Storia di una capinera/II
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19 Settembre.
Marianna mia,
Qui non arrivano che cattive notizie, non si vedono che volti spaventati. Il coléra infierisce a Catania. È un terrore, una desolazione generale.
Del resto se non fossero questi timori, se non fossero queste angosce, qual vita più beata di quella che si mena qui? Il babbo va a caccia, o mi accompagna nelle lunghe passeggiate, quando potrei aver paura di smarrirmi pel bosco. Il mio fratellino, Gigi, corre, grida, fa chiasso, si arrampica sugli alberi, e vi lascia appeso tutti i giorni qualche brandello del suo vestito, e la mamma.... (Marianna, se sapessi come mi vien difficile dare questo dolce nome alla mia matrigna! Mi pare di fare un torto alla memoria della mia povera madre.... Ma pure bisogna chiamarla così!) e la mamma a sgridarlo, a dargli dei confetti, dei baci e degli scappellotti, a rammendargli gli abiti, a ripulirlo venti volte al giorno. Ella non sa che agucchiare e accarezzare i suoi figli, beati loro!... e spesso mentre dà un’occhiata alla cucina o alla domestica che prepara il desinare, mi rimprovera che io non son buona a nulla, nemmeno a far la cucina.... Pur troppo è vero! ella ha ragione. Non faccio altro che correre pei campi, raccogliere i fiorellini, e ascoltare il canto degli uccelletti.... alla mia età! Ho quasi venti anni!... capisci? Ne arrossisco io stessa; ma il mio caro babbo non ha cuore di sgridarmi; egli non sa far altro che accarezzarmi e dire: Povera piccina! lasciatele godere questi giorni di libertà!
Ogni volta che penso alla mia povera mamma che dorme laggiù nel camposanto di Catania, mi vengono le lagrime agli occhi. Ma qui ci penso più spesso, perchè mi par di essere straniera nella casa di mio padre. Nessuno ci ha colpa. Non sono abituati a vedermi, ad avermi fra i piedi: ecco tutto.
La mia matrigna poi, se mi rimprovera che io non son buona a nulla, ne ha le sue buone ragioni; gli è pel mio bene, e il torto è sempre mio. Mia sorella non è molto espansiva, perchè non è pazzerella come me: ma mi vuol bene e non si lagna del disagio che io le arreco occupando quel piccol camerino ov’è rincantucciato il mio lettuccio e che altre volte le serviva da guardaroba, mentre adesso tutte le sue scatole e le sue vesti ingombrano la sua camera. Gigi è sempre quel caro fanciullo allegro e chiassone che conosci; mi salta al collo venti volte al giorno, e mi consola con un bacio allorchè la mamma mi sgrida per ragione dei suoi vestiti laceri. Ma che colpa ci ho io se al convento non mi hanno insegnato a rattopparmi i vestiti! Veramente toccherebbe a me. Giuditta è una signorina, e per altro ella è troppo occupata tutto il giorno fra i suoi abiti e le sue acconciature, ed ha ragione di occuparsene tanto, perchè le vesti, i bei nastri, le stanno così bene che sembrano fatti apposta per lei.... E poi ella è ricca della dote di sua madre; il mio babbo, come sai, non è che un modestissimo impiegato. A che dovrebbe pensare ella dunque alla sua età? L’altro ieri, mentre si provava una veste nuova, le domandai il permesso di abbracciarla, tanto era bella! Ella non volle permetterlo, ed ha ragione, per non gualcire la stoffa. Quanto sono sciocca, Marianna! Come se si fosse trattato della mia meschina tonaca di saja che non corre mai il rischio di gualcirsi!
Ah! ma la famiglia è una benedizione del cielo! La sera, quando il babbo chiude le porte, io provo un sentimento ineffabile di contentezza, come se si restringessero i legami che mi uniscono ai miei cari nell’intimità della vita domestica. Invece qual penoso sentimento di tristezza non provavamo tutte noi, povere recluse, te ne rammenti? allorché si udiva suonare il mazzo delle chiavi del portinaio, e stridere i chiavistelli! Allora il mio pensiero correva ai poveri carcerati e il cuore mi si stringeva; me ne son confessata cento volte, ne ho fatto cento penitenze, e giammai ho potuto difendermi da coteste idee. La mattina, prima di aprire gli occhi, allorchè mi risveglia il cinguettìo degli uccelletti che si disputano le miche di pane che io lascio apposta per loro sul davanzale della finestra, il mio primo pensiero si è la contentezza di trovarmi in mezzo alla mia famiglia, accanto al mio babbo, al mio fratellino, a Giuditta, che mi abbracceranno e mi daranno il buon giorno; che io non avrò uffizi da recitare, nè meditazioni da fare, nè silenzi da serbare; che io aprirò la mia finestra, appena salterò giù dal letto onde far entrare quell’aria imbalsamata, quel raggio di sole, quello stormire di fronde, quel canto di uccelli: che io uscirò sola, quando vorrò, a correre e saltellare ove meglio mi piacerà, che non incontrerò volti austeri, nè tonache nere, nè corridoi oscuri.... Marianna! ti confesso all’orecchio un gran peccataccio!... Se mi facessero una bella vestina color caffè! senza crinolina, veh! Oh! questo poi no!... Ma una vestina che non fosse nera, con la quale potessi correre e scavalcare i muricciuoli, che non mi rammentasse ad ogni momento, come questa brutta tonaca, che laggiù a Catania, quando sarà finito il coléra, mi attende il convento!...
Non ci pensiamo. Sono una scapata, sono una matta! ... Perdonami, mia cara Marianna, ho scherzato; ma intanto non ti ho detto ancora che ho un bell’uccelletto, un grazioso passerotto, allegro, vispo, che mi vuol bene, che mi risponde, che vola a prendere l’imbeccata dalle mie mani, e mi pizzica le dita, e si diverte ad arruffarmi i capelli. La sua storia è un po’ triste, è vero, dapprincipio: il babbo me lo portò un giorno avvolto nel fazzoletto, e il fazzoletto era macchiato di sangue! poverino! era forse quella la sua prima volata ed un colpo di fucile l’aveva ferito in un’ala! fortunatamente la ferita non era grave. Che cattivi e barbari divertimenti hanno mai gli uomini! Vedendo quel sangue, udendo quel pigolare.... il poverino si lamentava del gran dolore che doveva provare!... io piansi con lui ed arrivai sino a dar torto al mio caro babbo. Tutti ridevano di me, persino Gigi. Lavai la ferita del meschinello, ma non sperai che campasse. Invece eccolo lì che saltella e fa il chiasso! Qualche volta il poverino si duole ancora della sua ferita e viene a rannicchiarsi nel mio grembo pigolando e strascinando la sua aluccia, come se volesse narrarmi il suo guaio. Io lo conforto coi baci, l’accarezzo, gli dò delle miche di pane e del miglio, ed egli se ne va tutto vispo a posarsi sul davanzale per volgersi di nuovo verso di me cinguettando, sbattendo le ali e allungando il collo a bocca spalancata.
Ieri l’altro un brutto gattaccio mi fece provare un grande spavento. Il mio Carino, sai che si chiama Carino? era sul tavolo a ruzzare, poiché egli fa mille buffonerie! a sconvolgere e disordinare tutte le carte, cinguettando sempre, e poi si volgeva a guardarmi coi suoi occhietti arditi, il furbo, come se provasse gusto a farmi dispetti, quand’ecco d’un balzo sul tavolino quel gattaccio nero, e allungare lo zampino per adunghiarlo! Io misi un grido, il povero Carino strillò anche lui, e fu assai lesto a rifugiarsi in seno a me. Non so come lo ascondessi fra le mie mani, nel mio grembiule; ma tremavamo tutt’e due. Al mio grido accorsero tutti di casa. Mia matrigna mi rimproverò di averla spaventata per un nulla, dicendomi che non sono più nell’età delle fanciullaggini, e che il gatto avrebbe fatto il suo dovere acchiappando il mio Carino; Giuditta rideva, e quel pazzerello di Gigi instigava il gatto a ghermirmi l’uccelletto che mi tenevo in grembo. Quel poverino lo sentivo tremare nelle mie mani dalla gran paura avuta, e il cuore gli batteva forte forte. Mi sarei fatta uccidere piuttosto che abbandonarlo! Da quel giorno non dimentico mai di chiudere l’uscio della mia camera ove lascio il mio Carino. Io l’odio quel gattaccio!
Invece voglio un gran bene al cane del castaldo, un bel cane da pagliaio, tutto nero, alto così, che nei primi giorni mi faceva una gran paura coi suoi latrati, ma che adesso mi accarezza dimenando la coda, leccandomi le mani, fregandosi i fianchi alla mia tonaca e dicendomi coi suoi occhi intelligenti che mi ama. Infatti egli è il mio guardiano, mi accompagna nelle mie passeggiate, non mi lascia di un passo, corre innanzi ad esplorare il terreno, e ritorna a gran salti dimenando la coda e abbaiando allegramente. Quando io lo chiamo, egli già sa ch’è l’ora della nostra passeggiata (quest’ora arriva venti volte al giorno) e vorresti vedere che urli, che salti, che carezze! Ti ho parlato del mio cane, del mio passerotto, di quel brutto gattaccio, e non ti ho ancora detto che abbiamo dei vicini di campagna che vengono a trovarci spesso, e che passiamo quasi tutte le sere a giocare in loro compagnia e facciamo delle belle passeggiate nell’ora del tramonto. Essi abitano una casetta in fondo alla valle, a poca distanza dalla mia finestra. Sono i signori Valentini; li conosci? Il babbo e la mamma dicono che sono brava gente. Io e l’Annetta, loro figlia, che ha quasi la mia età, siamo amiche; ma non come fra te e me, vedi! Non esserne gelosa, perchè io ti amo assai più di lei, e voglio che tu mi ami assai più di tutte le altre tue amiche.
Quando mi scriverai? Mi hai fatto aspettare la tua lettera quattordici lunghissimi giorni! Vedi come io ti rispondo subito e a lungo? Se mi farai aspettare altri quattordici giorni per dirmi che mi vuoi tutto il bene che io ti voglio, che mi rimandi cento e cento baci che ti mando, allora io amerò la mia nuova amica più di te. Pensaci!
P. S.
Dimenticavo di dirti che i signori Valentini, oltre l’Annetta, hanno pure un figlio, un giovanotto ch’è venuto spesso con sua sorella, e che si chiama Antonio; però lo chiamano Nino.