottavo giorno, per interrompere in qualche modo la pena protratta, riprese la via del paese e del camerone.
***
Il trambusto di lui, là dentro, trasse l’Elena all’uscio, come egli aveva immaginato.
— Ehi, zio! sono qui: ascolti una parola!
— Elena!
Mai chiamandola lo zio aveva avuto una voce così tenera; la voce di chi ha pianto. Aggiunse:
— Che vuoi?
— Ho una cosa da dirle; accosti l’orecchio.
— Son qui.
Un lungo attimo di silenzio. E l’Elena sussurrò:
— Non mi attento.
— Ah — egli fece, pentito a un tratto d’essersi abbassato alla serratura — : ti attentavi però ad attaccar i bigliettini al collare del cane!
— Bene, zio! — mormorò pronta la ragazza — : lei adesso può star tranquillo; può rimettere il collare a Top.
Se dal buco della serratura Prospero Marzioli avesse scorto l’universo quale possessione sua, tutta sua, non avrebbe provata tanta gioia!
Rimettere il collare a Top, star tranquillo, non significava forse che l’amoreggiamento era finito? Senza dubbio il Tarelli, dopo la lezione ricevuta dallo zio, aveva rinunciato all’Elena. Quant’era bello adesso il mondo, sebbene dal buco della serratura non si scorgesse più nessuno e non si udisse più nulla!
E ora Prospero Marzioli poteva incontrare Adelmo Marzioli senza timori e senza rimorsi.
L’incontrò poco dopo, che veniva dalla Congregazione. Ma — miracolo! — questa volta parlava prima lui, Adelmo; al solito, però, pacato e conciso.
— Il figlio di Tarelli ha dimandato l’Elena. A San Martino si sposano.
Elena — sposa!
Lo zio Prospero impallidì; diventò rosso; tacque finchè fu certo di poter dissimulare la passione con lo sdegno. Un lungo attimo; e aggrottate le ciglia, esclamò:
— Non aspettatevi regali, non aspettatemi alle nozze. Sono uno da star a pari dei Tarelli, io?
Bene. Non si commosse Adelmo; chiese soltanto:
— C’è altro?
— Nient’altro — rispose Prospero allontanandosi e premendosi con la mano il cuore.
VII.
E rimise il collare a Top. Ma chiuse per sempre il camerone delle memorie e delle glorie sue e familiari.
Alla Valletta — ove dimorava in una piccola stanza simile a una cella — consumava molta parte del giorno leggendo o tentando di leggere. Aveva dato la libertà ai richiami e alla civetta; e a caccia non andava più che con Top, senza sparare un colpo. Nel dissidio che era in lui fra l’energia della razza e l’affievolimento dell’amore — l’amore per tanti anni respinto — l’amore troppo tardi conosciuto — ora si meraviglierà di aver potuto incrudelir con le creature innocenti e liete eppur godere, nel tempo stesso, della comunione di sè con la vita naturale; ed ora si rammaricava d’esser così mutato, d’esser così fiaccato nel suo soffrire.
Elena! Avrebbe voluto udir parlare sempre di lei, solo di lei.
Spesso gliene discorreva il vecchio; ogni volta che tornava dal paese. Quante chiacchiere intorno al matrimonio Marzioli Tarelli! Che cotta s’era buscata quel giovine! Che fortuna, quella ragazza! Ma la meritava. La più bella ragazza del paese! Una bella romagnola!
Già si sapeva che, il dì di San Martino, le nozze sarebbero celebrate con gran pompa; e dopo, gli sposi partirebbero per Roma.
— Col diretto delle undici — notò, per dire qualche cosa, per nascondere sè a sè stesso quasi con una prova d’indifferenza, il signor Prospero. Poi dimandò aggrottando le ciglia:
— E di me cosa si pensa?
— Qualcuno pensa che lei ha giudizio.
— Perchè?
— Perchè lei non approva questo matrimonio. I Tarelli han troppi soldi, e i troppi soldi non han mai fatto contento nessuno.
VIII.
Alla proda del fosso, davanti all’acaciaia, Prospero Marzioli sedeva tenendo lo schioppo appoggiato al ginocchio sinistro e poggiando sul destro il gomito si reggeva col braccio e con la mano il capo. Aspettava passasse il treno che portava gli sposi al viaggio di nozze. Finalmente — ecco — sobbalzò. Laggiù tra gli alberi, sotto il fumo che livido stentava a sollevarsi e a diffondersi nell’aria umida, egli osservava scorrere il convoglio, rotear via rombando.
Elena! Elena! Senza voce la chiamò con tutta l’anima; invisibile agli occhi, la vide; la perdè: con tale angoscia che non si morse più le labbra per trattenere i singhiozzi. Nè allora ebbe vergogna di sè stesso. Gli parve allora che la derisione, lo scherno di tutti gli uomini non l’avrebbe offeso. E mentre le lagrime gli colavano per le guance e volgeva lo sguardo, a scorgersi, a sentirsi solo in quella campagna deserta e squallida capì che di contro il dolore umano c’è qualche cosa di peggio che l’umana cattiveria, l’irrisione, lo scherno: c’è l’indifferenza di tutta la vita estranea alla nostra vita, c’è la separazione da noi delle infinite esistenze inconsapevoli di noi.
A lui che cosa restava? chi gli restava? Un cane! L’ira lo scosse; gli diè l’impeto di chi cerca divincolarsi. E gridò, fremente:
— Top!
Top impazzava a levar passeri dal seminato, a inseguirli abbaiando; e non attese alla voce del padrone.
Ma questa volta il padrone non ripetè l’ordine prima di punir la disubbidienza.
Sparò.
Un guaito; e il bracco cadde.
Prospero Marzioli corse a lui; e vide gli occhi spaventosamente affettuosi, ebbe da quegli occhi che si spegnevano una tremenda invocazione di pietà. E quasi per trovar ristoro al male atroce o fine all’agonia, la povera bestia piegò il collo.
Dal collare usciva, arrotolato e tenuto da un filo, un bigliettino.
E lo zio, premendosi con la sinistra il cuore, lo prese. Lesse:
Diglielo tu, Top, allo zio che gli vorrò sempre bene; tanto, tanto bene!
Ma Top era morto.