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IX.

Per tutto quel giorno non vidi Fulvia. Omai non era più possibile l’illusione. Non per convenienza, non per vegliare alla felicità di Giorgio, ma per me, per la mia propria felicità io mi sentivo attratto verso quella strana giovane; il suo sguardo, la sua voce, la lealtà del suo cuore avevano gettato nel mio i germi dell’amore. Lo sentivo nascere in me, ed un terrore inconscio mi avvertiva di fuggirla.

Tuttavia questa risoluzione non era ben determinata, e mentre andavo vagando dalla Galleria al caffè Martini, e di là ai Giardini pubblici, trovando le ore lunghe ed il giorno eterno, non volendo più tornare all’Albergo Milano, dicevo fra me:

«Che mi dirà quando la rivedrò? Si lagnerà della mia assenza?»

E continuavo a ripetere queste parole:

«Quanto tempo che non vi vedo, Max!» e studiavo in esse l’intonazione della sua voce. Dove e quando mi avrebbe salutato così, dacchè non dovevo più vederla?

Non ne sapevo nulla, ma udivo quelle parole, e mi scendevano al cuore; e le ripetevo con tale insi[p. 34 modifica]stenza che ne ero sbalordito, ed il capo mi pesava come dopo un’emicrania.

Il giorno seguente, alle undici del mattino, stavo in piedi al caffè Martini dalla parte di via Manzoni. Il mio famoso: «Quanto tempo che non vi vedo, Max!» cominciava a farsi scolorito, e, malgrado tutti gli sforzi della mia immaginazione, non mi riesciva più di riprodurre, nel pronunciare quella frase, l’impressione di dolcezza che mi aveva fatta provare il giorno innanzi. Avevo vegliato tutta notte su quel pensiero. Lo avevo completamente esaurito, e con esso la mia energia, l’immaginazione, e la potenza d’amare. Ero annoiato; mi trovavo puerile d’aver fantasticato come uno scolaro dietro un sogno d’amore; i miei scrupoli a proposito di Vittoria mi sembravano ridicoli; insomma l’uomo raffazzonato dalle abitudini sociali si sostituiva in me all’uomo della natura, in quell’atmosfera del caffè Martini.

Guardavo giù giù in via S. Giuseppe l’andirivieni di belle signore in toletta da mattina, di bei giovanotti che le adocchiavano; e sbadigliavo ad intervalli misurati, quando udii una vocina graziosa esclamare:

— Oh! il signor Guiscardi!

Era Fulvia accompagnata da Giorgio che andava alla prova dell’opera.

Io mi affrettai a salutarla, ed ella mi disse: [p. 35 modifica]

— Come va che ieri non l’ho veduto tutto il giorno?

Nulla dell’intonazione misteriosa e melanconica della frase ch’io sognavo. Ed infatti, perchè mi avrebbe detto Max? Non me l’aveva mai detto. E dove aveva preso io l’idea ch’ella mi amasse tanto da esclamare quanto tempo! dopo un giorno? È vero ch’io non aveva stabilito l’epoca del nostro incontro; ma è altresì vero che mi giungeva già in ritardo.

Fulvia mi rivedeva con evidente piacere; ma era lieta e serena come all’usato.

— Credevo che mi amasse, ma non è vero, pensai. E questa contrarietà mi ridonò tutto l’ardore giovanile del giorno innanzi; e quella frase scolorita riprese tutte le sue attrattive; ed avrei dato l’anima mia per sentirmi dire da Fulvia:

— Quanto tempo che non vi vedo, Max!

Il mio proponimento di fuggire la giovane artista fu completamente dimenticato. Era evidente che non l’avevo preso se non per provare quanto le rincrescerebbe la mia lontananza. Ma poichè non produceva nessun effetto, era necessario ch’io mi facessi amare abbastanza, perchè un’altra volta avesse a desiderarmi. Questa argomentazione naturalmente non la formulai nè colle parole, nè col pensiero; ma mi sentii irresistibilmente trascinato a ravvicinarmi a Fulvia, e da quel giorno le consacrai tutte le ore, tutt’i momenti che la mia professione mi lasciava liberi. [p. 36 modifica]

E rivissero in me i poetici entusiasmi della prima giovinezza, e le timide peritanze e gl’impeti inconsiderati ed i terrori puerili, e l’eterno dubbio e l’eterna speranza.

Con lei sciolsi il riso romoroso della fanciullezza; e mi abbandonai alle vergini emozioni dei primi affetti. Tutto il mondo era rinverdito intorno a me, ed io col mondo.

Nè mai parola esplicita d’amore era corsa tra noi, nè mai ci eravamo trovati a lungo da soli dopo quella sera. Altri amici erano sempre con noi e tutti la corteggiavano, e parecchi nutrivano evidentemente per lei vero affetto, e speravano. Ed io li trovavo sommamente impertinenti, ed era offeso che Fulvia non se ne mostrasse oltraggiata. Ed io pure l’amavo, e speravo, e non mi credevo impertinente, nè avrei trovato ragionevole che Fulvia considerasse codesto un oltraggio.

Tutti insieme facevamo lunghe scorribande per le nostre prosaiche campagne lombarde; e talora la mesta Vittoria era con noi; e Fulvia le cingeva la vita, e lungo i campi monotoni passeggiavano abbracciate e parevano la statua del dolore stretta a quella della gioia, il compendio della vita umana.

In tali giorni io non corteggiavo Fulvia, per non offrire alla marchesa uno spettacolo doloroso; e di codesta abnegazione mi sentivo eroico. [p. 37 modifica]

Ma allora i miei amici le stavano intorno e le dicevano mille cose galanti, e le davano margheritine a sfogliare per vedere chi di noi l’amasse più; ed io mi sentiva molto infelice.