Storia di Torino (vol 1)/Libro I/Capo III
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Capo Terzo
I Druidi sotto al cielo rannuvolato e freddo dell’Armorica, nel seno di cupe foreste nella Britannia e nella Gallia incatenavano quelle menti paurose ad un culto orribile, in cui la mano dei sacerdoti e delle sacerdotesse versava il sangue umano. Un sovrano disprezzo della morte era la virtù di que’ popoli, i quali ornavano le loro capanne de’ teschi de’ nemici uccisi, e d’essi s’inorgoglivano quasi d’ereditarii blasoni; stracciavano colle unghie e coi denti carni mezzo crude, e se ne satollavano con bestiale avidità. Dopo quel sozzo convito addestravansi nei balli, ne’ ludi; provavansi l’un coll’altro nell’armi e duellavano con tanta ferocia, che spesso ve n’erano di feriti, sovente ancora d’uccisi. La battaglia era loro supremo diletto, e tanto eran bramosi di soprastare per solo valor personale, che molte volle nel calor della mischia gittavan l’elmo e il saio e combattevan nudi. Viveano ordinali a ciani o tribù a guisa di esercito scompartito sopra una certa quantità di terreni. Non conosceano dritto di proprietà. Campavano di pastorizia e di agricoltura, instabile com’essi ed errante. Le loro comunanze eran campi od attendamenti, non città nè villaggi. La loro ricchezza era nelle clientele, ossia nel seguito che i più provati aveano d’altri guerrieri, non cose ma persone.
Questa era la nazione che la fortuna dovea porre a contrasto colla morbida eleganza etrusca seicento anni prima di Gesù Cristo.
Varii di questi popoli abitanti tra Garonna e Senna, ignari d’ogni arte fuorché di quelle di distruggere e di procreare, crescendo ogni giorno di numero e non avendo di che campare, deliberarono una doppia emigrazione, una al di là dal Reno, l’altra al di qua dalle Alpi. Qui vennero guerrieri, donne e fanciulli in numero sterminato condotti dal loro Brenno, o re Belloveso. Dal paese de’ Tricastini s’avviarono verso le Alpi che si drizzavano terribili ad impedir loro il passo, e sia che le varcassero per l’Argentiera, pel Monviso o pel Monginevra, la qual ultima opinione mi par più probabile, occuparono il paese de’ Tavrini, si spinsero innanzi tra gli altri Liguri, e più in là contra gli Etruschi, li sconfissero e quietarono nella pianura insubre tra il Ticino e l’Adda, dove col tempo fondaron Milano.
Gustate una volta le delizie d’Italia, tracannato il primo calice di vino, bevanda che ad essi era compiutamente ignota, la loro gola e la loro rapacità non conobber misura. Altri barbari sopraggiunsero all’odore di quelle arcane voluttà, i Galli Cenomani condotti da Elitovio che si fermarono sulle sponde dell’Adige, i Salluvii che si stanziarono lungo il Ticino ne’ luoghi prima posseduti dai Levi Liguri; i Boi ed i Lingoni che, valicate le alpi Pennine, presero stanza in quel tratto di paese ove poi sorsero Parma, Piacenza e Bologna, ed occuparono tutto il tratto susseguente fino al fiume Utente, cacciando gli Etruschi o Toscani e parte ancora degli Umbri. Finalmente i Senoni si posarono sulle spiagge dell’Adriatico tra l’Utente e l’Esi. Così nello spazio di dugent’anni mezza la Gallia si versò nell’Italia. La civiltà non solo s’arretrò, ma s’andò via via dileguando ne’ paesi in cui s’accamparono i barbari: perchè sebbene sia immensa la sua forza, ostinata la sua vitalità, tuttavia dura fatica ad allignar negli animi che non hanno alcun elemento civile; la cui stessa religione è disumana; che non hanno sede ferma e però non ban vera patria; come non s’insegna il canto a chi comincia appena a balbettare. La civiltà nasce dal municipio e non dai ciani. Popolo civile conquide il meno civile. Ma la sola forza brutale uccide la civiltà. La nordica nebbia ebbe almen sempre poter d’abbuiarla, e a dissiparne le tenebre vi vollero lunghi anni e la virtù latina. Appararono bensì i vincitori dai vinti a coltivar le terre, ad abitar case e non capanne o tende. Ma mollo più fu quello che disimpararono i vinti, poiché furono confusi co’ vincitori.
Di questi Gallo-Itali, scrive Polibio, che abitavano nelle ville non circondate di mura, nè munite d’altra difesa, che non conosceano arti nè comodità della vita, che dormivano sopra un po’ di paglia stesa sul suolo; mangiavano carne; esercitavano solo le cose della guerra e dell’agricoltura, e vivendo una semplice vita, di scienza nè d’altro non si davan pen siero. Le loro ricchezze erano, ei dice, oro ed armenti, perchè facilmente si poteano trasportare. Ogni loro studio poneano in procacciarsi aderenti e clientele per aver seguito e forza e quindi onore e fama. Così poco civili erano ancora questi Galli dopo un lungo soggiorno sulla terra d’Italia. Nè molto più innanzi esser doveano i Liguri che s’eran confusi con loro. Ma forse nelle città chiuse che ancora si manteneano come oasi in mezzo al deserto, alcune stirpi Liguri ed Insubri conservavano un raggio più splendido della civiltà antica. E tra queste città argomento che fosse quella de’ Tavrini situata presso al confluente del Po e della Dora, il cui nome si mantenne tra le invasioni galliche, e la quale la prima volta che si vedrà comparir nella storia, vi figura come città forte di popolo bellicoso.
Un secolo e mezzo prima che i Galli scendessero in Italia, genti raccogliticcie e feroci fondavano Roma presso la frontiera Toscana, a undici miglia circa geografiche dalla famosa città di Vejo. L’indole degli abitanti non meno che la necessità del sito la fecer guerriera. Barbara a petto degli Etruschi, ma civilissima se si paragonava co’ Celli, Roma crebbe col continuo e fortunato esercizio dell’armi; ma mollo più per la somma facoltà che ebbe d’appropriarsi i riti, le istituzioni, le leggi dei vinti, con potenza assimilatrice a niun’altra eguale. L’anno di Roma 365, secondo Livio, cadde dopo dieci anni d’assedio in poter de’ Romani la città di Vejo. Continuarono l’armi romane ad allargar l’imperio sugli Etruschi, finche l’anno 445 di Roma, 308 prima di Gesù Cristo, Dolabella sconfisse ed ammazzò al Iago di Vadimone Elbio Vultureno ultimo re dei Tirreni. Intanto Roma dall’Etruria derivò molti riti, la superstizion degli auguri, i giochi pubblici, gli ornamenti dei re, poi quelli dei consoli, il sistema monetario, le arti belle; non quella inarrivabile de’ vasi dipinti. E gli scrittori Romani invidiando ai vinti Etruschi la gloria postuma della sublime loro civiltà, non ebber parole che per accennarne le sconfitte, e tacquero d’ordinario que’ trionfi incruenti e tanto più illustri dell’intelletto. L’anno 388 prima dell’era volgare, i Romani ebber quistione co’ Galli. Trovavansi i Senoni all’assedio di Chiusi; i Romani li mandarono ricercando si ritraessero dall’offendere un popolo che era loro confederato. Ma gli ambasciadori, giovani bollenti ed oltracotati, si portarono con tanta alterigia ed imprudenza, che i Senoni, infuriando, lasciati i Chiusini, s’avviarono verso Roma, la distrussero, e si sarebbero impadroniti del Campidoglio, se il loro Brenno, avvertito d’una incursione di Veneti nel proprio Stato, non avesse giudicato di ritrarsi a’ suoi dominii. Ma cotale spavento rimase a Roma del gallico nome, che ne’ consigli di quella superba si mise in consulta se non fosse miglior partito di abbandonar la città e di fortificarsi a Vejo, novella loro conquista.
Diverse genti delle Gallie scesero ancora in varii tempi, o chiamate dai Galli Cisalpini, o per amor di preda e di ciel più clemente in Italia, e furono quasi sempre ricevuti quietamente dai loro nazionali giù mezzo italianizzati. Varie altre galliche genti spingevano le loro trionfali insegne in Ispagna, sul Baltico, nell’Ellesponto; non paghi d’aver turbato l’un centro di civiltà nell’Etruria, i Galli con un’altra orda gettavansi in mezzo all’altro centro e più lungamente famoso nella Grecia, e perivano vicino a Delfo. Intanto i varii popoli Gallo-Cisalpini continuavano in questi paesi il mal vezzo avuto in retaggio dai loro avi di straziarsi l’un l’altro. Ma nondimeno frequentemente s’univano a’ danni de’ Romani e ne fecero sovente impallidir la fortuna. Se non che in breve i Quiriti rinnovavan le forze, e speditisi dalle guerre latine ed etrusche, già comprendevano negli ambiziosi loro disegni un più vasto orizzonte, e ad ogni nuova guerra co’ Galli e co’Liguri imparavano a temerli meno, e se di forza corporale nè d’ardimento non li avanzavano, erano più scaltri e più ostinati. Onde vinsero Senoni e Boi, Insubri e Liguri. I primi furono col volger de’ tempi quasi affatto spenti.
Celebri sono le battaglie di Toscana de’ Galli-Cisalpini dell’anno 224 prima dell’era volgare. I Galli vinsero in sulle prime a Fiesole il Romano pretore, poi mentre si ritiravano carichi di preda furono a Telamone presi in mezzo tra due eserciti consolari, l’uno comandato da Lucio Emilio Papo, venuto da Rimini, l’altro giunto pure allora dalla Sardegna, capitanato da C. Attilio. I Galli non si smarrirono, ma ordinate le schiere in due fronti collocarono contra Emilio gl’Insubri ed i Gessati, ausiliarii questi ultimi, seminudi, venuti pur allora dalle sponde del Rodano; e contra Attilio i Boi ed i Tavrini i quali così virtuosamente combatterono che uccisero il console Attilio. Ma oppressi dalle falangi Romane, i Galli furono compiutamente sconfitti. Uno dei due re che li guidavano, Aneroesto, s’uccise di propria mano. L’altro, Congolitano, ornò il trionfo del vincitore. L’anno seguente i Romani continuarono la guerra contra i Galli ed i Liguri. Il console Caio Flaminio Nipote li sconfisse. Nel 221 Cornelio Scipione Calvo e Marco Claudio Marcello si movono contra gl’Insubri. Marcello uccide di sua mano presso Castidio il re Viridomaro, e ne consacra le spoglie a Giove Feretrio; gli avanzi dell’esercito nemico si ritirano a Milano. Milano e tutta l’Insubria è ben presto costretta d’obbedir ai Romani; seguitano quell’esempio i paesi posti tra il Ticino e l’Alpi, e non rimangono ai Galli che alcune gole alpine, a superar le quali s’esercitò ancora lungo tempo la virtù romana.1 Per tal guisa nell’anno 221 prima di G. C. la civiltà trionfò in Italia definitivamente della barbarie. I Tavrini divennero amici e fedeli di Roma dopo di esserne stati sì gran tempo nemici.