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Luciano di Samosata Antichità 1862 Luigi Settembrini Indice:Opere di Luciano voltate in italiano da Luigi Settembrini - Tomo 1.djvu Dialoghi letteratura Timone Intestazione 25 giugno 2023 75% Da definire

Questo testo fa parte della raccolta Opere di Luciano voltate in italiano da Luigi Settembrini


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V.

TIMONE,

o

IL MISANTROPO.



Timone, Giove, Mercurio, Pluto, la Povertà, Gnatonide, Filiade, Demea, Trasielete.



Timone. O Giove, signore dell’amistà, e protettor dello straniero, e re dei banchetti, e ospitale, e fulminatore, e vendicator dei giuri, e adunator di nembi, e tonante, e come altro ti chiamano gli intronati poeti, massime quando intoppano a compiere il verso, e tu allora, con uno de’ tanti nomi che prendi, puntelli il verso cadente e ne riempi la vuota armonia; dove stanno gli accesi lampi, i fragorosi tuoni, e l’ardente, la rovente, la terribile folgore? Già tutti sanno che le son vecchie ciance, fumo poetico, vuoto rumor di parole. Quel tuo fulmine sì celebre, che colpiva sì lontano, e che avevi sempre tra le mani, non so come, s’è spento; è freddo, e non serba neppure una favilluzza di sdegno contro i ribaldi. Uno di questi spergiuratori temerebbe più il moccolo d’una lucerna mattutina, che la fiamma di cotesta folgore domatrice dell’universo: e pare che tu brandisca un tizzone che nè per fuoco nè per fumo fa paura, e se colpisce, copre soltanto di fuliggine. Però anche Salmoneo1 ardì di contraffarti il tuono. [p. 201 modifica]e non ebbe torto in tutto a farsi tenere uomo di focoso ardimento contro un Giove così freddo alla vendetta. E come no? Tu dormi come se avessi presa la mandragora: intanto si spergiura, e tu non odi: si fanno scelleraggini, e tu non le vedi: povero moccicone, sei cieco, sordo, e imbarbogito. Una volta, quand’eri giovane, la non andava così, che subito ti montava la mosca, e facevi maraviglie contro i furfanti ed i violenti; non davi loro mai posa; la folgore non stava mai inoperosa, l’egida sempre agitata, il tuono muggiva, spessissimi lampi precedevano le saette, la terra sossopra come un crivello, la neve a gran fiocchi, la gragnuola come sassi, e per dirtela più grossa, rovesci di pioggia veementissima, ogni gocciola un fiume. Onde in un attimo venne quel sì gran nabisso ai tempi di Deucalione, che tutto andò sommerso nelle acque: e ne scampò sola una barchetta approdata sul monte Licoride, nella quale fu serbata la semenza di questa razza umana, che doveva rigerminare più scellerata della prima. Or ti se’ fatto poltrone, e ben ti sta che nessuno t’offre più sacrifizi nè corone, se non rare volte in Olimpia qualcuno a caso, e lo fa, non per adempiere un dovere, ma per pagare un tributo ad una vecchia usanza; e fra breve ti spodesteranno in tutto, e ti manderan con Saturno. Lascio stare quante volte t’hanno spogliato il tempio; ma a farti metter le mani addosso in Olimpia! Tu che fai tanto rumore lassù, te ne stavi zitto come un vigliacco, non destaro i cani, non chiamare i vicini, che sarien corsi al rumore, e avrien presi i ladri che fuggivano coi fardelli in collo. O valoroso sterminator dei giganti, o domator di Titani, come te ne stesti lì a lasciarti tosare dai malandrini, e avevi in mano una folgore di dieci cubiti? Sciagurato che sei, gittaci un’occhiata su questa terra: quando ci avrai un po’ di cura? quando punirai tante scelleratezze? Quanti Fetonti e Deucalioni ci vorrebbero per questa soverchiante piena di umane, malvagità!

Ma lasciamo i generali, e veniamo al fatto mio. Quanti Ateniesi io ho sollevati, e di poverissimi li ho fatti ricchi! Ho soccorso tutti gl’indigenti, ho profuso tutta la mia ricchezza per beneficare gli amici miei: ed ora che io per questo son divenuto povero, ora non mi conoscono più, non mi guardano [p. 202 modifica]più in viso quest’ingrati, che poco fa tutti raumiliati mi riverivano, mi baciavan le mani, pendevano da un cenno mio. Se per via ne incontro alcuni, ei trapassano, come si fa presso un’alta colonna di antico sepolcro rovesciata dal tempo, che neppur si legge il nome che v’è scritto. Se m’adocchian da lungi, voltano strada, per non riguardare uno spettacolo spiacente e di tristo augurio; e l’altrieri io era loro salvatore e benefattore. Or poichè la mia sventura mi ha condotto a questo estremo, io con questo pelliccione indosso lavoro la terra per guadagnarmi quattro oboli, e in questa solitudine vo filosofando io e la zappa. Almeno parmi di averci un bene, che non vedo più tanti che godono e non lo meritano: ed io non mi addoloro. Orsù, o figliuolo di Saturno e di Rea, risvegliati una volta da cotesto sonno profondo, che hai dormito più di Epimenide,2 desta la folgore, raccendila sull’Oeta, brucia mezzo mondo, mostra una furia degna di Giove giovane e gagliardo; se no, è vero quello che i Cretesi contano di te e della tua tomba.3

Giove. Chi è colui, o Mercurio, che ha gridato così dall’Attica, presso l’Imetto, laggiù in quella valle, ed è tutto lordo, e squallido, e impellicciato? Sta curvo, e parmi che zappi. Sfringuella bene ed ardito. Certo è un filosofo, che nessuno ardirla parlar sì empiamente di noi.

Mercurio. Che dici, o padre? Non riconosci Timone di Echecratide, quel di Colitta? Questi è colui che tante volte ci ha offerte le migliori vittime, le ecatombe intere, quel gran riccone, in casa di cui con tanta magnificenza celebravamo le tue feste.

Giove. Come è mutato! quel bello, quel ricco, con tanti amici attorno? E come è ridotto così povero e sparuto? Per campare cava la terra, e mena una zappa tanto pesante! [p. 203 modifica]

Mercurio. Dire egli che la sua bontà, la sua filantropia, l’aver compassione a tutti gli sfortunati l’ha perduto: ma il vero è che è stata la sua sciocchezza, la sua leggerezza, e il suo poco conoscere nella scelta degli amici, e non capire che ei faceva bene a corvi ed a lupi. Questi avoltoi gli mangiavano il fegato, ed il misero li teneva amici sviscerati che glielo facevan per bene, e quei scialavano. E poi che l’ebbero spolpato bene, e rosegli le ossa, e smidollatele tutte, gli voltaron le spalle, lasciandolo secco e tronco dalle radici, non lo conobbero più, non lo guardarono: pensa tu se lo soccorsero e gli rendettero un po’ del bene che ne avevano avuto. E però presa la zappa ed il pelliccione, come vedi, e lasciata la città per vergogna, s’è messo a garzone con un lavoratore. La sventura lo ha invelenito, ed egli esce de’ gangheri quando gli arricchiti da lui gli passano innanzi tutti tronfi, e senza ricordarsi che ei si chiama Timone.

Giove. Dovevo pensare un po’ a lui: ha ragione di dolersi. Saria un’azione da quei sozzi adulatori dimenticarmi d’un uomo che ha bruciato su i nostri altari tante cosce di tori e di capre grassissime: e la soavità di quell’odore l’ho ancora nel naso. Ma le faccende grandi, e il gran fracasso che fanno gli spergiuratori, i ribaldi, i ladroni, ed ancora il timore dei sacrileghi, che son tanti, e non giungo a contenerli, e non mi lasciano chiudere gli occhi un tantino, da molto tempo m’hanno impedito di gittare uno sguardo su l’Attica, massimamente da che vi corre l’andazzo del filosofare e contendere di parole. Bisticci, strilli, rombazzo: come posso udir preghiere? debbo turarmi le orecchie, e starmene, o farmi assordare da mille voci che gridano tutte insieme virtù, immortalità, e non so che altre corbellerie. Per cagion loro questo uomo che non è tristo m’è uscito di mente. Ma, o Mercurio, va da Pluto, e tosto menalo a lui. Pluto conduca anche il Tesoro seco, ed amendue rimangano in casa di Timone, e non ne escano, ancorché egli per la sua dabbenaggine torni a scacciarli con la mazza. A quegli adulatori, a quegl’ingrati, penserò io: me la pagheranno poiché m’avrò fatto racconciare la folgore: che vi si ruppero e rintuzzarono due raggi i più grandi, quando ultimamente la scagliai di gran forza contro quel furfante del [p. 204 modifica]filosofo Anassagora, il quale persuadeva ai suoi discepoli che noi siam niente noi altri iddii. Lo sfallii, che Pericle gli parò il colpo con la mano, e la folgore battendo nel tempio de’ Dioscuri, lo bruciò, e per poco la non ruppesi su la pietra. Ma per ora basti loro il castigo di veder Timone straricco più di prima.

Mercurio. Ve’ che vuol dire il gridar forte, e l’esser importuno ed ardito! Ei giova non sol nel piatire, ma nel pregare. Ecco qui Timone di poverissimo tornerà gran ricco, perchè ha pregato e strillato con male parole, ed ha fatto voltar Giove. Se zappava zitto e curvo, zapperebbe ancora, e nessuno gli avria badato.

Pluto. Io non voglio tornar da colui, o Giove.

Giove. E perchè no, o buon Pluto, quando io te lo comando?

Pluto. Perchè m’ha offeso troppo, m’ha gettato, m’ha sparnicciato, e quantunque amico di suo padre, m’ha scacciato di casa quasi con la forca; gli pareva di aver fuoco nelle mani. Ritornarci ora per esser dato a parassiti, ad adulatori, a cortigiane? Mandami a quelli, o Giove, che sentono il valore del dono, e mi custodiscono come cosa preziosa e desiderabile. Questi scialacquatori restino sempre poveri, chè lo vogliono; e con un cencio indosso e con la zappa in mano, stentino la vita a quattro oboli il giorno, giacchè spensieratamente han dato fondo a un dono di dieci talenti.

Giove. Timone non te lo farà più. La zappa lo ha bene ammaestrato, s’ei non si sente affatto dirotti i fianchi, che tu sei migliore della povertà. Ma tu mi pari sempre malcontento: ora accusi Timone che ti apriva le porte, ti lasciava andar libero, non ti chiudeva, non t’aveva caro: e un tempo dicevi il contrario, t’arrovellavi contro i ricchi che ti chiudono con chiavi, chiavistelli e suggelli, senza lasciarti fare un po’ di capolino e vedere la luce. Te ne sei lamentato con me: m’hai detto che ti sentivi affogare nel buio; che però eri così giallo e sparuto, e che pel continuo contare t’eran rimaste rattratte le dita, e minacciavi che vedendo il bello, te l’avresti svignata. Ti pareva insopportabile a stare in una camera di bronzo come Danae, con due fiere streghe per balie, l’Usura e l’Aritmetica. Dicevi che costoro erano sciocchi ad amarti tanto e non [p. 205 modifica]goderti, a non ardire neppur sicuramente di usare di te, di cui sono signori; ma vegliare per custodirti, spalancar tanto d’occhi su i chiavistelli ed i suggelli; godere di non goderti essi, nè farti godere dagli altri un poco, come la cagna della stalla che non mangia orzo, e non fa mangiarne al cavallo che ha fame. Ed ancora tu ridevi di coloro che risegano, risparmiano, accozzano, si privano del necessario, e non sanno che un birbone di servo, o l’economo, o l’aio, traforatosi nel celliere, sguazza allegramente, mandando un canchero al misero padrone, che al fioco lume d’una lucernetta con picciol becco e sottilissimo stoppino, studia a calcolare le usure. Come dunque può stare, una volta biasimar questo, ed ora dar colpa del contrario a Timone?

Pluto. Eppure se consideri bene, ti parrà che ho ragione per l’uno e per gli altri. Quello spendere e spandere che Timone faceva all’impazzata, e non per bontà, l’è certo una stoltezza: e quel tenermi così serrato all’oscuro per farmi divenir più grasso e tondo e paffuto, senza ardire di toccarmi, senza farmi veder la luce per paura che qualcuno non mi faccia l’occhio d’amore, è un’altra pazzia di quegli avaracci; i quali mi tengono a muffire in sì brutto carcere senza un delitto, e non pensano che tra poco morranno, e mi lasceranno a qualche fortunato. Io non lodo nè questi, nè quegli altri che han le mani forate, ma quegli uomini misurati che stanno egualmente lontani dalla sozza avarizia e dalla matta prodigalità. Ma per Giove! dimmi un po’, Giove mio, se uno sposasse legittimamente una fresca e bella fanciulla, e poi non se ne curasse, non ne fosse geloso, le desse briglia sciolta a correre dì e notte dov’ella vuole, a darsi allo voglie di ognuno, e menasse egli stesso gli adulteri in casa, aprisse le porte, e chiamasse tutti quelli che passano, ti parrebbe amarla egli? Tu dirai che no, o Giove, che tu d’amore ne sai alcuna cosa. E se per contrario uno si menasse a casa legittimamente una donna libera, ed atta a far bei figliuoli, e neppure fiutasse il fiore di sì bella vergine, nè la facesse pur guardare in viso da altri, ma la chiudesse, e la lasciasse languire sterile e vergine, dicendo che egli lo fa per amore, e mostrandosi pallido, magro, con gli occhi incavati, morto di passione, non ti parrebbe [p. 206 modifica]pazzo costui, che potendo generar figliuoli, e goder delle nozze, lasciasse appassire la fiorita gioventù d’una cara fanciulla, destinandola a perpetua verginità come sacerdotessa di Cerere? Però io mi sdegno e contro quelli che mi scacciano a calci, mi buttano, mi strapazzano, e contro quelli che mi mettono i ceppi come fossi un servo fuggitivo marchiato.

Giove. Perchè sdegnartene? Tutti hanno la pena dovuta: gli uni come Tantalo, affamati, assetati, secchi, stanno con tanto di bocca spalancata su l’oro: gli altri, come Fineo, mentre hanno il cibo nelle canne, se lo veggono strappare dalle arpie. Ma or va da Timone, che lo troverai più sennato.

Pluto. E cesserà egli una volta d’essere come un cofano pertugiato, nel quale prima che io versi tutto di su, tosto se n’è scorso di giù; e di temere che io non gli rovesci una gran piena, e non l’affoghi? Mi pare di portar acqua nella botte delle Danaidi che non si può riempiere che il fondo è aperto, e quanto ci versi, scorre da ogni parte per le tante aperture e fessure che vi sono.

Giove. Ebbene, se egli non ristopperà le fessure e le aperture, e diffonderà quello che tu gli verserai, ritroverà nel fondo della botte il pelliccione e la zappa. Andate ora, ed arricchitelo. E tu ricordati, o Mercurio, al ritorno, di condurmi i ciclopi dall’Etna, per racconciarmi la folgore. Non anderà guari e avrò bisogno che sia ben aguzza ed arrotata.

Mercurio. Andiamo, o Pluto. Ma che è questo? tu zoppichi? Non sapevo che eri e cieco e zoppo.

Pluto. Non sempre zoppo, o Mercurio: quando Giove mi manda da alcuno, io non so come, non posso sgranchiare, e baleno su tuttadue le gambe, e quando giungo al termine, chi m’aspettava è già fatto vecchio; quando poi debbo tornarmene, diresti che ho l’ali, e volo più veloce degli uccelli.4 Come cade la corda,5 io son gridato vincitore: percorro lo stadio, e talvolta non possono seguirmi con l’occhio gli spettatori. [p. 207 modifica]

Mercurio. Non dici il vero. Io ti potrei nominare tanti che ieri non avevano un obolo da comprarsi un laccio, ed oggi a un tratto ricchi, sfarzosi; in cocchio tirato da una muta di cavalli bianchi, quando prima non possedevano neppure un asino, vanno vestiti di porpora, le mani tutte anella d’oro, essi stessi quasi credono di sognare.

Pluto. Questo è altro, o Mercurio: nè ci vo coi piedi miei allora, nè mi manda Giove da quelli, ma Plutone, datore di ricchezze anch’egli, e gran donatore, come suona il suo nome. Quando adunque i’ debbo mutar casa e signore, mi ravvolgono nelle carte di un testamento, mi vi suggellano accuratamente, e mi trasportano come un fardello. Intanto il morto giace disteso in un cantuccio scuro della casa, coperto sino alle ginocchia da un cencio, mentre intorno gli saltano i gatti: e quelli che sperano di avermi, vanno in piazza ad aspettare il testamento a bocca aperta, come i rondinini pigolando cercano l’imbeccata alla madre che va intorno svolazzando. Poichè rompesi il suggello, tagliasi la tela, ed apresi il testamento, vien gridato il mio novello padrone, che è un parente lontano, o un adulatore, o un servo bagascione, prediletto bardassa che porta ancora le gote rase, il quale dei tanti e si diversi piaceri di cui ha saziato il suo signore, quantunque non sia più garzone, riceve ora questo gran premio. Quel furfante, chiunque egli sia, abbrancatomi nel testamento, me ne porta via, e non è più Pirria, o Dromone, o Tibie, ma chiamasi Megacle, o Megabise, o Protarco. Gli altri rimangono trasecolati a guatarsi, stanno in un lutto vero, ripensando come un sì gran tonno è sfuggito dal mezzo della rete, dopo di avere inghiottita più di un’esca. Come mi afferra quello stupido bestione, che al vedere i ceppi ancor guizza di paura, che se ode scoppiettare una frusta drizza gli orecchi, e che adora un mulino come un tempio, prende i più fecciosi modi con tutti, insulta gli uomini liberi, e fa frustare i suoi antichi conservi per provare se egli è veramente divenuto padrone; finchè capitato fra l’unghie d’una sgualdrinella, o spendendo in cavalli, aggirato da adulatori che gli fan credere d’essere più bel di Nireo, più nobile di Gecrope, e più ricco di quindici Cresi insieme, lo sciagurato disperde in un momento quella [p. 208 modifica]ricchezza a stenti raccolta con tanti spergiuri e furti e scelleratezze.

Mercurio. Così accade quasi sempre. Ma quando tu cammini co’ piedi tuoi, come fai, se sei orbo, a trovare la via? come distingui coloro a cui Giove ti manda, e che crede degni di arricchire?

Pluto. Pensi tu ch’io mi dia questa pena? Altro!

Mercurio. È vero, per Giove. Certo non avresti lasciato Aristide, per andare da Ipponico, da Callia, e da molti altri Ateniesi, che non son degni di avere neppure un obolo. Ma che fai quand’hai una commissione?

Pluto. Vo su e giù vagando alla ventura, finch’io m’abbatta in qualcuno. Quegli che prima m’incontra, mi mena a casa sua, e poi ringrazia te, o Mercurio, della inaspettata fortuna.

Mercurio. Dunque Giove è ingannato credendo che tu secondo il suo volere arricchisci quelli che egli stima degni di arricchire?

Pluto. Ei lo vuole, caro mio. Ei sa che son orbo, e mi manda a cercar cosa si difficile a trovarsi, e che da molto tempo non è più su la terra, e non la troveria Linceo; cosi è piccola ed impercettibile. I buoni sono pochissimi; i malvagi formicolano nelle città, ed hanno in mano il tutto: è più facile che questi m’incontrino, e mi piglino nella loro rete.

Mercurio. E quando li abbandoni, come fuggi sì ratto, se non sai la via?

Pluto. Ho la vista acuta e le gambe leggiere sol quando debbo fuggire.

Mercurio. Deh, dimmi un’altra cosa. Tu se’ cieco (non si può negare), tu giallo, tu sciancato, come hai tanti amadori? Come tutti guardano te, e chi ti ottiene si stima beato, chi no, mena smanie e vuol morire? Conosco molti tanto innamorati di te, che

       Da un alto scoglio nel profondo mare
       Per disperati sì vanno a gettare,6

credendosi sprezzati da te, e non guardati neppure una volta. [p. 209 modifica]Ma io credo che tu, se tu sai chi se’ tu, dirai con me che cotesti tuoi spasimati sono più matti de’ Coribanti.

Pluto. E pensi tu che questi veggano come io son fatto, zoppo, cieco, e come altro io sono?

Mercurio. Come no? forse son ciechi anch’essi?

Pluto. Non ciechi: ma l’ignoranza e l’errore, che oggi annebbiano il mondo, fanno un velo agli occhi loro. Ed ancora io per non parere sì brutto, mi metto una maschera piacevole, ornata d’oro e di gemme, e vestito sfoggi atamen te, mi presento a loro: ed essi credendo vedere una bellezza vera, s’innamoran di me sino a morire, se non mi hanno. Ma se uno mi mostrasse loro tutto nudo, come vergognerebbero di non essersi accorti, anzi di avere amata si disamabile e laida bruttezza!

Mercurio. Ma come va che costoro già divenuti ricchi, si mettono la stessa maschera, e rimangono ancor nell’errore? E se uno volesse loro strapparla, essi lasceriano più la testa che la maschera? Allora non dovrebbero ignorare che la è una bellezza posticcia, perchè han veduto tutto quel che sta sotto.

Pluto. E per questo, o Mercurio, io ho grandi aiuti con me.

Mercurio. E quali?

Pluto. Quand’uno, scontratomi la prima volta, m’apre la porta, e mi mette dentro, con me gli entrano in casa nascostamente l’orgoglio, la stoltezza, la superbia, la mollezza, l’insolenza, l’errore, una schiera di vizi che gli conquide l’anima. Però egli ammira quel che dovrebbe sprezzare, desidera quel che dovrebbe fuggire, e sovra tutto pregia me, che son padre e capitano di quella schiera che gli è accampata in casa, e sosterrebbe ogni cosa anzi che lasciarmi sfuggire.

Mercurio. E veramente tu sei sfuggevole e liscio, e difficile a trattare, e sdrucciolevole, che non dai salda presa, e come anguilla o biscia sguiccioli tra le dita non so come: la povertà per contrario è tutta viscosa, appiccaticcia, con mille uncini su tutta la persona, che tosto afferrano chi le si avvicina, e non è facile disciogliersene. Ma le chiacchiere ci han fatto dimenticare il meglio. [p. 210 modifica]

Pluto. Che cosa?

Mercurio. Il Tesoro: non abbiam condotto il più necessario.

Pluto. Non darti pena per questo. Io lo lascio sempre sotterra quando salgo da voi, e guardo se ei sta ben chiuso, e l’ammonisco di non aprir la porta a nessuno, se non ode la voce mia.

Mercurio. Ma già entriamo nell’Attica: seguimi, e tienti alla mia clamide finchè giungiamo al confine.

Pluto. Fai bene, o Mercurio, se mi conduci per mano: se mi lasciassi, i’ mi sperderei, e tosto incontrerei Iperbolo o Cleone. Ma che è questo rumore, come di ferro che percuota su pietra?

Mercurio. È Timone, che zappa un sassoso campicello su questa costa vicina. Oh! gli sta da presso la Povertà, e la Fatica ancora: c’è la Pazienza, la Saggezza, la Fortezza, e tutta la schiera capitanata dalla Fame. Queste son lance migliori delle tue.

Pluto. Perchè non torniamo indietro, o Mercurio? Noi non faremo alcun pro con un uomo accerchiato da tanto esercito.

Mercurio. Giove vuole altramente, non ci mostriamo codardi.

La Povertà. Dove meni cotestui, o uccisore di Argo?

Mercurio. A cotesto Timone siam mandati da Giove.

La Povertà. Ora Pluto a Timone, ora che io, avendolo raccolto frollato dalla mollezza, e confidatolo alla saggezza ed alla fatica, l’ho renduto uomo forte e dabbene? E tanto spregevole vi pare la Povertà, e tanto meritevole d’insulti, che il solo bene ch’io avevo, quest’uomo da me formato alla virtù, voi me lo strappate? Pluto lo riprenderà, lo ridarà in mano all’Orgoglio ed al Lusso, e quando l’avran renduto infemminito, vigliacco, insensato, lo getteranno a me un’altra volta, già fatto uno straccio.

Mercurio. Così vuole Giove, o Povertà.

La Povertà. Me ne vado: e voi, o Fatica, o Saggezza, o tutte voi, seguitemi. Questi tosto conoscerà chi son io che egli perde; compagna alla fatica, maestra di virtù, [p. 211 modifica]gl’invigorivo il corpo, gli schiarivo ed aguzzavo lamento; lo feci viver da uomo, ripensare a sè stesso, conoscere le superfluità e spregiarle.

Mercurio. Vanno via: facciamoci verso di lui.

Timone. Chi siete voi, o malvagi? che volete? perchè venite a sturbare uno che fatica? Andatevene con la malora, siete tutti furfanti: o io con queste piote e questi sassi farò polvere di voi.

Mercurio. No, o Timone: pon giù i sassi; non percuoteresti uomini: io son Mercurio, e questi è Pluto: ci ha mandati Giove, che ha udita la tua preghiera: apri dunque il seno alla buona fortuna, e lascia la fatica.

Timone. Alla malora anche voi, che dite esser Dei: tutti ed uomini e Dei io abborrisco. E cotesto cieco, chiunque egli sia, voglio proprio accopparlo con la zappa.

Pluto. Torniamo a Giove, o Mercurio. Costui è un pazzo arrabbiato: aspettiamo che ci faccia qualche cattivo giuoco?

Mercurio. Non fare sciocchezze, o Timone; smetti cotesta asprezza salvatica, apri le braccia alla buona fortuna, ritorna ricco, sii il primo degli Ateniesi, e fa crepare quegl’ingrati non dando loro una briciola della tua ricchezza.

Timone. Non ho bisogno di voi: m’avete già fradicio: la zappa è la ricchezza mia. Per tutt’altro sarò felicissimo, se non vedo nessuno.

Mercurio. Ma così da bestia?

       Cotesti detti iogiuriosi e crudi
       Posso a Giove ridir?

Che tu odii gli uomini, che t’han fatto tanto male, passi pure: ma gli Dei, no, che han tanta cura di te.

Timone. Ringrazio assai te e Giove di cotesta cura: ma non voglio riprendere Pluto.

Mercurio. E perchè?

Timone. Perchè la cagione di tutti i mali miei è stato egli: egli m’ha dato in mano agli adulatori, m’ha condotto ai loro tranelli, m’ha corrotto coi piaceri, m’ha fatto invidiare, m’ha fatto odiare, ed infine il perfido m’ha piantato o m’ha tradito. La buona Povertà, per contrario, esercitandomi [p. 212 modifica]a dure fatiche, e parlandomi francamente il vero, m’ha dato il necessario per mezzo del lavoro, e m’ha insegnato spregiare tutte quelle superfluità, e riporre in me stesso le speranze della vita mia: e mi ha mostrato che questa è ricchezza, ed è mia, e non potrebbero tormela giammai nè lusinghieri adulatori, nè tristi calunniatori, nè popolo furioso, nè giudice corrotto, nè insidioso tiranno. Rinvigorito dalla fatica io coltivo a grande amore questo campo, non vedo i mali della città, e la zappa mi dà quel che mi basta. Onde ritornati, o Mercurio, e rimena Pluto a Giove. Io non vorrei altro che far piangere tutti gli uomini.

Mercurio. Oh, caro mio, non tutti hanno voglia di piangere. Ma non fare il fanciullo ritroso, raccogli Pluto. Non si deve spregiare i doni di Giove.

Pluto. Vuoi udire, o Timone, due parole in mia difesa; ti dispiace ch’io parli?

Timone. Di’, ma due, veh, e senza i proemii di quei mariuoli di oratori. Se sarai breve, t’udirò per amor di Mercurio.

Pluto. Eppure io avrei molto a dire, perchè tu mi dai molte accuse. Vedi s’io t’ho fatto il male che tu dici. Io ti ho dati piaceri d’ogni sorte, onori, primi seggi, corone; e per me tu eri riguardato, celebrato, riverito. Se ti cuoce la malvagità de’ tuoi adulatori, non ci ho colpa io: anzi io sono stato offeso da te, che mi spargevi tra quei ribaldi che lodavano te, e furbescamente tendevan trappole a me. Infine mi chiami traditore che t’ho piantato; al contrario potrei io accusar te che hai adoperato ogni modo per iscacciarmi di casa tua, e mi hai gittate a capo in giù dalla finestra. E però invece della fine clamide, la Povertà, che tu pregi tanto, t’ha messo cotesto pelliccione in dosso. Ma Mercurio qui è testimone come io pregavo Giove a non mandarmi da te, che m’odii e non mi puoi patire.

Mercurio. Vedi, o Pluto, come s’è già rabbonito? Non aver più paura, e rimanti con lui. Seguita a zappare, o Timone. E tu, Pluto, fagli venir sotto la zappa il Tesoro, che verrà alla tua voce.

Timone. È forza ubbidire, o Mercurio, e tornar ricco. [p. 213 modifica]Che si può fare quando gli Dei ci sforzano? Ma vedi su quali rasoi tu riponi un misero che è vissuto finora felicissimo, ed ora senza alcuna colpa debbo riprendere tanto oro e tanti affanni.

Mercurio. Sopportalo, o Timone, per amor mio, benchè ti sia grave: almeno per far crepare d’invidia quegli adulatori. Io su per l’Etna rivolerò al cielo.

Pluto. Se n’è ito, pare: me ne accorgo al ventilar dell’ali. Tu rimani qui; io vo, e ti mando il Tesoro: mena di forza. A te dico, Tesoro d’oro, ubbidisci a Timone, e fa che ti prenda. Cava, Timone, affonda, lo vi lascio insieme.

Timone. Su, o zappa, fa forza, non ti stancare finchè non iscopri Tesoro.... Giove miracoloso, o Coribanti, o Mercurio datore di guadagni, donde tant’oro? Fosse un sogno questo? Temo di svegliarmi, e di trovar carboni. Ma no, è oro, monete ardenti, pesanti, e bellissime a vedere.

       O oro, il più bello acquisto de’ mortali,
       Tu vinci di splendore il fuoco ardente
       In ebeta notte7

e in chiaro giorno. Vieni, o carissimo amor mio. Ora si credo che Giove si mutò in oro. E qual vergine non aprirebbe il grembo per raccogliere un si bello amadore che le piovesse dal soffitto? Mida, o Creso, o voti del tempio di Delfo, voi siete niente verso Timone, e la ricchezza di Timone: al quale neppure il gran re si può paragonare. zappa, o carissimo pelliccione, i’ vi consacrerò a questo Pane. Io comprerò tutto questo campo solitario, fabbricherò una torre per serbarvi il tesoro, e l’abiterò io solo, e voglio che sia il mio sepolcro quand’io sarò morto. Si, cosi voglio, e facciamoci una legge per quest’altra vita che mi rimane: Unione con nessuno, sconoscenza e disprezzo per tutti: amico, ospite, compagno, l’altare della compassione, son tutte ciance: intenerirsi al pianto, sovvenire alla miseria, è un trasgredire la legge, un rovesciare i costumi: vivere solitario come i lupi: Timone solo amico a Timone. Tutti gli altri uomini nemici ed insidiatori: conversare con alcuno, sia contaminazione: e se ne vedo pure uno, quel giorno sia nefasto. [p. 214 modifica]Saranno per me come statue di pietra o di bronzo: messi da loro non riceverne, a patti non venire giammai: questa solitudine divida me da loro: compagni, cittadini, tribù, e patria stessa, nomi freddi ed inutili, pregiati solo dagli sciocchi. Timone sia ricco solo per sè, disprezzi tutti, goda egli solo tra sè, e fugga ogni adulazione e lode: faccia sacrifizio agli Dei, e banchetti egli solo, sia egli il suo vicino, il suo confinante, e discacci tutti. Sia legge ch’ei non porga la mano a nessuno, ancorchè debba morire e mettersi la corona in capo. Piacemi che mi chiamino Misantropo, e che mi riconoscano come un acerbo, un collerico, un duro, un disumano: se vedo uno nel fuoco, e che mi prega di spegnere l’incendio, lo spegnerò con pece ed olio: se uno, traportato da una fiumana gonfia, il verno, mi tende le mani e mi prega di trarlo fuori, io lo attufferò con la testa giù affinchè non possa salire a galla. Così saremo pari: chi te la fa, fagliela. Propose questa legge Timone Echecratide di Colitta; e l’ha decretata nell’adunanza Timone stesso. Questo sia, questa è la legge, e bisogna osservarla da uomo. Ma quanto io vorrei far conoscere a tutti che fo questo, perchè son divenuto straricco! S’impiccherebbero per dispetto! Ma che è questo! Poh, che fretta! Quanta gente corrono pieni di polvere, affannati! come han già fiutato l’oro! E che farò ora? salire su questo poggio e scacciarli a sassate? o violar la mia legge parlando loro solo una volta per più tormentarli col disprezzo? Questo parmi il partito migliore: aspettiamoli a più fermo. Chi viene innanzi a tutti? È Gnatonide il parassito: gli chiesi ultimamente di fare per me una colletta, ed egli mi offerse un laccio: egli che in casa mia ha vomitato le botti di vino. Ma ha fatto bene a venire il primo, piangerà prima degli altri.

Gnatonide. Non lo dicevo io che gli Dei non abbandonerebbon mai questo eccellente uomo di Timone? Salute, o Timone, bellissimo, leggiadrissimo, piacevolone fra i trincatori.

Timone. Ed anche a te, o Gnatonide, avoltoio voracissimo, schiuma di ribaldissimi.

Gnatonide. E tu sempre col motto. Ma dov’è il banchetto? T’ho portato un canzoncine novello, dei ditirambi che ho imparati freschi freschi. [p. 215 modifica]

Timone. Un’elegia canterai ben patetica sotto questa zappa.

Gnatonide. Che è? tu mi batti, o Timone? Accorrete, testimoni. Ahi, ahi! Ti accuserò all’Areopago, che m’hai ferito.

Timone. Se rimani un altro momento m’accuserai che t’ho ucciso.

Gnatonide. No; ma sanami la ferita, ungendola con un po’ d’oro, che è mirabile ristagnativo del sangue.

Timone. E non mi ti togli dinanzi?

Gnatonide. Vado via: ma tu ti pentirai d’esser ora sì bestiale, di sì buono che eri.

Timone. E quel zuccone? Oh, è Filiade, il più sfacciato degli adulatori. Questi si prese da me un podere, e due talenti in dote alla figliuola, in premio delle più sperticate lodi che ei mi diede una volta che io cantai, e lutti tacevansi, ed egli solo mi lodò, e giurò che io avevo voce più soave dei cigni. Non ha guari io era malato, andai a chiedergli un soccorso, e il valentuomo mi scacciò a pugni.

Filiade. Vergogna! ora riconoscete Timone? ora Gnatonide gli è amico e commensale? Gli sta bene a quell’ingrato. Noi familiari, d’una età, d’una tribù; e pure io gli ho un riguardo, per non parere d’andare ad investirlo, io. Salute, signore: guardati da questi parassiti osceni, corbacci che aliano solo intorno alle mense. Già ora non si può fidare in nessuno uomo: tutti ingrati e malvagi. Io ti portava un talento per qualche tuo bisogno, ma per via ho saputo che sei divenuto oltre misura ricchissimo. Onde son venuto a darti un consiglio, benchè tu se’ savio, e non hai bisogno de’ consigli miei, anzi potresti darne a Nestore.

Timone. Accostati, o consigliere sconsigliato: te ne do io uno con questa zappa.

Filiade. Buona gente, vedete, quest’ingrato m’ha rotto il cranio, perchè gli davo un consiglio.

Timone. Ecco il terzo: è l’oratore Demea che viene con un decreto in mano, e si spaccia mio parente. Questi ebbe da me sedici talenti in un giorno, che egli pagò alla città: era stato condannato a questa ammenda, non poteva pagarla, fu imprigionato, io per pietà lo liberai. E testò essendo egli [p. 216 modifica]incaricato di distribuire alla tribù Erettoide il danaro dello spettacolo,8 io andai a chiedergli la parte mia, ed egli disse che non mi conosceva per cittadino.

Demea. Salve, o Timone, ornamento della tua gente, sostegno degli Ateniesi, propugnacolo della Grecia. Il popolo assembrato, e i due consigli già ti aspettano. Ma odi prima il decreto che io ho scritto per te. «Considerando che Timone, di Echecrate, di Colitta, è non pure un ottimo uomo, ma un sapiente, che non v’è il pari nella Grecia; che egli fa continui e grandi benefizi alla città; che in Olimpia in un sol di vinse alla lotta, al pugilato, al corso, e con le quadrighe, e» con le bighe di puledre....»

Timone. Io non ho veduto mai i giuochi in Olimpia.

Demea. Che importa? Li vedrai di poi. Queste cose è meglio che ci sieno. «Considerando che egli s’illustrò l’anno passato combattendo per la città fra gli Acarniesi,9 e che tagliò a pezzi duemila Peloponnesii.....»

Timone. Come? Se io per non aver armi non sono scritto nei registri!

Demea. Tu lo dici per modestia, ma noi saremmo ingrati a dimenticarcene. «Considerando ancora che egli proponendo» e consigliando buoni partiti, e capitanando eserciti, rende» grande utilità al comune: Per tutte queste considerazioni, il Consiglio, il popolo, gli Eliasti radunati per tribù, ciascun borgo, e tutti insieme, decretano di rizzarsi una statua d’oro a Timone accanto a quella di Minerva nella ròcca, col fulmine nella mano destra, e il capo ornato di sette raggi: di coronarlo di sette corone d’oro; e per bando dargli» quest’onore oggi nelle nuove tragedie nelle feste Dionisiache; le quali per onorar lui si celebreranno oggi stesso. Fece questa proposta l’oratore Demea, suo stretto parente, e discepolo:10 che Timone è anche valentissimo oratore, e [p. 217 modifica]tutto quello che ei vuole.» Questo è il decreto per te. Volevo condurti un mio figliuolo, cui ho dato anche il tuo nome di Timone.

Timone. Figliuolo? ma io so che tu non hai tolto moglie.

Demea. La terrò, se piace agli Dei, al nuovo anno, n’avrò un figliuolo, che certo sarà maschio, e gli porrò nome Timone.

Timone. Non so se la terrai, dopo che t’avrai tolta questa botta.

Demea. Ohimè! che è cotesto? Tu aspiri alla tirannide, o Timone, tu percuoti uomini liberi, tu che non sei schiettamente libero, nè cittadino. Ma la pagherai per tante altre colpe, e per aver bruciata la cittadella.

Timone. La cittadella non è bruciata, o sfacciato calunniatore.

Demea. Ma sei ricco; dunque hai sconficcata la tesoreria.

Timone. La non è sconficcata: anche questa accusa è stolta.

Demea. Sarà sconficcata dipoi, intanto tu già t’hai preso quel che v’era dentro.

Timone. Ed eccotene un’altra.

Demea. Ahi, ahi le spalle!

Timone. O cessa di latrare, o rinterzo. Saria nuova cotesta, che io, il quale senz’armi ho tagliati a pezzi due squadre di Lacedemoni, non potrei scuotere un poco i panni ad un omiciattolo. E che vincitore di lotta e di pugilato sarei io? Ma chi è quest’altro? non è il filosofo Trasiclete? proprio desso. Lo riconosco alla barba sciorinata, alle sopracciglia aggrottate, a quel borbottare fra sè, a quell’occhio spaventato, a quelle chiome scomposte e sparte indietro, sì che parmi il vento Borea o il Tritone di Zeusi. Questi che all’andare è sì modesto e si dimesso nel vestire, il mattino spaccia mille pappolate su la virtù, biasima chi si lascia vincere ai piaceri, e loda a cielo la frugalità: ma la sera quando dopo il bagno va a cena, ed un servo gli mesce una gran coppa del pretto, che a lui piace assai, come se bevesse l’acqua di Lete, sdimentica i bei discorsi del mattino, gettasi come nibbio su le vivande, dà gomitate al vicino, s’imbratta la faccia di sanguinacci, insacca, divora come cane, e curvato sul piattello, [p. 218 modifica]come so dovesse trovarvi dentro la virtù, lo netta col dito pulitissimamente, per non lasciarvi briciolina di salsa. Per questa gola sfondata ogni porzione è piccola, dice sempre che è poco ancorchè si afferri egli solo tutta la focaccia ed il porchette; e quando è briaco fradicio, non si contenta di cantare e di ballare, ma dice villanie ed insulti a tutti; con una tazza in mano non finisce di parlare di temperanza e di modestia; finchè gli monta il vino, gli si rappallottolano le parole in bocca ridevolmente, e fa l’epilogo con un vomito: e quando i servi lo levan di peso per portarlo altrove, ei va brancicando qualche senatrice di flauto. Quando è digiuno, non c’è un bugiardo, un orgoglioso, un avaro che gli entri innanzi: è adulatore astutissimo, spergiuratore prontissimo, il più sfrontato impostore, il più compiuto ribaldo, che sa tutte le arti e le trappole della marioleria. Or te lo farò io strillare questo dabbene uomo. Oh, da quanto tempo non ti rivedo, o Trasiclete!

Trasiclete. Io non vengo da te, o Timone, come questi altri che ammirano la tua ricchezza, e ti si accalcano intorno sperando da te argento, oro, e banchetti sontuosi, adulando sconvenevolmente un uomo come te, semplice e liberale. Tu sai che con una focaccia io fo banchetto: che squisita vivanda per me è il timo o il nasturzo, e fo lusso quando l’intingo in un po’ di sale: che la bevanda mia è delle nove cannelle;11 questo mantello piacemi più di qualunque porpora. Per amor tuo ci son venuto, per non farti corrompere dalle ricchezze, pessime e pericolosissime compagne, che sovente hanno cagionato a molti infinite sventure. Se vuoi credere a me, gettale tutte in mare, che non sono punto necessarie a te uomo dabbene, e che puoi contemplare le vere ricchezze della filosofia. Ma non gettarle nel profondo, entra nell’acqua sino alla forcata, presso il lido, che ti vegga io solo. Se non ti piace questo consiglio, puoi sbrigartene anche meglio, distribuendole ai bisognosi fino all’ultimo obolo, a chi cinque dramme, a chi una mina, a chi mezzo talento: e se darai ad un filosofo, è giusto dargli [p. 219 modifica]il doppio od il triplo. Per me, non ti chiedo niente per me, ma per rinfrescare certi miei amici riarsi, basta che tu mi riempi questa bisaccia, che cape due medinni di Egina.12 Un filosofo dev’essere parco e moderato, e nei desiderii non uscir della bisaccia.

Timone. Bravo, o Trasiclete, e prima di riempirti la bisaccia, vo’ riempirti il capo di bernoccoli, e te ne farò buona misura con la zappa.

Trasiclete. O popolo, o leggi, siamo battuti da uno scellerato in una città libera.

Timone. Di che ti lagni? di misura scarsa? to’ altre quattro per soprammercato. — Ma chi sono costoro che vengono? Oh, è Blepsia, è Lachete, è Grifone, una falange di mariuoli, che orate li farò strillare io. Ora salgo su questo ciglione, e lasciando star la zappa che ha lavorato assai, mano ai sassi da farne piovere una gragnuola su questi furfanti.

Blepsia. Non iscagliare, o Timone: noi ce n’andiamo.

Timone. Ma vi porterete almeno un po’ di sangue o un’ammaccatura.





Note

  1. Salmoneo. Dicono che costui fu figliuolo di Eolo, e re di Belvedere. Venuto in grande superbia, e volendo farsi tenere un dio, fece fabbricare un ponte di bronzo tanto alto che passava sopra la città, e andandovi sopra con la carretta,e gettando in giù facelle accese, imitava così Giove che tuona e che fulmina. Dicono ancora che tanta superbia fu punita, e che Salmoneo fu fulminato davvero da Giove.
  2. Narrasi che un Epimenide dal padre Agisarco mandato a custodire il bestiame, dormì in una grotta settantacinque anni. Onde presso i Greci n’andò in proverbio dormire più di Epimenide.
  3. In Creta era la tomba di Minosse con questa iscrizione: Μίνωος τοῦ Διὸς τάφος. Scancellata la prima parola per ingiuria del tempo, restarono le altre; e la tomba di Minosse fu additata come tomba di Giove. V. lo scoliaste di Callimaco, al verso 8 del primo inno.
  4. Più veloce degli uccelli. Il testo dice: τῶν ὀρνέων ὠκύτερον. In altri testi è: τῶν ὀνείρων ὠκύτερον, più veloce dei sogni. Io ho preferita la prima lezione.
  5. Metafora tolta dai giuochi. Innanzi a coloro che erano postati per correre, era una corda, chiamata dai greci ὕσπληγξ, la quale, al segno, cadeva, e quelli si slanciavano nel corso.
  6. Versi di Teognide, su la Povertà.
  7. Il primo verso è di Euripide nel Bellerofonte: il secondo è di Pindaro.
  8. Il danaro dello spettacolo. Egli è risaputo che gli Ateniesi era un popolo sì bizzarro, che per farlo andare allo spettacolo drammatico, bisognava fare un obolo a ciascuno.
  9. L’Acarnia era un borgo dell’Attica, che fu assediato nel primo anno della guerra del Peloponneso.
  10. Vedi nel Discorso la congettura intorno a Timone.
  11. Nove cannelle. Era in Atene una fontana detta ἐννεάκρουνος, delle nove cannelle.
  12. Il medinno greco conteneva sei modii romani: questo di Egina era misura più piccola.