Storia di Reggio di Calabria (Spanò Bolani)/Libro sesto/Capo terzo
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CAPO TERZO
(Dall’anno 1543 al 1567.)
I. Barbarossa e Polino. Continua il Turco le sue depredazioni sul litorale italiano. Barbarossa torna in Costantinopoli. Pace tra Francesco I e Carlo V. II. Reggio è nuovamente fortificata. Il Castel Nuovo. Le Torri di Cùgliari, di Pentimeli, e di Gallico. III. Nuova lega tra Francia e Turchia. Dragutte. Il Mormile svolge il Turco dall’alleanza co’ Francesi. Quarto sbarco de’ Turchi in Reggio. Vengono ancora i Francesi a’ danni della città, e vi abbattono le palme. I Sindaci Matteo Geria e Giovanni Luigi Monsolino. IV. Filippo II. I Sindaci Camillo de Diano e Bernardo Monsolino. Favori accordati a’ Reggini dal nuovo Sovrano. Nuova alleanza contro Spagna. Nuova pace. I Turchi minacciano Reggio, e prendono terra nella marina di Scaccioti. V. Condizione del Regno sotto il dominio spagnuolo. Condizione di Reggio: sue istituzioni civili e religiose. Uomini illustri. VI. Descrizione di Calamizzi. Suo affondamento. VII. La riforma luterana s’insinua nel Regno, ed in Reggio. I Monsolini ed i Malgeri. Sedizioni civili. Viene in Calabria Pietro Antonio Pansa a sradicar l’eresia. Persecuzione degli eretici. VIII. Sbarco de’ Turchi in Scaccioti. I Reggini corrono contro que’ barbari. I contorni di Reggio sono travagliati da’ fuorusciti. Il Governatore di Reggio Diego de Gujera; sua morte.
I. Sfogata Barbarossa la sua rabbia sopra Reggio, al cui esizio assistette impassibile il francese Polino, rimontò sulle sue navi col frutto delle sue prede e de’ prigionieri, e dirizzò la prora per Marsiglia, ove giunse nel luglio del 1543. Ivi trovò pronta alla vela un’armata francese di ventidue galee, e diciotto altre navi da carico con diciotto mila fanti; della quale aveva il comando in titolo il conte d’Enghien, ma il comando effettivo stava in Polino, barone della Guarda. L’armata alleata navigava per l’Italia a menar ruina de’ dominii spagnuoli; ed i capitani francesi avevano istruzione dal lor governo di rispettare strettamente la neutralità degli Stati pontificii. Il Sultano parimenti aveva ingiunto a Barbarossa di non di partirsi dall’attitudine de’ suoi alleati. Sulle prime fu attaccata Nizza, sola città che fosse rimasta al Duca di Savoja alleato di Carlo V. Dopo un assedio di dodici giorni settemila Francesi ed altrettanti Turchi occupavano quella città. Nondimeno il castello faceva petto, ma l’insistenza che vi avea messo Barbarossa a far che dopo la resa l’occupassero i suoi Turchi, fu causa che i Francesi cominciassero a mettersi in mala voglia, e cercassero un pretesto per ritirarsi. La flotta francese fu richiamata subito a Marsiglia, e fu suggerito a Barbarossa che raccogliesse la sua ad Antibo o a Tolone. Ma egli che non si era svestito del suo primitivo mestiere di corsaro, come non si vide più contenuto dalla compagnia de’ Francesi, non ebbe a cura di recarsi a Tolone; ma scorrazzando il litorale italiano, (1544) gittò prima lo spavento nelle popolazioni toscane; poi trapassando nel Regno di Napoli, prese e devastò l’isola di Lipari; effettuò uno sbarco in Tropea (ove Diego Gaetano andò a veder la figliuola Flavia); e finalmente entrando nello stretto toccò Capo Peloro, e piegatosi per Calabria alla marina della Catona, pose a ruba e ad incendio la terra di Fiumara di Muro, molti paesani trucidando, moltissimi trascinandone prigionieri.
E tanti prigionieri cristiani dalle varie parti d’Italia conduceva, e tanto miseramente li avea stipati ed ammonticchiati sulle sue navi, che i più morivano del gran disagio, ed ancor semivivi venivano trabalzati in mare da que’ barbari. Ma questa guerra spietata cominciava a non esser più ne’ costumi dell’Europa cristiana; e Barbarossa che avrebbe voluto non suoi sorvegliatori e moderatori i Francesi, ma bensì compagni d’arsioni e di sterminii, non pose tempo a scompagnarsi totalmente da loro, e ricondurre la sua flotta a Costantinopoli. Poi a’ diciotto settembre del 1544 l’Imperator Carlo V venne a trattato di pace presso Laon con Francesco I.
II. Il lagrimevole caso di Reggio altamente increbbe al vicerè Toledo, il quale, considerando che il Turco non si sarebbe tirato indietro da ulteriori infestazioni, deliberò di provvedere sollecitamente a fortificar tutte le terre del litorale del Regno, facendo che fossero visitate a tal uopo da buoni architetti ed uomini di guerra. Approvò allora che fosse in Reggio eretto un nuovo castello alla marina, nel lato meridionale della città, che fu detto perciò, e dicesi tuttavia Castel nuovo. Aveva allora Reggio due forti, l’uno posto alle alture, l’altro in Santa Caterina di Mesumeci al lido del mare; ma tali entrambi che mal valevano ad impedire lo sbarco dei Turchi, che soleva sempre aver luogo presso alla foce del fiumicello Calopinaci di là dalla porta della Dogana, e da quella di San Filippo. Fu adunque stabilito (1547) che la nuova fortificazione fosse costruita in tal punto che potesse far difesa a queste due porte, donde sempre i Turchi si aprivano l’entrata in città. Fu scelto quel sito, ove oggi dura ancora il Castel nuovo; ma perchè ivi scorreva a quel tempo il fiumicello Calopinaci rasente le mura meridionali della città, si pensò divergerne il corso più verso mezzodì, di là dal promontorio di Calamizzi. Volle il vicerè che l’università di Reggio ajutasse il lavoro contribuendo alla spesa. Ed i cittadini, che stimavano quell’opera qual potente baluardo a guardarli da’ nuovi insulti de’ Turchi, di buon cuore concorsero a tal lavoro con molti sacrifizii di danaro. Era soprantendente della fabbrica Rinaldo Comes, alla quale si diede principio nel maggio del 1547 alla presenza del governatore Alfonso de Morales, e de’ sindaci Bastiano Francoperta, Cicco Carbone, ed Annibale Gazzanita. L’arcivescovo Gonzaga benedisse in gran pompa la prima pietra, che fu gittata nelle fondamenta all’angolo destro dal castellano Pietro Vermudes de Sancisso. I lavori procedettero dapprima con molta alacrità; ma nel 1556 furoo sospesi, senza che mai se ne fosse conosciuto il perchè; e rimasero imperfetti, e per sempre. Così doveva restar dimezzata ed inutile un’opera, per la quale i Reggini avevano già pagata la somma di settemila settecento e ventidue scudi.
Aveva ancora ordinato il vicerè che per tutto il litorale del Regno fossero erette di tanto in tanto delle torri rotonde ben alte, dove potessero collocarsi vedette e custodi, che dandosi avviso scambievole di qualche avvicinamento di Turchi, potessero i paesani essere avvertiti o ad aver tempo alla fuga, o ad accingersi alla difesa. Il presidio di Reggio fu accresciuto, fornita la rocca di artiglierie, di munizioni e di viveri, e tutto preordinato alla difensione della città. Le torri dovettero esser costrutte a spese delle università corrispettive, e l’università di Reggio fece alzare quelle di Cùgliari, di Pentimèli, e di Gallico. Per la cui costruzione i sindaci Camillo Diano, Giovanni Battista Monsolino, e notar Geronimo Cafaro imposero nel 1550 la gabella de’ frutti di grani dodici a cantajo, e dei legumi di grani dieci a tomolo, dandone il fitto a Camillo Urso per duemila trecento e quindici scudi. Tal lavoro fu compiuto dentro il corso d’un anno.
III. Alla morte di Francesco I il suo successore Arrigo II ereditò col regno l’odio e l’inimicizia contro Carlo V in maggior grado che non era quella di Francesco. Aprì dunque novelli trattati colla Turchia, e Solimano II fu nuovamente trascinato alla guerra contro l’Imperatore. Allora tornò alla mente di Arrigo II colui ch’era stato il primo nodo dell’alleanza a’ tempi di Francesco; dico il barone della Guarda, il quale dal sommo della sua grandezza era caduto in fondo di ogni disgrazia. Perciocchè durante la fiera guerra de’ Valdesi, in forza di non so quali accuse, fu privato di ogni carica, e gittato in prigione. Or volle Arrigo che il Polino fosse dichiarato innocente, e rialzato all’alto posto d’ammiraglio, cedutogli da Renato di Lorena, che se n’era dimesso a tal fine. Una nuova flotta turca di cento cinquanta navi tornava adunque nel Mediterraneo, e ne teneva il comando il feroce Dragutte. Questa era attesa nel golfo di Lepanto dalla francese guidata dal barone della Guarda. Ivi congiuntesi le due flotte alleate uscirono dall’Ionio, e facendosi sull’estremità meridionale della penisola italiana, costeggiarono la Calabria e la Sicilia. Contro i quali paesi dipendenti da Spagna operarono frequenti disbarchi, commettendovi senza pietà il più male che potevano. Trovavasi sull’armata francese il principe di Salerno, il quale passato in Francia per private nimicizie che aveva col vicerè di Napoli, non era mai restato di eccitare Arrigo all’impresa del Regno. Giungevano già presso Napoli i navili confederati, quando un incidente inaspettato cambiò faccia alle cose. Il napolitano Cesare Mormile, che soggiornava in Francia ancor egli, era entrato in briga col principe di Salerno, e stando mal soddisfatto di quel Re che lo aveva posposto al Principe, di là si partì, e sen venne a Roma, dove per i buoni uffizii dell’ambasciatore imperiale ottenne di ritornare in grazia di Carlo V, e di ricuperare il possesso de’ suoi beni. Allora il Mormile venuto in Napoli, ed avuto segreto colloquio coll’ammiraglio turco, trattò che questi, separandosi dal Francese, facesse ritorno a Costantinopoli, a prezzo di duecento mila ducati che il vicerè si offeriva a pagargli. Questa somma fu accettata e sborsata, e la flotta turca videsi all’improvviso partire, e far cammino per Levante. Così ebbe a svanir la tempesta che s’era ingrossata, e stava per crosciar sopra Napoli.
Ma non ebbero termine con ciò le correrie di Dragutte, il quale nella sua ritornata (1552) non lasciò di assassinare le nostre marine; e fu veduto appressarsi minaccioso al lido di Reggio. I cui cittadini, lasciata ogni cosa, potettero a gran pena trafugarsi nei folti macchioni delle non lontane collinette; non sì però che molti di loro non rimanessero uccisi o prigioni. Spogliata e bruciata fu la città; dopo di che sazio delle fatte rovine si partì il musulmano, non senza aver prima devastate molte parti del distretto reggino sino al casale di Santo Stefano, ed alla città di Santagata. Ma a compimento della distruzione che fecero i barbari soccorrevano gli stessi cristiani: poichè il principe di Salerno che non voleva allontanarsi dal Regno prima di aver fatto provare a quanto giungesse il suo rabbioso dispetto, non volle restar da meno del Turco in malvagità ed in ferocia. Messosi nello Stretto colle navi francesi da lui comandate, effttuì uno sbarco in Reggio, e rase al suolo quegli edifizii che il furore ottomano aveva risparmiati. Ed allargandosi per le vicine campagne permise che il soldato francese desse il guasto agli orti ed agli alberi, a cui s’imbatteva; permise che il francese ferro mandasse a terra quelle maestose palme, che levandosi altissime, verdeggianti e rigogliose attorno alla città, le davano amena e nobil fattezza di paese orientale. Queste palme che i Turchi avevano rispettate, erano distrutte da gente che faceva chiamarsi civile, e cristianissima!
Le angustie di Reggio furono allora assai alleggerite da’ sindaci Matteo Gerìa, e Giovanni Luigi Monsolino, i quali posero ogni studio e premura perchè fossero scemati i dazii civici, ristaurati gli edifizii, e ricomposta la fortuna pubblica come meglio portava la trista condizione de’ tempi.
IV. Carlo V intanto, sopraffatto dalle fatiche dell’animo, e desideroso di finir nella solitudine e nella quiete gli ultimi anni della sua vita agitatissima, rinunziava a Filippo la Spagna (1555), il Regno di Napoli, e gli altri stati; l’Impero di Germania al fratello Ferdinando; e rendevasi frate. A Filippo II l’università di Reggio si affrettò d’inviare i suoi sindaci Camillo de Diano e Bernardo Monsolino per aver la conferma de’ privilegi; ed ottenne altresì che la fiera franca di San Marco durasse dal venticinque di aprile al dieci di maggio, e quella di agosto fosse prolungata da quindici a diciassette giorni. Ed oltre a ciò considerando il nuovo Sovrano le grandi desolazioni ed incendii che l’armata turca e la francese avevano arrecato negli anni antecedenti alla città di Reggio, volle graziosamente concederle l’esenzione e la franchigia del pagamento delle funzioni fiscali sì ordinarie che straordinarie, e di qualunque altro genere di contribuzioni (vale a dire de’ quattro grani per fuoco, di servizii, di donativi, e di altro che fosse) per lo spazio di venti anni (1556), da decorrere dal giorno dell’invasione del Barbarossa in essa città. La quale immunità e franchigia è stata poi dallo stesso Sovrano (1557) prolungata di altri dieci anni da far seguito al termine de’ primi venti.
Tra Filippo II ed il re di Francia era nata speranza di conciliazione reciproca; ma il pontefice Paolo IV non solo distornò il trattato di pace, ma diede voglia ad Arrigo di rinfocolar la guerra contro il re di Spagna, e ritentar la conquista di Napoli.
Come il governo spagnuolo ebbe spia de’ nuovi apparecchi contro lo Stato napolitano, provvide che tutte le provincie fossero messe in attitudine di gagliarda difesa; ed il duca d’Alba vicerè, a prevenir la tempesta che si andava ingrossando, si cacciò con intrepida celerità negli Stati pontificii. Ma si patteggiò una tregua di quaranta giorni; ed intanto il papa aspettava ansioso la discesa de’ Francesi a suo soccorso. Finalmente dopo varii casi di guerra nello Stato romano e nel Regno si ultimò la pace, ed i Francesi se ne tornarono in casa loro. Ma si continuarono nondimeno le sciagure a queste nostre regioni: imperciocchè il Turco, il quale per effetto della lega colla Francia era già tornato in Italia con un’armata forte di centoventi galee, quantunque vedesse pacificata ogni cosa, non volle ritrarsene, senza sfogar prima la sua rabbia contro i Cristiani. L’armata ottomana era sotto il comando del pascià Mustafà, il quale passando per lo stretto di Sicilia (1558) tentò di metter piede in Reggio agli 8 di luglio; ma veduta questa città preparata a difendersi con fermezza, scorse sino alla torre di Gallico, e gittandosi su quella costa vi andò danneggiando il paese sin presso a Sant’Antonio di Scaccioti, menando distruzione di alberi, di case, e di uomini. Uscito poi del Faro, s’inoltrò sino al golfo di Napoli, diede il guasto a Sorrento, e trasse seco assai prede e prigionieri. Rientrando poi nel canale a’ 6 di agosto fecero i Turchi segnale di volere aver pratica co’ Reggini, ed ottenutala, vi fu scambio e traffico di varie merci; e varii de’ nostri ch’erano loro prigionieri, furono riscattati; e per un’intera giornata si conversò in buona fede: e poi ripartirono.
Da ultimo dopo tante guerre funeste che travagliarono sì gran parte d’Europa, fu conchiusa la pace tra Spagna e Francia. E queste nostre provincie, ch’erano state così crudelmente affaticate e conquassate dalle invasioni turchesche, parevano prender respiro. Ma nondimeno le vessazioni gravissime del governo vicereale le avevano condotte in fondo di ogni abbiezione.
V. Cominciava già il Regno a sentir gli effetti della sua dipendenza da una vasta e lontana monarchia. La quale, anche con tutta la buona volontà che se le volesse supporre, e con tutta l’energia di che fosse capace, non poteva mai giungere ad amministrar con giustizia e con vigore parti così disparate. Queste, cadute sotto le unghie di avidi ed ambiziosi amministratori stranieri, poco sorvegliati dal governo centrale, tanto avviluppato nelle guerre d’Europa, erano in ogni peggior maniera vessate ed emunte. E tanto la forza delle leggi e dell’autorità s’era sudata affievolendo, che nomi vani eran divenuti la sicurezza e l’ordine pubblico. Le bande de’ malviventi facevansi grosse ed arditissime, e le pubbliche e private fortune venivano manomesse. Un’infinità di banditi, che profittando de’ tempi torbidi e scorretti s’erano divisi in brigate, e gittati alla campagna e alla strada, cominciavano arditamente ad avventarsi nelle indifese città, ed ogni cosa depredando, assassinavano e mettevano a prezzo le vite degli onesti cittadini, che loro capitavano alle mani. E l’azione governativa, mentre da un verso era dispotica, e si trangugiava avidissima tutte le rendite dello Stato, dall’altra banda non aveva nè il modo, nè la volontà, nè la forza di comprimere, sia le concussioni de’ pubblici uffiziali, sia le aggressioni protratte e temerarie de’ delinquenti.
Al cominciar delle invasioni turchesche, il governo spagnuolo se mostravasi tutto energia ed attività in gravar di nuove tasse i suoi sudditi, per sopperire a’ bisogni della guerra, che bolliva fervidissima contro gli Ottomani in Austria ed in Ungheria, non aveva lena a resistere alle barbare incursioni che si operavano sulle marine dei suoi Stati, ed abbandonava al saccheggio ed all’incendio le pubbliche fortune e gli averi de’ cittadini. Sicchè a lor medesimi era sempre lasciata la difesa delle loro terre e delle loro famiglie, e colla disperazione nell’anima lottar dovevano incessantemente contro barbari, che nè Dio conoscevano, nè leggi, nè umanità; contro barbari che non solo della roba e delle persone s’impadronivano, e facevano strazio, ma anche distruggevano a ferro ed a fuoco le campagne, e le deserte case. In tale stato allora si trovava il reame, in tale stato le sue città, specialmente le maritime; in tale stato fu Reggio per tutto il secolo decimosesto.
Contuttociò è cosa certamente maravigliosa il vedere come in mezzo a tante calamità di barbariche invasioni, d’interne malvagità, di terremoti, di peste, e di tante altre maledizioni che narrerà la storia nostra, Reggio avesse potuto spiegare in tal secolo tanta forza di vita civile e di fede religiosa. I Prelati, il Clero, ed i pubblici Amministratori si adoperavano con lodevol gara al progresso delle civili istituzioni, ed alla miglior direzione dell’elemento religioso e morale. I Conventi de’ Cappuccini, de’ Paolotti, de’ Carmelitani, e de’ Domenicani, il Seminario de’ Chierici, la Casa de’ Gesuiti, il Monastero della Vittoria, la Fontana nuova, la Casa della Città, il Monte della pietà, la Confraternita dell’Annunziata furon tutte fondazioni nobilissime della civiltà e pietà pubblica e privata di quel secolo. Furono allora rifatti in miglior forma i pubblici edifizii; floridissimo il commercio, e ravvivato da due Fiere franche annuali: animatissime le industrie, e soprattutto quella della seta; non dimenticate le lettere, nè le arti liberali; ottenuta in fine la regia Udienza del Tribunale.
Parecchi illustri uomini reggini fiorirono ancora nel corso del cinquecento, come il cappuccino Bernardo Molizzi, detto il Georgio, che fu uno de’ fondatori del Convento de’ Cappuccini di Reggio; Lodovico Cumbo, Simone Fornari, Giovanni Boccanelli, Giovanni Nicola Spanò, Girolamo Tagliavia, Lodovico Carerio, ed il Cantore Antonio Tegani. Chiari e valorosi guerrieri furono Bernardino Fumari, Fra Paolo, e Fra Giuseppe Monsolino, e Giovanni Paolo Francoperta.
VI. Agli sconvolgimenti civili tennero dietro quelli della natura. Addì sedici di decembre del 1560 si sprofondò e restò assorbita dal mare la contrada Nacareri, che finiva in promontorio in quel punto, dove oggi è la contrada Cannameli. E dopo due anni, a’ venti di ottobre del 1562 si profondava l’antico promontorio Reggino, che i moderni conobbero col nome di Punta di Calamizzi, donde si vedeva gran parte della marina di Reggio sino alla porta della Dogana. La punta di Calamizzi formava una deliziosa contrada, che per la sua situazione riusciva freschissima e salubre ne’ mesi estivi. Chi stava sopr’essa, guardando dal lato di tramontana vedeva le amene collinette di Pentimeli, e tutta la riviera che da ivi si stende sino alla Catona. Dal lato di mezzodì correva la vista a Ravagnesi e San Leo, e dal seno della Motta San Giovanni sino alla punta di Pèllaro, abbracciando in quell’aprico orizzonte il nevoso Mongibello, e quasi tutta la stesa orientale della riviera di Sicilia. Guardando finalmente a levante vagheggiavansi le colline che dolcemente si digradano verso Reggio, ed i dilettosi villaggi di Vito, Còndora, Nasiti, e Cannavò. La punta di Calamizzi si protendeva a più che mezzo miglio nel mare, e verso il Castel nuovo faceva una sinuosità, a cui soprastava la contrada di Dragoneri, la qual terminava colla marina della città. Ivi abitava anticamente in umili e vecchie casipole un gran numero di pescatori, e di altra povera gente; ma fin dal principio del decimosesto secolo si era cominciato a fabbricarvi casine e ville deliziose, dove nella state mutavano la lor dimora gli agiati cittadini a godersi quell’aria gioconda di una perenne freschezza. Era quivi una chiesa di Santa Maria della catena; e contigua a questa punta sino alla contrada Ragaglioti, che aveva fine alla fiumara di Santagata, correva un terreno paludoso ed inculto, che tale continuò poi per molto altro tempo.
Nell’ottobre adunque del 1562 gli abitatori del detto promontorio cominciarono a sentir de’ sordi tuoni sotterranei che si andaron di più in più aumentando sinchè il terreno cominciò ad ondulare assai sensibilmente. Allora gli abitanti spaventati, prima che sopravvenisse la notte del diciannove ottobre, tutti fuggirono a mettersi in sicuro, parte nella superior contrada Ottobono, e parte nella città. Per tutto il giorno ventesimo di tal mese le detonazioni e l’ondolamento crebbero in modo assai veemente e terribile, e finalmente verso le ore ventitrè videsi quella punta prima abbassarsi, e poi affondarsi di un tratto, e diventar mare; le cui onde frementi e spumose si distesero e chiusero, senza mai più ritirarsi, su quella terra sommersa.
VII. La eresia luterana, che aveva aperte ferite così profonde nel seno della cattolica religione, e divelta dal grembo della Chiesa tanta nobil parte d’Europa, si era insinuata dove più dove meno nelle provincie del Regno; nè la Calabria n’era rimasta incontaminata. Le dottrine di Lutero si eran nicchiate anche in Reggio, e narrasi che tra gli stessi familiari dell’arcivescovo Agostino Gonzaga, e nei nostri Conventi moltissimi avessero segretamente aderito all’eresia. Ma queste pratiche erano al tutto ignote al governo, nè le scoperse che un avvenimento di dissidii domestici. In Reggio le due nobili famiglie Monsolino e Malgeri eransi nimicate a morte (1561), e s’ingegnavano con ogni possibil modo di sterminarsi a vicenda. Finalmente Matteo Malgeri tanto si adoperò presso i regii Uffiziali che Tiberio e Matteo Monsolino furon cacciati via, non dalla città solamente, ma dalla provincia. Ciò fece montare in grand’ira i Monsolini ed i lor partigiani, i quali si levarono in armi, ed eccitarono tumulti e civili sedizioni. Furono aperte a forza le carceri, ed i prigionieri fuggiti corsero ad unirsi a’ Monsolini, che già avendo raccolte grosse bande di gente armata tornarono baldanzosi in città, ciechi di vendetta. I Malgeri non avevano trascurato di mettersi sull’avviso, ed un gran numero di cittadini di ogni grado e condizione era dalla lor parte. Si venne alle armi ed al sangue; la guerra civile divampò furiosa e micidialissima, e Matteo Malgeri ebbe tolta la vita nella fraterna mischia. Quando i Monsolini furono stanchi, non sazii di sangue, uscirono della città, e si gittarono armati alla campagna ed a’ misfatti. Nella città intanto continuarono gli avversi partiti a lacerarsi, a perseguitarsi, a svillaneggiarsi, ad uccidersi. Gli uni e gli altri si mordevano colle amare parole di luterani, e come tali si dinunziavano al governatore Spagnuolo. Queste accuse alfine cominciarono ad aver credito, e quando pervennero alle orecchie del Vicerè, questi ad estirpar la mala pianta, che avrebbe potuto abbarbicarsi fra il popolo, spedì in Calabria Pietro Antonio Pansa, uomo d’inflessibile austerità (1562); il quale esaminando a tortura molti infelici, con questo atroce argomento di quel secolo molti convinse di eresia, e molti condannò a perder la vita sul rogo. Tra questi sciagurati furono quattro cittadini di Reggio, ed undici di San Lorenzo; di questi undici sette eran frati Cappuccini. A quelli poi che, abjurata l’eresia, giuraron di tornare alla verità della religione cattolica, ordinò il Pansa che portassero scopertamente sulle spalle e sul petto un panno giallo traversato da una croce rossa, in segno del loro fallo, e del loro pentimento.
VIII. Nel corso del 1563 il turco Dragutte tornò nello Stretto con ventotto galee, e fermatosi alla Fossa cercò via di sbarcarvi, ma non gli venne fatto, perchè tutto il popolo di quella contrada che stava all’erta, si mise sulle armi risoluto a ribatter qualunque tentativo del nemico. Pure Dragutte toccò terra nella contrada di Scaccioti, e fece varie prede nella parrocchia di Santa Maria dell’Archi. Ma in sul buono accorsero da Reggio numerosi drappelli di cittadini armati, e così coraggiosamente si serrarono contro le schiere turche, le quali si erano sparpagliate alla campagna, che queste corsero precipitose alle lor navi, nè tentarono più oltre d’infestar quelle terre.
Intanto i fuorusciti correvano a torme per la Calabria, nè v’era più sicurtà degli averi e delle persone. Gl’intorni di Reggio eran percorsi e saccheggiati al continuo dalle bande di questi facinorosi, alla cui baldanza non era sufficiente la forza pubblica; e nulla potevano opporre i privati cittadini. Ma venuto Governatore e Capitano a guerra di Reggio Diego de Gujera applicò l’animo a costituire una forza pubblica, che valesse a contenere le esorbitanze de’ banditi, ed a tutelar la sicurezza degli abitanti. Armò in brigate i cittadini ed i terrazzani, e miseli alla guardia delle loro terre; coordinandoli però in maniera che potessero tosto riunirsi ove e quando ne occorresse il bisogno. E perchè questo provvedimento non restasse in parole, ma divenisse cosa effettiva e proficua, il Gujera in aprile del 1567 emanò bando che ai ventitrè di tal mese, giorno della festa di San Giorgio, si radunassero in Reggio tutte le brigate del distretto, perchè egli potesse farne la rassegna. Venuto il giorno fermato, una gran copia di gente vigorosa e giovane si offerse alla presenza del Governatore; ma mentre costui la stava ordinando, nata quistione circa la precedenza del luogo tra que’ di Arasì e di Ortì, levossi baruffa, e si venne alle mani. Corse sollecito il Gujera a pacificar quella gente, ma in quel punto un’archibugiata, venutagli contro non si sa donde, lo ferì cosi mortalmente che fra otto giorni restò privo di vita. Giunta notizia al vicerè dell’uccisione dei governatore, furono da Napoli spediti coinmissarii a prender informazione dell’accaduto; ma del vero uccisore nulla potè sapersi. Come avviene però in tali casi, se ne diede l’imputazione a parecchi, ch’eran forse innocenti; ma bisognava che la morte del Gujera non rimanesse invendicata, e fu data la tortura ed il carcere a molti sventurati.