Storia di Reggio di Calabria (Spanò Bolani)/Libro sesto/Capo secondo
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CAPO SECONDO
(Dall’anno 1503 al 1543.)
I. I Sindaci Nicola Malgeri, e Lancilotto Mayrana. Privilegi della città. Terremoto in Reggio. Primo sbarco de’ Turchi in Reggio. II. Notizie degli Ebrei di Reggio; e loro espulsione. III. Il Sindaco cavalier Mario Mileto. Privilegi della città. Morte di Ferdinando il Cattolico. Secondo sbarco de’ Turchi in Reggio. Carlo V. I Sindaci Mariano Suppa e Mario Mileto. Nuovi Privilegi. IV. Notizie degli Uffiziali regii e municipali. Porte della città; Fiere franche; Festa d’Agosto; Parrocchie; Confraternite. V. Stato torbido d’Europa. Il Lotrecco nel Regno. Alleanza tra Solimano e Francesco re di Francia. Spedizione di Carlo V in Tunisi. Barbarossa tenta uno sbarco in Reggio. Paolo Ruffo capitan d’armi. VI. Carlo V in Reggio. Va a Fiumara di Muro. Fatti dell’armata turchesca sul litorale calabrese. Il mozzo Dionisio. VII. Solimano e Francesco I contro Carlo V. Dazio sulla seta. Il Vicerè Pietro di Toledo in Reggio. VIII. Terzo sbarco de’ Turchi presso Calamizzi: entrano in città. Guasti e rovine che le inducono. Prigionieri che ne fanno. Barbarossa s’invaghisce di Flavia Gaetano, figlia del castellano. Riscatto de’ prigionieri reggini.
I. A Ferdinando il Cattolico, che dimorava in Barcellona, si presentarono i Sindaci dell’università di Reggio Nicola Malgeri e Lancilotto Mayrana (1503). Egli che ben conosceva con quanto coraggio i Reggini avessero tenuto il fermo contro le percosse de’ Francesi, accolse con lieto animo le dimostrazioni di ossequio che Reggio gl’inviava. E confermandole tutti i privilegi, accordavale in pari tempo:
1.° Che l’introduzione, estrazione, compra o vendita di qualunque oggetto, che nella Sicilia ulteriore avesse ad aver effetto per uso e comodità de’ Reggini, fosse esente e libera di ogni regia imposizione.
2.° Che per sette anni, a contar dal vegnente, non pagasse più la città alla regia Corte ducati mille, ma solo cinquecento, a fine di esser alquanto alleviata delle straordinarie gravezze sostenute nella passata guerra.
Poi il re Cattolico venne nel regno a prender possesso de’ suoi nuovi Stati; ma non vi si trattenne più di sette mesi; e partendo condusse seco Consalvo da Cordova, e lasciò a Vicerè Giovanni d’Aragona conte di Ripacorsa, e gran Contestabile Fabrizio Colonna Duca di Tagliacozzo.
Ma ivi a pochi anni (1509) nuove e dolorose calamità dovevano piombare sulla povera città nostra. Violenti terremoti scossero la Calabria tuttaquanta, e Reggio fu quasi al tutto distrutta; e per altri cinque anni successivi continuò tal flagello a tribolar, dove più dove meno, le contrade calabresi. In quest’anno medesimo Ferdinando concedette all’università di Reggio che i suoi Sindaci in vece di due fossero tre da indi in poi, cioè due nobili, ed uno civile.
La mattina del vigesimottavo giorno di agosto del 1511 si vedeva pigliar terra di qua dal promontorio di Calamizzi un’armata turchesca di circa sessanta legni, proprio nel concavo lido della contrada Dragoneri, la quale dal ponte del fiumicello di San Filippo, che lambiva le mura meridionali della città, tirava sino al principio del promontorio predetto. Gli abitanti di Calamizzi fuggirono a rotta per la contrada Ottobuno sotto le colline di Modena. Sbarcati i Turchi senza ostacolo si diressero per la porta San Filippo, ed appiccarono il fuoco al solidissimo rastrello di legno che vi era, abbattendo in un medesimo la porta di ferro. I Reggini, che non eran preparati a questa improvvisa diavoleria, si dileguarono a fiaccacollo chi per il pertugio Battagliola, chi per la porta Crisafi, e chi per la porta Mesa, e ripararono parte su’ poggiuoli di San Nicolò del Trabucco e di Rodà, e parte sull’eminenza del pozzo di Santa Caterina Mesumeci. Que’ barbari non pur posero a sacco e fuoco molte parti della città, ma e le più belle chiese spogliarono ed arsero; e dopo esservi dimorati tre giorni, ed aver menato distruzione di ogni cosa, rimontarono sulle navi, e presero il largo. Il vicerè Raimondo di Cardona, come seppe l’invasione turchesca, spedì di presente da Napoli venti galee e quattro tartane ben armate sotto il comando del marchese di Bitonto, per correr addosso a que’ ladroni, e tutelar le coste della Calabria e della Sicilia contro qualunque ulteriore irruzione. Giunto in Reggio il Marchese, e veduto lo strazio che i Turchi ne avevan fatto, ottenne dal vicerè che tal città fosse per due anni sgravata dal pagamento delle cullette fiscali, e di qualunque altro balzello. Questa fu la prima invasione che i Turchi abbiano operata sopra Reggio, e della quale niuno scrittor calabrese, a quanto io sappia, ha fatto mai menzione.
II. A questi tempi gli Ebrei dimoravano in Reggio assai numerosi, ed avevan dato colla loro operosità un meraviglioso impulso all’interno ed esterno traffico. Da loro riconosce Reggio la prima propagazione della coltura de’ gelsi, e l’incremento dell’industria della seta già introdotta fra noi da’ Bizantini. Eglino solevano anticipar molto danaro ai proprietarii che davansi a tale industria, i quali obbligavan perciò le loro sete agli Ebrei collo sconto di tarì quattro siciliani per ogni libbra, sul prezzo che l’università Reggina, per suo special privilegio, stabiliva annualmente a’ ventidue luglio, cioè nel giorno della Maddalena; il che dicevasi la voce della Maddalena. Avevano allora i proprietarii di Reggio, e di tutto il distretto o paraggio l’obbligo di far la consegna della lor seta agli Ebrei nel Ghetto. Con tale speculazione e contrattazione quasi tutta la seta di Reggio e suo paraggio, veniva anno per anno incettata dagli Ebrei; i quali poi la mettevano in vendita a’ mercatanti esteri nella Fiera franca di agosto. Questi mercatanti che vi concorrevano, eran molti, e per lo più Genovesi e Lucchesi. Costoro però mal potevano patire di dover dipendere al tutto dagli Ebrei in tali compere, poichè questi ultimi sostenevano per ordinario i prezzi della seta come aggradiva lor meglio; e la voce della Maddalena veniva emessa assai spesso sotto la diretta loro influenza. Per la qual cosa i mercatanti cristiani cominciarono a pensar modo che gli Ebrei dovessero venir discacciati da Reggio. E quantunque questo tentativo fosse restato per più tempo infruttuoso, pur finalmente i Genovesi vi riuscirono colle loro insistenti denunzie al governo di Napoli.
Era vicerè Raimondo di Cordona, ed il gran Siniscalco Antonio di Guevara proteggeva a spada tratta i mercatanti genovesi, i quali avevano anche spalla da parecchi baroni del Regno, a cui pareva insoffribile non potere aver dal loro danaro quell’usura, che sapevano trarne gli Ebrei. Esponevano dunque ai vicerè come, mentre gli Ebrei coi loro traffico e monopolio trasricchivano, le oneste speculazioni de’ cristiani andassero assai sovente alla mal’ora ed al fallimento. Esponevano come la povera popolazione fosse spolpata dalle gravose usure che gli Ebrei ricavavano del lor danaro; cosa intollerabile in paese cristiano. E tanto fecero e dissero che il vicerè fatto rapporto a Ferdinando in Ispagna, dipinse in nerissimi colori quella corporazione ebraica, e mostrò l’urgente bisogno che gli Ebrei fossero espulsi non dalla sola Reggio, ma dall’intera Calabria.
Addì venticinque luglio del 1511 partivano gli Ebrei da Reggio, e fu così brusca ed istantanea la lor cacciata, che non ebbero spazio di vendere quelle loro merci e masserizie che non potevano portar seco. Dovettero sollecitamente imbarcarsi per Messina, dove presero viaggio parte per Livorno, e parte per Roma. L’ebreo Ismaele, che principava la loro comunità, lasciò procuratore di ogni loro affare Giulio Rigori, il quale per tutti gli oggetti appartenenti agli Ebrei aprì pubblica vendita al largo della Dogana: dopo furono anche vendute le case, ed ogni altro podere urbano e rustico di lor pertinenza; ed il loro ghetto fu aperto a tutti, e dato ad abitare a’ Cristiani.
Il Ghetto degli Ebrei occupava in Reggio l’inferior parte della città, con una strada lunga da borea a scirocco accosto alle mura occidentali. Questa strada cominciava sotto porta Mesa, ed andava a finire alle Palette, dove poi fu costruita la porta Amalfitana. Dalla parte della marina avevano gli Ebrei una porta detta Anzana che comunicava al loro ghetto; dalla quale era l’unica loro entrata ed uscita, non avendo comunicazione colla città da verun altro punto.
III. L’anno 1514 Ferdinando il Cattolico, a petizione del cavalier Mario Mileto Sindaco ed oratore della città di Reggio, concedette da Vagliadolid alla medesima:
1.° Che i suoi cittadini potessero portar sale e ferro dall’estero per proprio uso e comodo, senza essere obbligati ad alcun pagamento di dritto di dogana o altro che sia.
2.° Che il Luogotenente della Provincia di Calabria e suoi Auditori, la cui residenza era Cosenza, non dovesser mandare nella città di Reggio alcun loro commissario o delegato cum vicibus et vocibus, perchè questi uffiziali solevano esser d’aggravio in molte cose alla detta città e suoi cittadini. Ma che lo stesso Luogotenente, o alcuno de’ suoi Auditori, in capite et personaliter, colla loro corte ordinaria avessero a conferirsi in Reggio ogni qual volta l’espedizione della giustizia il richiederebbe. Solo ne’ casi straordinarii, quando esso Luogotenente o Auditori fossero trattenuti ed impediti da più gravi affari, potrebbero mandare per lor commissario qualche uomo probo, che conoscesse solamente della causa a cui fosse delegalo, senza intromettersi per niente nelle altre cause.
3.° Che per tutta la durata delle due Fiere franche di agosto e di San Marco niuna persona, (cittadino o estero che fosse) la quale intervenisse in tali fiere potesse esser come che sia molestata, anche in cose criminalissime.
Aveva ancora il Mileto chiesto al Sovrano, che qualunque uffiziale pubblico, il quale direttamente o indirettamente pretendesse derogare a’ privilegi della città, potesse essere ipso facto destituito dai Sindaci dalla sua carica, e tale considerato da tutti i cittadini. Ma a questo il re non aderì; solo provvide che gli Uffiziali che contravvenissero a tali privilegi, dovessero cadere irremisibilmente nell’ammenda di ducati cinquecento, de’ quali metà andasse a benefizio della città, e potesse riscuotersi da essa. In questo diploma Ferdinando chiamò Reggio Capo e Madre prediletta delle città della Provincia di Calabria.
Nel gennajo del 1516 moriva il re di Spagna; ed il principe Carlo Arciduca d’Austria ch’era in Brusselle, come seppe la morte del re scrisse alla città di Napoli, esortandola di conoscer lui per sovrano, e di continuare ad ubbidire al vicerè Raimondo di Cardona, ancorchè vivesse tuttavia sua madre, alla quale spettava la successione del Regno.
Ma Carlo giunto nella Spagna associò al governo anche la madre. Al principio del 1519 moriva Massimiliano imperator di Germania, ed era eletto a tale Impero il nuovo re di Spagna, che si chiamò Carlo V. Così il diadema imperiale germanico, e le corone della monarchia Spagnuola si posavano sullo stesso capo, e Carlo V diveniva potentissimo sopra ogni altro sovrano d’Europa.
Una nuova armata turca intanto, forte di trentasei legni, era entrata nello Stretto, ed andava minacciando le marine di Sicilia e di Calabria; poi piegatasi improvvisa sopra Reggio in giugno del 1519, vi fece sbarcar la sua gente, senza che osassero farle contrasto i cittadini. I quali, fuggiti anzi fuor delle mura della città, si nicchiarono nelle prossime colline orientali, ch’erano allora foltissime di giunchi e di ginestre. Questa gente si dirizzò per la porta della Dogana, ed incendiatala ed abbattutala, si mise dentro la città, commettendovi ogni possibil rovina. Ma quando però i Turchi vollero avvicinarsi al castello, furono validamente respinti dal presidio spagnuolo che vi si era chiuso. Stettero tre dì nella città que’ barbari, e poi rimbarcatisi veleggiarono altrove.
Presentatisi a Carlo V i Sindaci di Reggio Mariano Suppa e Mario Mileto (1521), ottennero non solo la conferma di tutti i privilegi, capitoli e grazie della città, ma ancora
1.° Che il Castellano non avesse ad impacciarsi di altro che del governo del castello, ed il suo uffizio non fosse mai riunito a quello di Capitanio, o così per contrario.
2.° Che gli Eletti del Consiglio Municipale fossero ventuno in vece di trenta, cioè sette nobili, sette onorati, e sette popolani, perchè potessero più facilmente raccogliersi a consiglio.
3.° Che nel tempo delle due fiere franche fosse al tutto libera l’entrata e l’uscita de’ mercatanti esteri e loro merci, e di qualunque altra persona che venisse a vendere o comprare; nè si recasse loro alcuna molestia da’ regii Uffiziali.
4.° Che la città potesse eleggere ogni anno un Capitan d’armi, per la custodia ed ordine interno, o tra i suoi cittadini, o tra i vicini baroni, e che fosse persona idonea ed integra, ed esercitasse tale uffizio senza salario di sorte alcuna. Con questo però che tale elezione dovesse ottener la conferma del Vicerè.
IV. Vedemmo testè che la cittadinanza di Reggio si partiva in tre ordini, nobili, onorati (o civili) e popolani. Al nobile dalla metà del cinquecento sino a’ principii del seicento si dava il titolo di magnifico, all’onorato di nobile, al maestro di onorato. Quel regio uffiziale, che sotto la precedente dinastia aragonese aveva il comando militare e civile della città e suo distretto, e si chiamava Capitanio, sotto il dominio Spagnuolo fu detto Governatore, o Capitano a guerra; e quello che teneva il comando della provincia, e nomavasi Luogotenente, fu detto Preside dagli Spagnuoli. In mancanza o assenza del Governatore ne teneva le veci il Sindaco nobile. I tre Sindaci amministravano ordinariamente una settimana per ciascheduno, e se incontrava che mancassero tutti e tre, allora l’amministrazione municipale restava affidata al più anziano degli Eletti nobili del Consiglio generale (o Parlamento o Reggimento che dir si voglia). I Sindaci davano possesso al Governatore, e costui a’ Sindaci, prima nella chiesa di San Gregorio, poi nella Cappella di Santa Maria del Popolo, quando questa fu eretta nella cattedrale dal Cantore Antonio Tegani. Il pubblico Parlamento, o Consiglio sopradetto si convocava ad sonum campanae nella casa della città dirimpetto al Duomo, che dicevasi il Toccogrande; ed in una casa presso la chiesa della Cattolica, che si diceva il Toccopiccolo, raccoglievansi a consiglio i Patrizii, quando si trattasse o di affari del loro ordine, o di proposte da farsi nel pubblico Reggimento, del quale le deliberazioni si chiamavano conclusioni reggimentarie.
Reggio nel decimosesto secolo avea sette porte: porta del Trabucco, del Torrione, e Crisafi ad oriente; porta di San Filippo a mezzodì; porta Amalfitana, e della Dogana a ponente sulla marina; e porta Mesa a tramontana. La fiera franca di San Marco celebravasi fuori porta Mesa vicino alla chiesa di San Marco; la fiera franca di agosto aveva luogo alla marina fuori la porla della Dogana. La festa principale della città si celebrava in agosto nel giorno dell’Assunzione, nella Chiesa metropolitana, e propriamente nella Cappella di Santa Maria del Popolo, che la città aveva decorata all’intorno di statue dipinte e dorate: fra le quali era notevole quella di San Giorgio con allato le insegne della città.
Erano undici le Parrocchie di Reggio nel cinquecento; vale a dire San Silvestro de Malgeri, San Nicola de’ Bianchi, Santa Maria di Candelora, Santa Maria di Ganzerina, San Giorgio de Gulferio, San Nicola delle Colonne, San Sebastiano, Santa Maria delle Penne, San Nicola de Calomeno, Santa Maria degli Angioli, e Santa Maria de Pediglioso. Le quali poi nel 1596 furono a sei ridotte dall’Arcivescovo Annibale d’Afflilto, e queste furono San Nicola de’ Bianchi, il Santo Sacramento, San Giorgio de Gulferio, Santa Maria di Candelora, Santa Maria di Ganzerina, e San Nicola delle Colonne.
Eravi oltre a ciò la chiesa parrocchiale di Santa Maria della Cattolica de’ Greci, la quale dipendeva dal suo Protopapa. Le nobili confraternite di Reggio nel cinquecento eran quelle di Santa Maria di Melisa, di Santa Maria della Porta, del Sacratissimo Corpo di G. Cristo, e dell’Annunziata. Quelle degli onorati erano Sant’Angelo maggiore, Sant’Angelo minore, San Nicola del pozzo. Erano confraternite della maestranza San Giuseppe, San Girolamo, e Sant’Antonio da Padova. Aveva Reggio sei monasteri di donne, San Matteo, Sant’Anastasia, i Santi Quaranta Martiri, San Basilio, Sant’Andrea Mallamaci, Santa Maria di Ganzerina, e la SS. Trinità. Questi eran tutti della regola basiliana, ma caduti quasi in ruina, non erano abitati che da uno scarsissimo numero di claustrali. I terremoti, la vetustà, e le incursioni turchesche li avevano ridotti a stato assai scadente, e misero.
V. Questo secolo decimosesto fu pieno di gravissimi avvenimenti per la lotta fierissima tra Carlo V e Francesco re di Francia (1528). Tutta l’Europa andò allora in conquasso, ed in fiamme. Tra gli altri suoi disegni il re di Francia voleva ad ogni costo conquistare il Reame di Napoli; ed il suo generale Lotrecco vi scese con potenti forze, e mise a Napoli l’assedio. Mentre questa città era tempestata delie armi Francesi, Simone Tebaldi procedeva in Calabria con due mila fanti tra Corsi e paesani, e vinti gli ostacoli frappostigli dal principe di Bisignano, acquistava Cosenza, e molte altre città e terre, e faceva prigionieri parecchi baroni, fra i quali il principe di Stigliano, ed il marchese di Laino.
Ma la fortuna si palesò poi più amica a Carlo che a Francesco. Avendo l’Imperatore acchetate e composte come potè meglio le cose della Germania, agitata dalla riforma luterana, e quelle dell’Italia colla rovina della Repubblica di Firenze, si pose nell’animo di fiaccare ancora la potenza di Solimano, che allora aveva sì gran peso nella bilancia politica dell’Europa. Dopo che l’Impero d’Oriente era caduto in potere de’ Turchi, gl’imperatori ottomani si credettero entrati in tutte le ragioni di quell’impero. E siccome per lunga età queste nostre regioni erano state aggregate e soggette all’Oriente, così Solimano fece disegno di ricongiungerle a’ suoi Stati. Traendo dunque vantaggio delle divisioni dei principi cristiani che fieramente si guerreggiavano, fermò di condurre ad effetto il meditato proposito. Egli veniva eziandio eccitato a tale impresa dal Re di Francia, che s’indovinava non poter bastare colle sue sole forze contro la potenza di Carlo V. Nè poco andavalo confortando Troilo Pignatelli fuoruscito napolitano, che stava nella Corte ottomana; il quale poi, come uom pratico de’ luoghi, accompagnò sempre i Turchi nelle spedizioni contro il Regno. Il Re di Francia alla sua volta era stimolato contro Carlo V ed all’impresa del Regno dal principe di Salerno, ospitato in quella corte. Così Francesco e Solimano fecero tra loro alleanza, e fu convenuto che mentre i Francesi guerreggiavano Carlo nell’Italia superiore, Solimano si spingesse alla conquista del regno di Tunisi, e poi della Sicilia, e dell’Italia inferiore.
Or avendo Solimano creato suo ammiraglio Airadeno Barbarossa (1532), gli affidò il comando di un’armata di ottanta galee per assaltar lo stato di Tunisi, e toglierlo a Muleasse che vi dominava; e quello Stato cadde in potere di Barbarossa. Ciò inteso Carlo, e ben accorgendosi che la signoria di Tunisi darebbe al Turco gran comodità di gittarsi in Sicilia e nell’Italia meridionale, determinò egli pure di fare una spedizione per Tunisi, per guastare i disegni di Solimano. Ma l’effetto però di tanto apparato di guerra non si agguagliò allo scopo; imperciocchè sebbene l’Imperatore avesse scacciato da Tunisi Barbarossa, non ebbe pertanto il possesso di quel reame, nè vi lasciò alcun presidio sufficiente a premunirlo contro una nuova invasione del Turco. Solo stette contento a rimetter nello stato Muleasse, lasciandolo però come suo tributario. Ma indi a non molto Amida, figliuolo di Muleasse, si prese le redini del governo a dispetto del padre, e quando a questi venne voglia di racquistarlo, i Tunisini tumultuarono e l’uccisero, nè più vollero riconoscersi soggetti a Carlo V.
Intanto l’armata ottomana (1533) andava scorrendo i nostri mari, e Barbarossa in agosto tentava uno sbarco nelle vicinanze di Reggio, ma senza frutto. Questa città stava pronta alla difesa; e tutti i suoi cittadini armati e guidati dal Capitan d’armi Paolo Ruffo, conte di Sinopoli, impedirono che il nemico vi prendesse terra. E Barbarossa, considerando che potrebbe esser raggiunto da Carlo V, che allora ritornava da Tunisi colla sua armata, passò oltre senza fare offesa alla città. Non è qui da tacere che Paolo Ruffo essendo Capitan d’armi di Reggio, provvide di accordo co’ sindaci Urbano Barilli e Valerio Carbone che anche i foresi fossero ammessi all’uffizio di mastrogiurati, mentre prima non vi erano eletti che i soli maestri.
VI. Tornando l’imperatore da Tunisi (1534) volle prender cammino per Napoli, e passato prima in Sicilia visitò Trapani, poi Messina. Dalla qual città si trasferì con due galee in Catona, ove accorsero a fargli omaggio molti nobili reggini col loro sindaco Matteo Geria, e pregarono la Maestà sua che volesse per qualche giorno allegrar di sua presenza la loro città. L’imperatore, porgendosi grazioso al desiderio de’ cittadini, venne in Reggio; e fu allora che vedendo la città assai debole contro le invasioni de’ nemici, dispose che fosse fortificata a convenienza, e ne diede gli ordini adeguati al Vicerè Pietro di Toledo.
Partitosi da Reggio Carlo V, prima di tornare alla Catona per rimbarcarsi, volle fare una cavalcata sino a Fiumara di Muro, e vi fu accompagnato dal sindaco Geria, che andandovi a piedi gli teneva la staffa. Scese poscia l’Imperatore alla Catona, e dopo aver osservato parecchi altri luoghi litorani del Regno, giunse finalmente in Napoli, dove fu ricevuto con grandissima festa, e dimorovvi sino al marzo del 1536.
Mentre Carlo era in Napoli, (1535) Barbarossa tornava con cento galee agl’indifesi lidi della Calabria, e sbarcandovi agevolmente, prendeva prima San Lucido, ove faceva abbondante preda di roba, e di uomini e donne. Andato poi al Cedraro, che gli abitanti avevano abbandonato, vi bruciava ogni cosa, e fino sette galee che vi si stavano costruendo per ordine del Vicerè. Da ultimo l’ammiraglio ottomano tornò a Tunisi, ed assoggettato quel regno a Solimano, vi fortificò Goletta in mudo inespugnabile. Si ricondusse poi nuovamente ne’ nostri mari nell’anno appresso, forte di quarantacinque galee; e prese Castro città in Terra d’Otranto, e la terra delle Castella in Calabria, commettendo infinite scorrerie o depredazioni, e conducendo in Costantinopoli tremila prigionieri. Fra i quali era un Dionisio povero mozzo, figlio di un Bini da Reggio, e di una Pippa delle Castella. Questo Dionisio dimostrò poi grande abilità e coraggio, ed avendo rinnegata la fede cristiana, fu fatto capitano di molte galee, e conosciuto col nome di Ulucci Alì. Notisi che a’ guasti, che il Barbarossa commetteva sulle coste della Sicilia e della Calabria, tenevano mano dodici galee francesi, comandate dal barone di Saint-Blancard.
VII. L’anno 1537 l’alleanza del Turco col re di Francia prese per la Spagna un aspetto più formidabile. Solimano II di concerto con Francesco I si era condotto in persona al litorale dell’Albania più prossimo all’Italia con un esercito, che il terrore de’ Cristiani faceva montare a duecento mila uomini. E già egli vedeva nell’orizzonte stendersi sotto i suoi occhi la Terra di Otranto, ove aveva ordinato che si trovasse in punto la sua imponente armata condotta dal Barbarossa. Ma quando già cinquantamila francesi, capitanati da Anna di Montmorency, avevano forzato il passo di Susa, Francesco I ad intercessione del pontefice Paolo III, pregatone da Carlo V, conchiudeva con questi in Nizza una tregua di dieci anni, che rendeva inutili gli apparecchi di Solimano. Della qual cosa il Turco si mostrò assai mal soddisfatto; ma non si allentarono per questo i legami tra lui ed il Re di Francia.
In questo anno cadde polvere nera in gran copia dalla montagna dell’Etna, e disseccò talmente le foglie de’ gelsi in Sicilia e nella vicina Calabria, che per quella stagione non vi fu mezzo di alimentare i bachi, e quindi nel paraggio reggino mancò al tutto l’industria della seta.
Quando le speranze della pace parevano condurre le cose a buon termine, la slealtà del marchese del Guasto, che governava il Milanese per Carlo V, diede a Francesco I grave motivo di romper la tregua di Nizza. Questo marchese aveva perfidamente, e contro il diritto delle genti, fatto assassinare nel luglio del 1541 due Legati del Re di Francia al Sultano. Fu inviato tosto a Costantinopoli dal Re francese il Capitano Polino per rinnovar l’alleanza con Solimano II, il quale allora pareva poco disposto ad entrar in nuovo trattato contro Carlo V. Ma la destrezza del Polino, (il cui nome proprio era Francesco Escalin) seppe vincer la ritrosia del Gran Signore, e la confederazione della Francia colla Turchia fu rannodata con assai maggior forza. Solimano ordinò a Barbarossa (1542) di far appresto di una flotta poderosa, e di condurla a Marsiglia per congiungerla con quella di Francia. Della flotta francese fu data la condotta al capitano Polino, che dal re era stato aggregato all’ordine de’ nobili col titolo di Barone della Guarda (Garde, luogo della sua nascita). Carlo V in questo mentre non si stava inoperoso, e stringeva lega con Arrigo VIII re d’Inghilterra.
Intanto il vicerè Pietro di Toledo si affaticava a far che le coste del Regno fossero in ogni miglior maniera garentite, e messe in buon assetto contro gli attacchi nemici; e venne in Reggio di persona per dar provvedimenti efficaci alla rifazione delle mura della città, ed all’aumento del presidio di essa.
VIII. Mosse Barbarossa da Costantinopoli con centodieci galee, e circa quaranta fuste con sopravi dodici mila uomini da sbarco; e gli faceva compagnia il Polino con quelle navi che seco aveva. Lungo il suo viaggio non pretermise il Barbarossa di operar continui sbarchi e rovine sulle coste d’Italia e di Sicilia soggette alla Spagna. Soprattutto sfogò la sua furia sulla misera Reggio, che mal sapeva e poteva bastare a tanta impetuosa percossa. I Turchi nel 1543 presero piede sulla rada di Calamizzi, a mezzodì della città fuori delle mura; ed il Polino fece segnale al Castellano di Reggio, ch’era Diego Gaetano, di voler seco un abboccamento; ma a ciò non rispose il castellano che col tiro delle artiglierie, onde furono uccisi tre Turchi. Allora le schiere musulmane abbatterono a furia le due porte delia Marina e di San Filippo e per quelle si misero nella città. I cittadini, fuggendo precipitosi per la porta Crisafi, si acquattarono in quel subito nelle ginestre e ne’ lentischi, ond’era ingombra la contrada vicina a San Nicola del Trabucco. Moltissimi altri si rifuggirono ne’ fossati intorno al castello, giudicando che qualora quei barbari ardissero di inseguirli sin là, il presidio di esso castello non avrebbe mancato di fulminare i nemici colle sue artiglierie, e vietar loro l’approssimarsi. Trovata i Turchi la città vuota di abitatori, la posero a bottino, e misero a fuoco e distruzione i pubblici e privati edifizii, specialmente quello della Dogana, e le chiese; sì che in picciol tempo la sventurata Reggio non fu che un mucchio di fumanti rovine.
Que’ cittadini, che s’eran ricoverati dentro il vallato del castello, pregavano il castellano che volesse accoglierli dentro il medesimo, ma egli non volle aderirvi. Anzi quando i Turchi si precipitarono ne’ fossati a far prigionieri que’ miseri, il Gaetano non si mosse punto a difenderli col fuoco delle artiglierie, ma lasciò che cadessero senza ostacolo nelle mani de’ nemici. I Turchi fecero allor prigionieri moltissimi cospicui cittadini e donne e fanciulli, tra i quali meritano di esser ricordati i nobili Antonello Geria, Colajacopo Oliva, Giovanni Lorenzo Plutino, Lorenzo Perrone, e Geronimo Melissari colla moglie Antonia Campolo, e i suoi cinque figliuoli Bartuccio, Fabio, Francesco, Lucrezia, e Diana. Dopo ciò i Turchi per batter la rocca piantarono le artiglierie sulle colline che le soprastano, e cominciarono a trar contro furiosamente. Della qual cosa ebbe tanto sgomento il castellano, che fece subito dedizione del castello; e Barbarossa ad intercessione del capitano Polino concesse la libertà a costui ed alla sua famiglia. Ma ritenne Flavia, bellissima figliuola del Gaetano, della quale l’ammiraglio musulmano si era ardentemente innamorato, e condottala seco in Costantinopoli se la prese a donna. Questi prigionieri poi dopo otto anni furono riscattati per interposizione di essa Flavia Gaetano, ed il prezzo del riscatto, composto in quattromila ducati, fu pagalo da Bartuccio Melissari: il quale ritornato in sua patria testò che nessuno de’ suoi eredi dovesse pretender cosa alcuna per lo riscatto de’ suoi concittadini; poichè egli aveva voluto pagar per tutti, e far loro dono della libertà conseguita.