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timone. 215

Timone. Un’elegia canterai ben patetica sotto questa zappa.

Gnatonide. Che è? tu mi batti, o Timone? Accorrete, testimoni. Ahi, ahi! Ti accuserò all’Areopago, che m’hai ferito.

Timone. Se rimani un altro momento m’accuserai che t’ho ucciso.

Gnatonide. No; ma sanami la ferita, ungendola con un po’ d’oro, che è mirabile ristagnativo del sangue.

Timone. E non mi ti togli dinanzi?

Gnatonide. Vado via: ma tu ti pentirai d’esser ora sì bestiale, di sì buono che eri.

Timone. E quel zuccone? Oh, è Filiade, il più sfacciato degli adulatori. Questi si prese da me un podere, e due talenti in dote alla figliuola, in premio delle più sperticate lodi che ei mi diede una volta che io cantai, e lutti tacevansi, ed egli solo mi lodò, e giurò che io avevo voce più soave dei cigni. Non ha guari io era malato, andai a chiedergli un soccorso, e il valentuomo mi scacciò a pugni.

Filiade. Vergogna! ora riconoscete Timone? ora Gnatonide gli è amico e commensale? Gli sta bene a quell’ingrato. Noi familiari, d’una età, d’una tribù; e pure io gli ho un riguardo, per non parere d’andare ad investirlo, io. Salute, signore: guardati da questi parassiti osceni, corbacci che aliano solo intorno alle mense. Già ora non si può fidare in nessuno uomo: tutti ingrati e malvagi. Io ti portava un talento per qualche tuo bisogno, ma per via ho saputo che sei divenuto oltre misura ricchissimo. Onde son venuto a darti un consiglio, benchè tu se’ savio, e non hai bisogno de’ consigli miei, anzi potresti darne a Nestore.

Timone. Accostati, o consigliere sconsigliato: te ne do io uno con questa zappa.

Filiade. Buona gente, vedete, quest’ingrato m’ha rotto il cranio, perchè gli davo un consiglio.

Timone. Ecco il terzo: è l’oratore Demea che viene con un decreto in mano, e si spaccia mio parente. Questi ebbe da me sedici talenti in un giorno, che egli pagò alla città: era stato condannato a questa ammenda, non poteva pagarla, fu imprigionato, io per pietà lo liberai. E testò essendo egli