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260 lettere dal mare

vireal combattimento notturno. Serpeggiano ora sulla coperta i cordoni elettrici che portano luce alle mire dei cannoni, una luce lieve come una fosforescenza di lucciola.

Dritto a poppa persiste nel cielo e nel mare un estremo chiarore del giorno, e viste dalla nave in testa della squadriglia le altre si profilanosottili, precise e nere, come sospese su quell’ultimo pallore del tramonto. Gli uomini di guardia sono rimasti immobili appoggiati alle volate dei pezzi. Il telefonista di ogni cannone conserva sul capo la sua cuffia feltrata simile ad un casco. Ogni affaccendamento si quieta sul ponte vibrante e sonoro. Nessuno più si muove. Accoccolati a gruppi qua e là, al riparo dal vento, i marinai liberi dalla guardia aprono scatole di conserve e divorano con lieto appetito le loro razioni. Qualche risata si leva; delle voci conversano sommesse. Nessuno parla della missione che si va a compire laggiù, all’altra parte del mare.

Gli equipaggi non sanno dove le loro navi vadano. Capiscono che «si va là». Basta. Il resto non li interessa. Il viaggio non ha per loro niente di straordinario. Non hanno fatto altro da quando è cominciata la guerra. Sono stati per tutto: avanti a Trieste, avanti a Pola, avanti a Cattaro. Hanno percorso e ripercorso tutti i meandri dell’arcipelago Dalmato. Hanno abbattuto semafori, distrutto stazioni radio telegrafiche, troncato cavi sottoma-