Sull'Oceano/L'Italia a bordo

L'Italia a bordo

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Nel golfo del Leone A prua e a poppa
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L’ITALIA A BORDO


E poi, come ricetta contro la noia, avevo una lettera di presentazione per il Commissario, scritta da un amico di Genova, il quale Io pregava di facilitarmi le osservazioni che avrei voluto fare sul Galileo. Prima che s’arrivasse a Gibilterra, gli andai a far visita. Egli stava di casa in coperta, vicino all’udicio del Comandante, in uno dei due lunghi passaggi che vanno da poppa a prua; al quale, perchè v’era un andirivieni continuo di gente, gli ufficiali avevano posto il nome di Corso Roma. Lo trovai in un camerino bianco, tutto ornalo di ritratti fotografici, e pieno di piccoli oggetti di comodità e di ninnoli, che gli davano un’aria di nido domestico, affatto diversa da quella delle nostre celle [p. 26 modifica] nude di locanda. Era un bel giovanotto genovese, biondo, che vestiva con grazia la divisa modesta d’ufficiale di bordo, e lasciava trasparire dalla serietà del viso regolare e immobile un’acuta facoltà d’osservazione e un fino senso comico. Mi condusse subito nel suo ufficio, posto dall’altra parte del Corso. Oltre che amministratore e depositario della posta, egli era sul piroscafo un quissimile di pretore, che vegliava sul buon ordine e giudicava le liti che potessero insorgere tra i passeggieri di terza classe.

Bastò uno scambio di poche parole a farmi capire che avrei avuto nel viaggio un assai più vasto e nuovo campo d’osservazione di quello che mi fossi immaginato. Per effetto dell’agglomerazione in cui erano costretti a vivere, e delle grandi differenze d’indole e di costumi che passavan fra di loro, ed anche dello stato d’animo straordinario nel quale si trovavano, quella moltitudine di emigranti dava luogo, nel corso di pochi giorni, a una molteplicità e varietà di casi psicologici e di fatti, quale appena suol darla a terra, nello spazio di un anno, una popolazione quattro volte maggiore. Nei primi giorni non me ne sarei potuto [p. 27 modifica]fare un’idea. Bisognava aspettare che si fossero un poco assettati e ritrovati, che fossero nate le relazioni, le simpatie, le gelosie, i contrasti, e che si fosse elevata la temperatura. Occorreva lasciare ai capi originali il tempo d’acquistare la loro piccola celebrità, ai capipopolo di formarsi il loro uditorio, alle “bellezze„ di essere conosciute, ai pettegoli dei due sessi, di trovar materiale da lavorare e da rivendere: poi la vita di bordo avrebbe preso il carattere e l’andamento della vita di un grosso villaggio, dove tutti gli abitanti, oziosi per necessità o per abito, passassero la giornata per le strade e mangiassero tutti insieme sulla piazza. Io potevo dunque immaginare che razza di cronaca quotidiana ci sarebbe stata. E dicendo questo, il Commissario scrollava il capo con un leggiero sorriso, che faceva indovinare i tesori di pazienza ch’ei doveva spendere, e la stranezza delle scene a cui gli toccava d’assistere.

Aveva sul tavolino un monte di passaporti, di cui mi mostrò lo spoglio. Il Galileo portava mille e seicento passeggieri di terza classe, dei quali più di quattrocento tra donne e bambini: non compresi nel numero gli uomini dell’equipaggio, che toccavan quasi i duecento. Tutti i [p. 28 modifica]posti erano occupati. La maggior parte degli emigranti, come sempre, provenivano dall’Italia alta, e otto su dieci dalla campagna. Molti Valsusini, Friulani, agricoltori della bassa Lombardia e dell’alta Valtellina: dei contadini d’Alba e d’Alessandria che andavano all’Argentina non per altro che per la mietitura, ossia per metter da parte trecento lire in tre mesi, navigando quaranta giorni. Molti della Val di Sesia, molti pure di que’ bei paesi che fanno corona ai nostri laghi, così belli che pare non possa venir in mente a nessuno d’abbandonarli: tessitori di Como, famigli d’Intra, segantini del Veronese. Della Liguria il contingente solito, dato in massima parte dai circondari d’Albenga, di Savona e di Chiavari, diviso in brigatelle, spesate del viaggio da un agente che le accompagna, al quale si obbligano di pagare una certa somma in America, entro un tempo convenuto. Fra questi c’erano parecchie di quelle nerborute portatrici d’ardesie di Cogorno, che possono giocar di forza coi maschi più vigorosi. Di Toscani un piccolo numero: qualche lavoratore d’alabastro di Volterra, fabbricatori di figurine di Lucca, agricoltori dei dintorni di Firenzuola, qualcuno dei quali, come accade spesso, avrebbe forse un giorno smesso la zappa per fare il suonatore [p. 29 modifica]ambulante. C’erano dei suonatori d’arpa e di violino della Basilicata e dell’Abruzzo, e di quei famosi calderai, che vanno a far sonare la loro incudine in tutte le parti del mondo. Delle province meridionali i più erano pecorari e caprari del litorale dell’Adriatico, particolarmente della terra di Barletta, e molti cafoni di quel di Catanzaro e di Cosenza. Poi dei merciaiuoli girovaghi napoletani; degli speculatori che, per causare il dazio d’importazione, portavano in America della paglia greggia, che avrebbero lavorata là; calzolai e sarti della Garfagnana, sterratori del Biellese, campagnuoli dell’isola d’Ustica. In somma, fame e coraggio di tutte le province e di tutte le professioni, ed anche molti affamati senza professione, di quelli aspiranti ad impieghi indeterminati, che vanno alla caccia della fortuna con gli occhi bendati e con le mani ciondoloni, e son la parte più malsana e men fortunata dell’emigrazione. Delle donne il numero maggiore avevan con sè la famiglia; ma molte pure erano sole, o non accompagnate che da un’amica; e fra queste, parecchie liguri, che andavano a cercar servizio come cuoche o cameriere; altre che andavano a cercar marito, allettate dalla minor concorrenza con cui avrebbero avuto a lottare nel nuovo mondo; e alcune [p. 30 modifica]che emigravano con uno scopo più largo e più facile. A tutti questi italiani eran mescolati degli Svizzeri, qualche Austriaco, pochi Francesi di Provenza. Quasi tutti avevan per meta l’Argentina, un piccolo numero l’Uruguay, pochissimi le repubbliche della costa del Pacifico. Qualcuno, anche, non sapeva bene dove sarebbe andato: nel continente americano, senz’altro: arrivato là, avrebbe visto. C’era un frate che andava alla Terra del Fuoco.

La compagnia, dunque, era svariatissima, e prometteva bene. E non era soltanto un grosso villaggio, come m’osservava il Commissario; ma un piccolo Stato. Nella terza classe c’era il popolo, la borghesia nella seconda, nella prima l’aristocrazia; il comandante e gli ufficiali superiori rappresentavano il Governo; il Commissario, la magistratura; e della stampa poteva fare ufficio il registro dei reclami e dei complimenti aperto nella sala da pranzo; oltre che i passeggieri stessi, qualche volta, non sapendo che far altro per ammazzare la noia, fondavano un giornale quotidiano. Ne vedrà e ne sentirà di tutti i generi, — mi disse — , e la commedia crescerà d’attrattiva fino all’ultimo giorno. — Intanto mi preparò alla rappresentazione, [p. 31 modifica]mostrandomi alcuni documenti curiosissimi d’ingenuità contadinesca, delle lettere di raccomandazione che certi emigranti avevan consegnate a lui e al Comandante, scritte in favor loro da parenti, o da altre persone sconosciutissime all’uno e all’altro. — Signor Comandante del bastimento, le raccomando tanto il tal dei tali, nativo del mio paese, bravo agricoltore, ottimo padre di famiglia, mio buon amico... — Alcuni avevano di queste lettere, firmate da Tizi ignoti, perfino per alte autorità di Montevideo e di Buenos Ayres. Gli erano anche state presentate da passeggiere bellocce e sorridenti delle commendatizie evidentemente apocrife d’un padre o d’uno zio, come un modo indiretto di domandar protezione, lasciando capire che non sarebbero state sorde alla voce della gratitudine. — Le raccomando con tutto il cuore mia sorella, che essendo giovane e sola in mezzo a tanta gente, potrebbe trovarsi esposta... — E fin dal primo giorno aveva trovato nel suo ufficio un bigliettino scarabocchiato col lapis, senza nome; una dichiarazione cieca di simpatia, con l’espressione d’una vaga speranza che lui avrebbe riconosciuto il viso di lei' in mezzo a tutti gli altri, dal sentimento; ma che per carità non dicesse nulla, che custodisse il segreto o perdonasse [p. 32 modifica]l’imprudenza. Amore, alma del mondo. Questo era il grand’affare in quei lunghi viaggi transatlantici. O fosse per effetto dell’ozio, che lasciava troppo libere le fantasie già eccitate dalle molte commozioni dei giorni antecedenti, o per un particolare influsso fisiologico dell’atmosfera marina, congiunto ad una tendenza insolita alla tenerezza, nata dal sentimento della solitudine, era un fatto, mi disse il Commissario, che la “popolazione„ del piroscafo gli dava da pensare e da fare principalmente da quel lato lì, e che quella, per conseguenza, sarebbe stata la frase dominante nella grande sinfonia che avrei sentito suonare per tre settimane. E conchiuse sorridendo:— Se io sapessi scrivere un libro!

Eppure, per quei primi giorni, mi attirò assai di più lo spettacolo dell’arca che quello degli animali. E credo che segua il medesimo a chiunque viaggi per la prima volta in uno di quei colossi che fanno lo scambio del sangue e dell’oro fra i due mondi. Da principio ci si confonde la testa in quel labirinto di passaggi, di cantucci, di nicchie, e in quel via vai di gente dell’equipaggio, d’ufficio e di vestiario diverso, che sbucano e si rimbucano di continuo in una quantità di porticine riposte, somiglianti a [p. 33 modifica]quelle d’una carcere o d’un ministero: non par possibile che ci sia bisogno di tanta complicazione di architettura e di servizio per governare e mandare avanti il barcone. Ma poi, quando uno si comincia a raccapezzare, allora ammira la perfezione a cui è arrivato a poco a poco l’ingegno umano nell’arte di stringere insieme, di sovrapporre, d’incastrare l’un nell’altro tutti quei bugigattoli, d’uffici, di magazzini, di stanze da dormire, di laboratori d’ogni fatta, in ciascuno dei quali si vede, passando, qualcuno che scrive, o cuce, o impasta, o cucina, o lava, o martella, quasi rimpiattato, con appena tanto spazio da rigirarsi, come un grillo nel buco, e che pure sembra a suo agio, come se fosse nato e vissuto sempre là dentro, sospeso tra l’oceano e il cielo. La macchina smisurata che muove tutto è il nucleo, e la poppa e la prua sono come i sobborghi di quella specie di città forte, detta castello centrale; la quale è formata dai dormitori della seconda classe, dai camerini degli ufficiali, dei macchinisti, del medico e dei cuochi, dai forni, dalla cucina, dai bagni, dalla pasticceria, dalla calderina, dai depositi dei viveri, della biancheria, dei fanali, della posta. E questa città del mezzo, percorsa da due lunghe vie laterali, tutta affaccendamento e rumore, e piena d’odor [p. 34 modifica]di carbone, d’olio, di catrame e di fritto, è coperta da una terrazza vastissima, come da una piazza pénsile, alla quale il fusto enorme dell’albero maestro e i due giganteschi fumaiuoli che s’alzano fra lo grandi trombe a vento e le alte grue delle lance, e in fondo il palco di comando, col suo lungo terrazzino aereo, danno un aspetto monumentale stranissimo, che alletta la fantasia come l’immagine d’una città misteriosa. Da questa terrazza, occupata in gran parte dai passeggieri di terza, si domina tutta la prua, un pezzo d’arca di Noè, un’altra vasta piazza affollata di passeggieri, che ha lungo i due lati le stalle dei bovi e dei cavalli, le stie dei piccioni e delle galline, le gabbie dei montoni e dei conigli, in fondo il lavatoio a vapore e il macello, di qua i cernieri dell’acqua dolce e gli acquai marini, nel mezzo la casetta dell’osteria e la boccaporta dei dormitori femminili, chiusa da una bizzarra sovrapposizione di tetti vetrati, che servon di sedili alle donne, e al di sopra di ogni cosa l’albero di trinchetto, che disegna i suoi cordami e le sue scale nere sul cielo. Ultimo s’alza il castello di prua, che copre i dormitori dei marinai, la fabbrica del ghiaccio e l’ospedale, formando un’altra piazzetta finita in punta, dove un’altra folla si pigia fra gli argani, [p. 35 modifica]le bitte, il molinello e le grandi catene delle àncore e altre boccaporte e altre trombe a vento, come sopra il bastione d’una fortezza avanzata, dalla quale l’estremità opposta del piroscafo, col suo ampio cassero ombreggiato dalle tende e popolato di signore, si vede piccola, confusa, lontanissima, da parere incredibile quasi che faccia parte del medesimo corpo. E non son queste che le parti esteriori del colosso; chè sotto vaneggia un altro mondo, sconosciuto ai passeggieri: magazzini sterminati di carbone, torrenti d’acqua dolce, provvigioni di viveri per una città assediata, depositi enormi di cavi, di vele, di bozzelli, di braghe, un labirinto interminabile di vani semioscuri riboccanti di bagagli, d’anditi per cui non si passa che curvi, di scalette che si perdon nelle tenebre, di recessi profondi e umidi ai quali non giunge neppure il brulichio della folla che si agita sopra, e dove si crederebbe d’essere sepolti nei sotterranei granitici d’una fortezza, se il tremito delle pareti non ci avvertisse che tutt’all’intorno freme una vita immensa, e che l’edifizio è fragile e va.

Così, osservando parte per parte il Galileo, e sfogliando i passaporti col Commissario, passai i primi tre giorni, che dal Golfo di Lione in là [p. 36 modifica]furono di bellissimo tempo; ma giungendo la mattina del quarto allo stretto di Gibilterra, trovammo una nebbia fitta che non ci lasciò vedere nè la rocca, nè la costa di Spagna, nè quella d’Africa, e ci rese difficile il passaggio. Non difficile per la ragione che teneva inquiete molte donne della terza classe, le quali — mi disse il Commissario — immaginavano che il piroscafo si dovesse infilare in una specie di canale strozzato fra le rocce, dove non avrebbe potuto passare che scorticandosi, a rischio d’andare in pezzi, come le barche per l’apertura della grotta azzurra di Capri; ma perchè, a cagion della nebbia, e del gran numero di bastimenti che s’incontrano là, in quel vestibolo dell’oceano, dove si baciano quasi i due continenti, era molto facile un abbordo, che poteva mandarci tutti a fondo, senza lasciarci il tempo di recitar l’atto di contrizione. Fu quindi necessario di procedere con grandissima cautela. E allora si vide una scena mirabile, da cui si sarebbe potuto cavare un grande quadro, intitolato in genovese: — A fuffetta1 — solenne e comico a un tempo. Il Galileo andava innanzi lentissimamente dentro alla nebbia densa, che [p. 37 modifica]intercettava la vista da tutte le parti, a brevissima distanza dal bordo; tutti gli ufficiali stavano all’erta; il Comandante, ritto sul palco di comando, mandava sotto ordine su ordine, di piegare dall’uno o dall’altro lato; la macchina a vapore gittava ogni momento la sua voce d’allarme, una specie d’urlo rauco e lamentevole, come l’annuncio d’una disgrazia. E a destra, a sinistra, davanti, di dietro, rispondevano altri suoni rauchi e sinistri di piroscafi invisibili, alcuni lontani che parevano ruggiti di leoni dell’Africa, altri vicinissimi, come di piroscafi che fossero sul punto d’investirci, altri radi e fiochi, altri fitti e affannosi come grida umane che minacciassero e supplicassero insieme. E ad ogni suono, tutti i mille e seicento passeggieri, affollati e ritti in coperta, si voltavano vivamente di là donde il suono veniva, con gli occhi spalancati, trattenendo il respiro, e molti accorrevano da quella parte, dando colore di curiosità alla paura, ma col viso brutto, come aspettandosi di veder apparire la prua d’un colosso che ci venisse sopra. Non si sentiva una voce in quella moltitudine, non si vedeva un viso che sorridesse. Istintivamente le famiglie si stringevano, molti s’andavano affollando vicino alle lance sospese, altri [p. 38 modifica]adocchiavano di traverso i salvavite appesi qua e là, tutti volgevano alternatamente gli occhi al comandante, come all’immagine d’un santo protettore, e diritto davanti a sè, su quella nebbia malaugurosa, che poteva nasconder la morte. Uno solo pareva indifferente sul cassero di poppa, ed era il mio vicino di tavola, l’avvocato, seduto con le spalle al mare, che leggeva; e già stavo per ammirare il suo eroismo; ma subito mi disingannai, osservando che il libro gli ballava tra le mani la più allegra danza che possa mai ballare un bicchiere di zozza nel pugno d’uno sbornione condannato. E quella musica funerea di segnali durò più d’un’ora, e con essa il silenzio pauroso a bordo, e quell’andare lentissimo del piroscafo, come d’un esploratore che s’avanzasse nell’agguato d’una flotta nemica. Un’ora eterna. Infine non si sentì più che qualche suono lontano, il piroscafo cominciò a correre più rapido, e il comandante, scendendo dal palco col fazzoletto alla fronte, diede il segnale della liberazione. Giravamo allora intorno al Capo Spartel, e il Galileo faceva la sua entrata nell’Atlantico, in mezzo a uno sciame saltellante di delfini, salutati dagli emigranti con un concerto di grida e di fischi. [p. 39 modifica]La nebbia quasi a un tratto svanì, e a sinistra si mostrò la costa d’Africa: una catena di monti lontani, d’una chiarezza di cristallo. E l’Atlantico ci cullava con le sue onde lunghe e placide, simili a vastissimi tappeti azzurri, frangiati d’argento, scossi da miriadi di mani invisibili, gli uni dietro gli altri, senza fine; a traverso ai quali il Galileo distendeva, passando, uno sterminato strascico di trina bianca. Non era diverso il nuovo mare da quello donde uscivamo; eppure ci veniva fatto di alzar la fronte come se lo spirito fosse più libero e l’occhio spaziasse più lontano, e di ber l’aria a lunghe inspirazioni, con un senso nuovo di piacere, come se già ci portasse i profumi potenti delle grandi foreste dell’America latina, alla quale andava diritto il nostro pensiero con un volo di seimila miglia. Il cielo era tersissimo, e pendeva sull’orizzonte uno spicchio bianco di luna, quasi svanito nella soavità dell’azzurro. Pareva che quell’oceano, a cui la maggior parte di noi aveva pensato fino allora con inquietudine, ci dicesse: — Venite, sono immenso, ma buono.


  1. La tremarella.