Tempesta e bonaccia/VIII
Questo testo è completo. |
◄ | VII | IX | ► |
VIII.
Non so come avvenisse, che, durante quella passeggiata, ci trovammo a parlare d’amore, a teorizzarvi intorno, a fare della metafisica sentimentale. Certo fu lei a mettere il discorso su tale argomento. Le donne non sanno parlar d’altro.
Per pura cortesia io dovetti secondarla, ed in breve c’ingolfammo in uno di quei laberinti di ragionamenti da cui non c’è filo d’Arianna che ci tragga.
Mi sarebbe impossibile dire da che punto partimmo, e dove ci condusse la discussione, sebbene ne abbia in mente molte parole e persino il suono della voce di Fulvia nell’atto che le pronunciava; ma l’ordine mi sfuggì; forse perchè il discorso non ne aveva.
Si parlava d’incostanza. Fulvia mi disse:
— Convenga che noi abbiamo creato questa parola, e l’abbiamo schierata tra le colpe nel codice dell’amore, mentre non è che un fatto naturale. Forse l’amore è un episodio tempestoso; non altro. Due persone s’incontrano; dopo un tempo più o meno lungo s’accorgono d’amarsi; se lo dicono; sono felici di quel sentimento: ma quello stato d’esaltazione non dura, e, cessata l’esaltazione, è cessato l’amore. La costanza, che si traduce in quell’affetto lemme lemme, da cui sono avvinti gli sposi, è un portato della civiltà, e ne abbiamo bisogno per la tutela della prole. Ma in natura non esiste. Ed infatti vediamo che tutti gli animali si amano per un dato periodo di tempo poi diventano stranieri gli uni agli altri.
Disse tutto ciò con molta serietà; ma quando io volli rispondere per combattere codeste idee, esclamò:
— Mio Dio, come siamo ridicoli a voler ragionare sul sentimento, e definirlo! Ognuno lo prova in un modo speciale ed agisce in conseguenza.
E rise del suo discorso, e sopratutto non poteva perdonarsi d’aver detto tutela della prole, e d’aver paragonato l’amore degli uomini, che per lei era tutto idealismo, a quello degli animali inferiori.
— Come tutto questo è volgare e brutale! diceva. Subordinare la passione al calcolo preventivo dei bisogni della società!
Profanazione! dov’è il Cristo che scacci i mercanti dal tempio? Il sentimento è l’essenza divina che il soffio di Dio ha infuso nell’uomo. Accettiamolo com’è.
— Tutto questo mi prova, le risposi con un’enfasi di cui allora non mi rendevo ragione, che per ora lei non è innamorata. L’amore ha leggi fatali che tutti siamo costretti a subire. Ammetto che possa finire, anzi in tesi generale è certo che finisce. Ma nessun innamorato ha il coraggio di dirlo e neppur di pensarlo. Mai, sempre, sono parole che si legano inevitabilmente all’amore. L’idea che quegli sguardi che c’inondano di dolcezza non si rivolgeranno più sopra di noi, che quella mano tanto eloquente pel nostro cuore non stringerà più la nostra mano, che fra noi e quell’essere, che è parte di noi, che è anzi tutta la nostra vita, debbano frapporsi il tempo e lo spazio, ci mette spavento; sentiamo di preferire la morte; e nel giorno dell’amore nessuno comprende la vita fuori e dopo di esso.
Io parlavo coll’eloquenza della convinzione, che è pure la chiave del successo. E nondimeno ella si aggrappava sempre più alla sua strana teoria, ed io non potei rimovernela d’un punto.
L’entusiasmo con cui dipingeva il suo episodio tempestoso, mi faceva sentire sempre più, non per me, ma per l’amico mio, che certo amava Fulvia, il bisogno che quell’amore fosse durevole.
Fulvia mostrava troppa potenza d’amore e di sacrifizio, perchè quelle idee fossero inerenti al suo carattere. L’amore in lei doveva, una volta nato, assorbire tutto il suo essere, sovrapporsi ad ogni interesse, ad ogni considerazione, non colla sfrontatezza che calpesta le leggi, ma colla nobile abnegazione che persiste, e vince.
Credetti comprendere che circostanze speciali non le permettessero la speranza d’un amore più completo, ed ella si adoperasse ad idealizzare quel poco che le veniva concesso, tanto per rapire la sua fugace scintilla al fuoco celeste.
Ma quali fossero queste circostanze, non mi riesciva d’immaginarlo.
Un’artista giovane, libera, corteggiata, perchè non potrebbe amare?
perchè non potrebbe vagheggiare di unirsi per sempre all’uomo amato?
Forse un punto nero nel suo passato non le permetteva di abusare della fede d’un uomo d’onore!
Ma tutto in lei si opponeva a questo sospetto.
Da tutti i suoi atti, da tutte le parole traspariva la confidente lealtà della donna onesta.
Tuttavia, per l’interessamento che m’inspirava l’amico mio, sentivo il bisogno di scrutare più profondamente l’animo di Fulvia.
— Giorgio è innamorato di lei, nevvero? le domandai senza altri preamboli.
— Non mi ha mai detto questo.
— Non l’ha detto, ma l’ha fatto comprendere.
— Non so. Io non mi occupo d’indovinare sciarade.
— Sia sincera, Fulvia, mi dica la verità. Crede che Giorgio l’ami?
— Non posso dirle ch’io lo creda propriamente; ma certo se non mi amasse, sarebbe un gran commediante.
— Dimostra di amarla molto dunque?
— Prende tutte le apparenze d’un sentimento profondo e represso.
— Represso?
— Certo. Represso.
— Non le disse mai una parola d’amore?
— Mai.
— Non le piace Giorgio?
— Sì; mi era simpatico, e la sua voce mi risuonava possentemente in cuore.
— E poi?
— Cosa vuole! io ho una iettatura. Mi piacciono gli amori da romanzo.
Vorrei che l’amore fosse così anche nella realtà. Ed invece è tutt’altro. E quando mi pare di scontrarmi in una passione come quelle che si leggono, è come una goccia di mercurio; mi sfugge mentre sto per afferrarla.
— Io non sono forte nello stile figurato, e forse non la comprendo, osservai. Ma è certo che Giorgio non mi sembra punto inclinato a fare con lei la goccia di mercurio.
— Eppure, prima che il sogno si facesse realtà, è passato un soffio di vento, ed ha rovesciato l’idolo dal piedestallo.
— Così, domandai con involontaria acrimonia, lei ha avuto per Giorgio il quarto d’ora di idolatria?
— Con che tuono lo dice?
— Con che tuono? Non sono le sue parole? Non ha detto che si crea un idolo? E che quell’idolo cade ben presto dal suo piedestallo?
— Sì, ho detto codesto, ed è vero. Ma ebbi torto di dirglielo. Io le apro schiettamente il mio animo, come se fossimo vecchi amici. Le spiego un fenomeno che accade a me, che nasce forse da una eccessiva delicatezza di sentimento, e che ad ogni modo apporta conseguenze penose, per me, come per altri; e lei mi risponde con un’ironia che sente il rimprovero. Ci ho colpa io se sono fatta così?
Ella mi volse quell’apostrofe con una voce in cui strisciava l’accento allentato del disinganno che sembra volgersi indietro, e staccarsi con pena da una credenza passata; il suo cuore aveva sofferto della mia ironia, e nelle sue parole mi pareva di sentire gocciolare le lagrime che respingeva dagli occhi.
Confesso che non mi ero mai conosciuto prima d’allora tanta equità di sentimento e tanta facoltà di compunzione. Neppure nelle rimembranze azzurre della mia prima confessione, trovavo nulla di simile al sincero pentimento, al profondo dolore che mi strinse il cuore al pensiero di aver offeso il mio prossimo nella persona di Fulvia.
Curvai come una parentesi la mia lunga persona per mettere la mia testa al livello di quella di lei, e le dissi, con intima convinzione:
— Oh! perdoni, signora Fulvia, lo giuro sull’anima mia che non ho voluto offenderla; dica, mi perdona?
Ella mi stese la mano senza parlare, e volle sorridermi per supplire alla parola; ma le sue labbra tremavano in quel momento, ed i suoi occhi mi apparvero natanti in uno strato cristallino... Povero cuore di donna, tenero, generoso! Fulvia era commossa; ed io! Ah, non sapevo che desse tanto rimorso l’offendere il prossimo. Ripregai quel prossimo gentile di perdonarmi: e che me lo dimostrasse continuando quel discorso interrotto: ero così felice di quelle confidenze e così dolente di averle demeritate: ma no, non le avevo demeritate; ella non lo credeva. No? Ebbene, perchè non proseguiva? Perchè non voleva dirmi come era svanito in lei quel nascente amore per Giorgio?...
Un sorriso, una stretta di mano... ed il prossimo clemente continuava così:
— Si ricorda la festa da ballo di martedì? Io, senza esser punto innamorata di Giorgio, avevo avuto la debolezza di farmi bella per lui. Mi pareva che mi amasse come vorrei essere amata io, per una leggerezza di cui mi vergogno, desideravo di sentirmelo dire colla sua voce appassionata. Giorgio m’invitò a danzare, e mi fece danzare davvero. Ma quando mi strinse al suo cuore, e forse la parola d’amore stava per sfuggirgli dal labbro, quell’abbraccio mi lasciò fredda. Egli lo sentì, e tacque.
— Ma perchè? Cosa le aveva fatto?
— Nulla: si ricorda che lei mi aveva chiesto il primo ballo per star seduti vicini, a veder le tolette? Allora Giorgio andò ad invitare un’altra signora, e volle spiegare ai miei occhi tutte le sue grazie.
Mio Dio! Non l’avesse mai fatto! Non ha mai osservato come è ridicolo un uomo serio nella danza? E per colmo di sciagura, ballava bene! Che orrore! Era così volgare, così volgare... mi fece un’impressione terribile... Mi fece ridere.
— Ma è una follia. Potrà cancellarsi quell’impressione. Giorgio non ballerà più, e sarà tutto dimenticato.
— No. Da quel giorno quel principio di simpatia svanì. Giorgio ha sentito il contraccolpo della mia freddezza. Egli è cortese sempre, ma è tutto mutato per me. Però siamo sempre buoni amici.
— Ah! lei è una fanciulla terribile, Fulvia. Povero Giorgio! Povero Giorgio! Egli che va superbo di ballar così bene!
Mi accorsi che accompagnavo quest’esclamazione col più giocondo riso.
Ne rimasi atterrito. E pensai: Amerei forse questa pazza giovane che respinge da sè un nobile cuore, come un cencio, perchè l’uomo che glielo consacra balla troppo bene?
Quando stavamo per entrare in città, le dissi:
— Lei è una donna molto simpatica, ma molto strana.
Ella non mi rispose. Rientrati in casa, ci sedemmo come la sera innanzi, ai due lati del tavolino.
Riepilogavamo in brevi frasi interrotte i discorsi fatti. Mi ricordo di averle detto:
— Io compiango quel povero giovane che s’innamorerà di una donnina tanto capricciosa.
— Non lo compianga — mi rispose Fulvia con una profonda nota di petto che non aveva mai fatto vibrare fin allora, neppure in teatro. — Non lo compianga, perchè io credo di saper amare come poche donne sanno.
In quel momento Fulvia era bella d’entusiasmo e di passione.
— Per otto giorni? le dissi; e veramente anche la mia voce non aveva più il suono di prima.
Oh! gioventù, gioventù!
Prima che Fulvia avesse tempo a rispondere, l’uscio si aperse, ed entrò Giorgio con alcuni amici.
Giorgio era pallidissimo; aveva l’occhio spento; una nube di tristezza pareva velargli la fronte; i suoi atti erano lenti, la sua voce fioca.
Disse: «Buona sera, Fulvia» come avrebbe detto «Requiescat in pace.» Lo trovai molto ridicolo. Gli gridai alla mia volta «Buona sera, Giorgio!» come avrei gridato «Viva l’Italia!»
E traversata la sala andai a piantarmi dinanzi allo specchio con un sorriso di soddisfazione. Non ero un uomo serio, ed avevo la convinzione di ballare orribilmente male. Per la prima volta compresi la portata di codeste mie grazie.
Quando mi ritirai nella mia camera e mi coricai, invocai invano il sonno ed il riposo. Il bernoccolo della morale aveva preso in me uno sviluppo straordinario. Ero profondamente pentito d’aver potuto oltraggiare Ernesto ne’ suoi affetti coniugali; un momento di delirio mi aveva trascinato, mio malgrado, a tradire l’amicizia; quel momento era durato quattro anni... Sono fenomeni strani, ma che pure accadono.
Giosuè non ha fermato il sole? Ma veramente io sentivo repugnanza a quella vita di inganni; provavo il bisogno di rientrare nella legalità. La profonda riconoscenza che serbavo a Vittoria pel suo amore (non si trattava già più del mio) non m’impediva di osservare la tranquillità con cui ella mentiva al marito alla mia presenza. Certo ella si prestava ad un’odiosa commedia; certo ne soffriva; ma tuttavia con che arte vi si prestava! E come sapeva nascondere le sue ripugnanze! Oh! una donna che mente dinanzi all’uomo che ama, non può farlo che a danno di quello stesso amore per cui si avvilisce fino alla menzogna. Io ero stato ben generoso a superare il disgusto che m’inspirava quell’ipocrisia sorridente; avevo spinto la clemenza fino a non avvedermene affatto; ma ormai mi era caduta la benda. Il mio onore, il decoro e la pace di Vittoria, l’amicizia di Ernesto m’imponevano di rompere quella relazione colpevole. Ed a coronare tutto codesto capitolo di morale rivoltato in tutti i sensi, veniva sempre come un ritornello la riflessione: «Fulvia è una cara ed onesta giovane, ed io ballo assai male.»
Verso le quattro del mattino, stanco di avvoltolarmi nel letto, e stanco di quelle idee sempre le stesse, che cominciavano a diventar noiose, mi alzai, e mi posi a scrivere alla marchesa quelle mie riflessioni, ed a persuaderla ch’era necessario separarci per sempre.
Per quanto io stesso riconosca i miei torti, e sappia punirmene col sarcasmo, posso dirlo a fronte alta, io non sono cattivo. Avevo amata Vittoria con tutta l’anima; la passione mi aveva trascinato per un pendìo fatale e colpevole.
Le gelosie, gli ostacoli, l’acre sapore del frutto proibito e, più che tutto, il bisogno d’amare del mio cuore giovane ed ardente, avevano prolungato per quattro anni quell’accecamento passionato, che in una natura più fredda, in una mente più calcolatrice, e però più egoista, sarebbe cessato dopo pochi giorni. Quando conobbi Fulvia, un nuovo amore, ed un amore puro, legittimo, pieno di speranze e di sorrisi, che poteva fare la felicità di due cuori, senza frangere altri cuori, senza ledere nè l’onore nè l’amicizia, senza dare rimorsi nè a me nè ad altri, aveva cominciato a balenare alla mia mente come cosa che riguardasse Giorgio. Così lo avevo compreso, apprezzato. A poco a poco, senza ch’io stesso me ne rendessi conto, quella luce pura aveva albeggiato sul mio proprio orizzonte, mi aveva presentato la vita passata e la futura sotto un nuovo aspetto. Allora vidi l’errore che la passione mi aveva celato. Considerai me stesso e gli altri, sperai di potermi togliere a quella falsa posizione attingendo in un amore innocente la forza di strapparmi a’ vincoli, a cui tuttavia mi legavano le memorie, le abitudini, la riconoscenza. Se avessi preso quella risoluzione senza l’aiuto ed il conforto d’un nuovo affetto, sarei stato più eroico. Io non fui che un uomo d’onore; accettai la forza piovutami in cuore senza demandarle da qual parte venisse; avevo trent’anni, ed avevo sostenute per quattro anni con fede e costanza le tempeste d’un amore clandestino; chi potrebbe farmi una colpa d’aver accolto nel mio pensiero la speranza d’un amore giovane ed ardente come il mio cuore?
Tuttavia non fu senza lagrime che tracciai quella lettera che doveva frapporsi, barriera eterna, fra me e Vittoria.
Il mio cuore è buono; sentii il suo dolore, ne presi la mia parte. Dinanzi alla crisi tremenda della separazione, tutti i trasporti si ridestarono in me. La bella figura piangente di Vittoria grandeggiò ai miei occhi di tutta la nobiltà della sventura; tutti gl’istinti generosi dell’anima mia mi riportarono verso di lei; dimenticai la lieta artista che non aveva avuto ancora per me nè un palpito nè una lagrima.
Se la donna mia fosse stata libera, quel salutare ritorno su me stesso mi avrebbe ricondotto a lei per sempre; ed a lei, a lei sola, avrei domandato ed offerto, nella serena dolcezza d’un amore senza colpa, l’obblio dei nostri torti, dei nostri rimorsi. Un istante gettai la penna e volli correre a lei, ma l’incanto omai era sciolto; e non mi era più possibile di calpestare l’onore e l’amicizia che si frapponevano fra noi. Se prima, cieco ed impetuoso, meritavo perdono, ora ipocrita e consciamente colpevole, avrei meritato disprezzo.
Ripresi la lettera incominciata, ed ebbi il coraggio crudele di compierla; e quando l’ebbi fatta consegnare a Vittoria, mi sentii migliore. Ella mi rispose un biglietto rassegnato e melanconico in cui mi domandava di continuare a frequentare la sua casa per salvare le apparenze, per evitare i commenti. Nella gioia come nel dolore gli amori colpevoli impongono la finzione ed il calcolo.