Tigre reale/XIV
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XIV.
Rendona non avea potuto fare la solita visita della sera alla sua ammalata dell’albergo, perchè era stata chiamato in tutta fretta a casa La Ferlita. Col cadere del giorno il male del bambino si era aggravato, la febbre erasi fatta violentissima, e la difterite si era presentata improvvisa e minacciosa.
Il bambino era stato messo sul letto, ed Erminia non gli si era tolta d’accanto, spiandone con ansia ed angoscia i più piccoli sintomi sul volto incadaverito, e trasalendo allorchè l’udiva strillare in tal maniera e tal voce soffocata che gli occhi e il cuore della povera madre si gonfiavano di lagrime. Sin che il sole avea scintillato sui vetri della finestra l’era parso di sentirselo in cuore a guisa di un raggio di speranza; ma appena le tenebre cominciarono a calare, sembravale che si aggravassero come gramaglie su quel corpicino sofferente e l’illividissero, se le sentiva condensare in petto come un gruppo di lagrime.
Tutti i domestici erano in moto per la casa, ma ella non permetteva che alcuno entrasse. Era sola in quella gran camera piena delle ombre del crepuscolo, accanto a quel poveretto che agitava di tanto in tanto le piccole braccia in cerca d’aiuto; non diceva una parola, le lagrime le scorrevano zitte zitte sul viso, e solo allorchè udiva un passo nell’altra stanza volgeva verso l’uscio gli sguardi ansiosi per interrogare la prima impressione del medico che veniva d’ora in ora. I suoi occhi si seccavano, divenivano febbrili ed ardenti; faceva alcune domande al dottore, dicevagli quel che l’era sembrato vedere delle fasi del male con poche parole, brevi e nervose. Verso le 9 arrivò il cugino Carlo tutto sottosopra.
— Cos’è stato? domandò con premura; i tuoi domestici mi hanno spaventato.
Ella gli fece cenno di parlar piano, gli strinse la mano forte forte, e scoppiò in pianto. Gli disse fra i singhiozzi e sollevando il velo che copriva Giannino:
— Vedi, poverino!... Vedi come soffre!
A quelle parole disperate e a quelle lagrime che venivano dal fondo del cuore, anche gli occhi del povero giovane si gonfiarono. Erminia lo guardava piangendo in silenzio, e vedendolo così commosso gli disse sottovoce, ma con accento penetrante:
— Tu gli vuoi bene almeno a quel poverino!... Non te ne andare, non abbiamo che te, lui ed io!...
In quella entrò il dottore, domandò una candela e si accostò silenziosamente al bimbo; tutti parlavano piano e camminavano in punta di piedi in quella camera triste e scura. La candela faceva un gran cerchio giallo sul capezzale. Nessuno osava fiatare; Rendona finalmente si allontanò dal letto e andò a posare la bugia sul tavolino.
— Non abbiamo peggiorato da un’ora in qua; rispose lentamente alla febbrile interrogazione degli occhi di Erminia. La respirazione è ancora abbastanza libera. Bisognerebbe tentare una piccola operazione, e se questa riesce il bambino è salvo.
— Dolorosa? domandò la madre rabbrividendo.
— No... non molto.
La poveretta si celò il viso fra le mani. Il dottore scrisse due righe su di un foglio del suo taccuino, e andò in anticamera per dare degli ordini ai domestici.
— Ma bisognerebbe avvisare tuo marito, esclamò Carlo.
Ella non rispose.
— Ho già telegrafato a Giarre, disse Rendona, cui Carlo ripetè l’osservazione.
— Ma la campagna di Giorgio è lontana più di un’ora e mezzo dal paese! Sarebbe stato meglio mandare un uomo a cavallo per le scorciatoie.
— Ci ho pensato; forse arriverà prima. Manderemo Giuseppe.
Erminia colle labbra strette, colle mani giunte, cogli occhi sbarrati e fisi nel vuoto, lasciava dire, non rispondeva nulla, sembrava che un’onda di amarezza le gonfiasse il petto e le vene del collo.
— Andrò io; soggiunse Carlo, e farò più presto di tutti.
— No! esclamò allora Erminia con voce vibrante, afferrandolo per la mano. Tu no! Non ci lasciare soli anche tu.
Finalmente la signora Ruscaglia, la quale avea saputo tardi della piega minacciosa che avea preso il male del nipotino, arrivò anche lei tutta scalmanata. Erminia si lasciò abbracciare e scoppiò di nuovo in singhiozzi nelle braccia della madre.
Tutti piangevano come se il povero Giannino fosse morto. Il solo Rendona andava dicendo: — Coraggio, coraggio, signori miei! finalmente non siamo a questo estremo!... Abbiamo delle speranze, vi dico!
Alle parole del dottore succedeva un silenzio penoso. La signora Roncaglia piagnucolava in un canto del canapè per conto suo; il medico passeggiava lentamente per la stanza; Erminia, seduta ai piedi del letto, covando cogli occhi il bambino, non si muoveva; Carlo le stava vicino, all’impiedi, appoggiandosi alla colonna del letto, senza muoversi e senza fiatare anche lui. Si udiva nella strada il gran brulichio, il gran va e vieni di carrozze. Di tanto in tanto passava un monello cantando a squarciagola la canzone venuta col maggio. Il pensiero della povera madre errava vertiginoso su tutte le date principali delle breve esistenza del caro infermo; le pareva di udire il suo primo vagito, quel vagito che avea fatto trasalire la prima volta le sue viscere di madre, ricordavasi della prima volta che l’avea visto a poppare, e del primo sorriso che le avea fatto, e delle prima cuffietta che avea ricamato per lui, quando l’aspettava, e del primo giorno che lo avea visto palliduccio, e della prima visita che avea fatto il dottore, e la gioia muta e profonda che s’era sentita in fondo al cuore quando quelle inquietudini s’erano dissipate... e poi, la mattina istessa, quando avea sollevato il velo di quella culla, e avea trovato la sua creaturina con quell’orribile febbre. In seguito si risovveniva di tutti i castelli in aria che avea fatto quando l’avea cresciuto cogli occhi e coll’immaginazione, e l’avea visto andare a scuola, e avea udito il suo piccolo passo rapido nell’altra stanza, e la vocina che la chiamava mamma — sembrava di conoscere già il suono di quella voce. In mezzo a tutti questi ricordi, ce n’era un altro che vi si mischiava ogni momento, di lui, che era stato sempre lì, con lei, in quei castelli in aria e in quelle gioie materne, di lui che aveva tenuto tante volte Giannino nelle braccia, provando un matto piacere quando quel caro piccino sgambettava, e quelle manine gli accarezzavano il viso... e adesso lui non sapeva che il meschinello in quel momento era steso sul letto, gemendo con voce soffocata, e chiedendo aiuto alla sua povera mamma... e l’avea lasciato, così male, ed era partito, e non era là.
Il domestico che recava la boccettina ed i piccoli utensili ordinati dal medico picchiò discretamente all’uscio. Erminia sussultò e si levò di botto, tremando convulsivamente; seguiva la boccettina e la piccola busta nelle mani di Rendona con l’occhio spaventato di un uccello prigioniero. La signora Ruscaglia cominciò a dire che quello spettacolo le faceva male, e andò ad aspettare l’esito dell’operazione in sala; mentre il medico si avvicinava al letto, la madre, pallida come un cadavere, gli afferrò le braccia.
— Dottore! dottore!... e la poveretta in preda alla convulsione, non poteva più parlare. Cosa fate? Cosa gli farete? Gli farete male?
— Ma no! È una cosa da nulla; coraggio, cara signora Erminia! vedrà che il bambino sarà salvo; mi lasci fare: se tardiamo ancora una mezz’ora, non rispondo di nulla. — Allora... sì! facciam presto... Oh, Vergine santa, dove ho la testa?... Ci vorranno dei panni? degli apparecchi?
— Ma nulla ci vorrà. Ci vorrà solo chi mi tenga il bambino un po’ sollevato.
— Io! ci son io! Ma come qualcuno?... Chi potrebbe tenere mio figlio?
— No! lei proprio no! Nello stato in cui è, rischierebbe di farmi fare un malanno.
— Lo terrò io, disse Carlo.
Erminia stette un momento a guardarlo, come smemorata, e assentì col capo.
— Oh, dottore, mi raccomando! il poverino soffre tanto! è così piccino!... Oh, Vergine santa... Oh, Signore!... e singhiozzava parole rotte e sconnesse, e andava e veniva per la camera senza sapere che facesse, torcendosi le mani, aggirandosi sempre intorno al piccolo gruppo, formato da Rendona e da Carlo che teneva il bambino vicino al lume, verso il quale era attratta e avea paura di avvicinarsi. Seguiva con occhi ansiosi i più piccoli movimenti del medico, che le sembravano di una durata eterna; si sentiva rimuovere dentro il petto, come se le lacerassero il cuore, tutti i ferri più lucenti e mostruosi da chirurgo che sapesse immaginare. Il bambino strillava con voce soffocata; ad un tratto mise uno strillo più acuto; allora ella si avventò con un salto da belva. Il medico riponeva la busticina e diceva tranquillamente:
— Riponetelo sul letto. È andata benone.
La madre prese il figlio dalle braccia di Carlo con un’aria feroce, e, adagiandolo sul letto, scoppiò in una crisi di pianto che la sollevò.
La signora Rendona rientrò gemendo, e il dottore si sbracciava invano a rassicurare le due donne dicendo che tutto era andato bene, che ci era speranza, che il male avrebbe preso piega migliore dopo la mezzanotte. Il bambino infatti sembrava respirare più liberamente. Erminia andava dal letto all’orologio, e di tanto in tanto fermavasi presso la finestra ad ascoltare, come se aspettasse qualcheduno; poi ricominciava a passeggiare, un po’ barcollando. Il dottore avea promesso che non si sarebbe mosso sin dopo la mezzanotte. Verso il tocco la signora Ruscaglia cascava dal sonno, e tutti concordemente l’avevano indotta a buttarsi sul letto, così vestita com’era. Erminia era andata ad accompagnarla, e mentre ritornava nella sua camera incontrò nel salotto il cugino Carlo che correva verso di lei.
— Sta allegra, Erminia! il dottore dice ch’è salvo! La febbre rimette; s’è addormentato tranquillamente e respira benissimo.
La poverina si fece smorta in viso; rimase un istante senza dir nulla, cogli occhi sbarrati in quelli di lui, tutta tremante, poi gli buttò le braccia al collo, e scoppiò in singhiozzi dicendo:
— Oh, quanto ti voglio bene!
Giorgio arrivò a casa ch’era prestissimo. La porta aperta a quell’ora insolita, i domestici affaccendati, gli misero addosso un gran turbamento e lo fecero correre alla camera della moglie in grande agitazione. La lucerna ardeva ancora, nonostante che la finestra fosse già chiara: Carlo e Rendona erano seduti sul canapè; Erminia, curva sul bambino, volgeva le spalle all’uscio; udendo entrare il marito, ella si voltò trasalendo, e vedendolo rimase come sbalordita, trafelata in viso, le labbra le incominciarono a tremare senza poter dire una parola; poi quel tremito si estese alle gambe, e cadde seduta sulla poltrona ai piedi del letto. Carlo e il dottore, vedendo il pallore di Giorgio che non osava fare un passo nella camera, s’erano avvicinati a lui.
— Non è nulla! diceva Rendona, siamo fuori di pericolo; l’abbiamo scappata bella, ma siamo fuori di pericolo.
Giorgio si avvicinò al letto come non si reggesse bene sulle gambe; interrogò ansioso l’aspetto del bambino che dormiva, poi prese con mano tremante la mano della moglie. La poveretta si lasciava fare, ma tremando più forte; all’improvviso si gettò bocconi sul letto e scoppiò in singhiozzi a voce alta.
— Non è nulla, andava dicendo Rendona, lasciatela sfogarsi. È una crisi salutare, la tensione nervosa durava da un pezzo. Lasciatela piangere che le farà bene.