Storia di Torino (vol 1)/Libro II/Capo II
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Capo Secondo
Tra il levante e mezzodì la contea di Torino comprendeva il territorio Cheriese e gli altri vicini, fino ai primi colli dell’Astigiano al di là di S. Paolo e di Solbrito: e Savigliano col suo territorio, confinando ai contadi d’Asti, d’Alba e di Bredulo. Meno sicuri sono i suoi confini a mezzogiorno ed a settentrione, ma sembra che da questa parte il fiume Orco, da quella il Po lo disgiungessero dai comitati d’Ivrea e d’Oirado, o d’Auretite (posto tra il Po e la Stura). Questa contea, insigne per ampiezza, importante pel sito, avea nell’ 827 per conte un Ratberto.
La sola notizia che ne abbiamo, deriva da un giudizio che vertì fra l’abate della Novalesa e diciassette uomini d’Oulx, che quegli sosteneva essere servi del monastero.
Gioverà trattenerci sull’ordine di questo giudicio, e sulle persone che ne facean parte, perocchè quindi attingeremo qualche lume sulle nuove forme civili introdotte dai Franchi.
Giunge a Torino Bosone, conte e messo imperiale, e siede in giudizio in luogo pubblico per definire ogni controversia gli venga recata dinanzi.
Stanno a’ suoi fianchi Claudio, vescovo di Torino, Ratberto, conte di Torino, cinque vassi dell’imperatore, due giudici imperiali, due scabini del Bosone, tre scabini di Torino, tre vassi del Ratberto.
Vediamo che cosa fossero i vassi, che gli scabini.
Le antiche genti germaniche s’occupavano di caccia e di pastorizia, non d’agricoltura; almeno non conosceano agricoltura stabile, perchè conduceano vita errante sotto tende, e non aveano sedi fisse. For mavano tribù, non Istati. Quindi la ricchezza de’ capi consisteva nel poco mobile che potean portare; ma la loro vera ricchezza, come la loro forza, stava nel numero de’ dipendenti, nella clientela di compagni coraggiosi e devoti, pronti a seguitarne la fortuna, a combatter con loro e per loro. Quando, occupata chi una parte, chi l’altra dell’impero Romano, queste genti s’avvezzarono ad aver sedi ferme, a posseder case e beni, ad abitar città e villaggi, quando le loro instituzioni, prima tutte personali e militari, si territorializzarono, per dirlo con una parola barbara al par di loro; i capi, divenuti re, dispensarono a questi loro fedeli parte delle possessioni de’ vinti; ma non con ragione perpetua, nè in proprietà as soluta, ma in usufrutto, e con obblighi di riconoscimento e condizioni di riversibilità; ed in processo di tempo ad altri benemeriti della loro corona, as segnarono uguali ricompense. Ecco i vassi imperiali.
Similmente i vescovi, i governatori delle province ed altri grandi del regno, con titolo di duchi, o di conti, i quali possedevano o in allodio, o in beneficio maggior quantità di beni che non poteano coltivare, per crearsi aderenti e soggetti riconsegnavano ai loro divoti parte dei proprii poderi in beneficio, ed ecco i vassi de’ vescovi e de’ conti, i quali tutti, come ne formavano la difesa in guerra, così loro facean seguito e corte in pace. Ecco la ragione de’ vassi, e il perchè comparivano ne’ giudizii.
Gli scabini all’incontro rappresentavano nelle tribù germaniche l’universalità degli uomini liberi; chè tutti aveano originariamente dritto di giudicare, essendo quella giustizia semplice e primitiva, applicazione del senso comune di rettitudine, una incumbenza sociale esercitata immediatamente dalla società. La prima delegazione di questi poteri fu negli scabini; in Italia erano, per quanto sembra, una recente introduzione de’ Franchi. Erano specie di probi uomini, o giurati, eletti con voto popolare, e destinati a compier ne’ placiti l’ufficio di giudice; ne’ quali placiti, se il conte presiedeva, pigliava informazioni, ricevea le cauzioni, e facea eseguire le sentenze; gli scabini soli giudicavano. Nelle città molti degli scabini doveano essere scelti tra i giurisconsulti. Giudici dell’imperatore, o del re, o del sacro palazzo, chiamavansi i giurisconsulti approvati che ora si direbbero dottori di leggi, od avvocati; e giudici senz’altra designazione gli scabini. Nè le sole città, ma anche le piccole terre ed i vici aveano i loro Scabini; periti delle consuetudini locali, che per lo più tenean luogo di leggi.
Quando un messo imperiale o regio recavasi a tener giudicio nelle province, conducea seco alcuni giurisconsulti, ed alcuni giudici o scabini. Due giurisconsulti o giudici dell’imperatore, e due scabini avea condotto con sè a Torino il conte Bosone. Tre scabini di Torino si giunser loro nel placito, di modo che i giudici eran sette.
Vediamo ora come procedesse il giudicio. Comparvero nel placito, di cui abbiam parlato, dicias sette uomini d’Oulx richiamandosi della parte di S. Pietro della badia di Novalesa, dove pareva che fosse abate Elderardo. Questa parola, la parte di cui anche oggi si valgono a designar le persone di chi contende in giudicio, era solenne allora non solo ne’ piati, ma fin ne’ contratti, ne’ quali Lucio non vendeva per esempio a Sempronio, ma la parte di Lucio a quella di Sempronio. Le altre parole, dove pareva che fosse abate Elderardo, nascevano dal gran numero di prelati intrusi, o eletti per simonia, e però non veri vescovi ed abati; perlocchè la timorata coscienza de’ notai non affermava che fosser tali, ma si contentava di dire: sembra che sia vescovo od abate.
Richiamavansi dunque gli uomini d’Oulx del monastèro della Novalesa, perchè li avesse pignorati, cioè posti in arresto, e volesse ridurli in servitù. Allora il messo imperiale fece comparire Ghiselberto di Feletto, avvocato del monastero; e siccome questi all’improvviso non sapea cosa rispondere, il conte Bosone obbligò le parti di darsi scambievole cauzione di presentarsi di nuovo al placito del conte Ratberto, ordinò a Ghiselberto di porsi in grado di rispondere, ammonì il conte Ratberto di far diligente inquisizione, e di giudicar secondo la giustizia e le leggi.
Addì 8 di maggio teneva Ratberto il suo placito nel villaggio di Cantenasco (forse Cercenasco), ed erano con esso il vescovo Claudio, un vasso ed un cappellano dell’imperatore, tre scabini e sette vassi di esso Ratberto, uno de’ quali era gastaldo, cioè amministratore de’ beni demaniali, e quattro sculdascii o centenarii, cioè giudici rurali di cento famiglie. Tre altre persone vi sono nominate, ed erano a parer mio, gli scabini del vico Cantenasco, dove si teneva il placito.
Rinnovarono gli uomini d’Oulx la loro proposta. Ma Ghiselberto, assistito da due monaci rispondeva; Non è vero quello che dite che noi contra le leggi vi vogliam servi; tali vi vogliamo perchè i vostri avi, genitori e parenti appartenevano ad Unnone, figliuolo di Dionisio, il quale donò ogni suo avere al nostro monastero di S. Pietro. Anzi abbiamo un giudicato, dal quale apparisce che i vostri genitori o progenitori ebbero contesa sopra di ciò con Unnone e col monastero. Presentavano allora il giudicato, dal quale si vedea che gli uomini d’Oulx ivi nominati aveano chiamato in giudicio Unnone ed il monastero della Novalesa innanzi a Viberto ed Ardione, messi del re Carlo (Carlomagno, epperò prima dell’ottocento), in presenza del vescovo Andrea (vescovo di Torino), e degli scabini ivi nominati, ed aveano prodotto una carta di libertà data a loro favore da Dionisio, padre d’Unnone, affermando che Unnone ed i monaci non poteano più impugnarla, essendo stati quieti per trent’anni, e che essi solo condizionatamente aveano servito per que’ trent’anni sia a Dionisio, sia ad Unnone. Un altro giudizio di un tenor quasi simile aveano avuto a Pavia.
Allora gli scabini interrogarono gli uomini d’Oulx, se nulla aveano ad opporre a quei giudicati, e se essi erano della comunanza di quelli, di cui in detti giudicati si trattava (si de ipsa jura hominum fuissent). Ed essi risposero di sì, e che erano pronti a servire ancora sotto condizione, come i loro antenati avean fatto. E così trovarono gli scabini giusto che si facesse, e però così giudicarono. E fu finita la causa. Segnarono il verbale del giudizio (notitia judicati) i tre scabini Sunifrè, Giovanni ed Ugherardo, e il conte Ratberto, ed il notaio Teutmaro.1
Prima di chiudere quest’argomento, due cose convien notare: prima, che il servizio sub conditione era uno stato di mezzo tra la servitù e la libertà. In fatti quei servi d’Oulx aveano ottenuta da Dionisio la manumissione; e continuavano a servire come censuarii, o liberi condizionati di quelle opere reali e personali che probabilmente eransi nella manumissione convenute, o che erano stabilite dalla consuetudine per uomini di ugual condizione.
La seconda osservazione che mi pare non doversi tralasciare, si è questa: che gli scabini interrogarono gli uomini d’Oulx se essi erano di quella giura (de illa jura) di cui si trattò nei due giudicati prodotti dal monastero. Ora la giura è una società d’uomini vincolati a mutua difesa con giuramento. Giura è ciò che si chiamò altrove gilda o fraternità, una delle forme più frequenti con cui si ristabilirono i comuni. Eravi dunque una giura o gilda, una società comunale a Oulx, prima dell’ 800 tra uomini appena allora usciti, e non perfettamente usciti di servitù. Ecco in qual modo oscuramente, lentamente fin dagli ultimi tempi dell’epoca longobarda si andò preparando lo sviluppo di quella forma comunale, che due o tre secoli dopo rinnovò la faccia del mondo, e preparò nuovamente le vie al trionfo della civiltà.
In grazia di questi risultamenti, non credo che sieno per parere soverchiamente minute le particolarità da noi addotte. E noi parranno mai a chi consideri che se nello espor documenti di tanta antichità, si ponesse lo studio e la diligenza che si richiedono, indagando il giusto valor d’ogni frase, la storia si sarebbe scritta diversamente da ciò che pel maggior numero d’autori fu scritta finora.
Ratberto fioriva a’ tempi di Ludovico il Bonario, imperatore, che fu dopo Carlomagno morto nell’ 814, e Bernardo, cacciato dal regno nell’ 818, re d’Italia fino alla sua morte accaduta nell’ 840.
Il Claudio, vescovo di Torino, presente a quel giudicato, uomo di molte lettere e di sottile ingegno, ma dalla superbia che avvelena e contamina ogni virtù, profondato in deplorabili errori, fu il famoso eretico iconoclasta, che, sotto pretesto di spiritualizzar la religione, vietava si rendesse onore alla croce, alle sacre imagini, alle reliquie de’ santi, condannando un rito antichissimo della Chiesa, un cullo che non si riferisce già alla materia, ma per mezzo di quel segno od emblema s’indirizza alla maestà divina.
Era Claudio di nazione spagnuolo, discepolo di Felice, vescovo d’Urgel, ed avea scritto gran numero di commenti sopra la Bibbia. Il suo sapere l’avea fatto eleggere cappellano del sacro palazzo, ed era stato eziandio chiamato a regger le scuole che Carlomagno vi avea stabilite. Ludovico, imperatore, lo aveva eletto vescovo di Torino, non si sa bene in qual anno. Ma in questa sede, invece di spargere il lume della fede, e d’inculcar l’osservanza de’ divini precetti, diffuse, come abbiam detto, l’eresia degli iconoclasti, che desolava la Chiesa d’Oriente. Confutato vittoriosamente dall’abate Teodimiro, dal monaco Dungallo, da Giona vescovo d’Orleans, condannato dalia Chiesa, quel pertinace, chiamando congregazione d’asini il concilio in cui s’esaminarono le sue perverse dottrine, non volle ricredersi, e morì impenitente.
I Valdesi ed i protestanti, che sono in religione famiglie nove, e come tutte le famiglie nove vogliono ad ogni costo illustri antenati, cercano di risalire al vescovo Claudio. Ma questi non diè nome ad una setta; e i suoi errori nulla aveano di comune con quelli dei Valdesi e dei protestanti, se ne eccettuiamo il bando dato alle sacre imagini. Del rimanente riconosceva tutti i sacramenti, e non negava l’autorità suprema del papa.2