Storia di Reggio di Calabria (Spanò Bolani)/Libro sesto/Capo quarto

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CAPO QUARTO

(Dall’anno 1568 al 1598)

I. Pestilenza in Reggio. Carità de’ Cappuccini, e di Maria Mazza verno gli appestati. II. Precauzioni contro le comitive de’ banditi. Costoro entrano in Reggio, ed assaltano la casa di Coletta Malgeri, e di altri cittadini. Avventura di Nicola Brancati. III. Energici spedienti presi contro i banditi dal Conte di Briatico. Sua ordinanza. IV. De’ banditi quali si presentano, quali vengono perseguitati e distrutti. V. I Reggini pensano a ristorarsi delle passate aventure. Il Tribunale della Regia Udienza provinciale è trasferito da Catanzaro in Reggio. Cristofao La Cueva primo Preside. Monastero di Santa Maria della Vittoria. VI. Quinto sbarco de’ Turchi in Reggio. Hassan Cicala. Guasti fatti alla città. VII. I Turchi al Convento de’ Cappuccini. Coraggio di questi frati. Eroica difesa del Convento. Il Guardiano Gabriele Castrisciano. I nemici sono respinti, e si rimbarcano. VIII. La Regia Udienza è traslocata di nuovo in Catanzaro. Il pirata Mamud; suo sbarco in Santo Leo. Nuovi provvedimenti di difesa contro i Turchi. Hassan Cicala torna sulle nostre marine. Sue scorrerie in Motta San Giovanni, e Santo Leo. I Reggini corrono a combatterlo, e n’hanno il vantaggio. Coraggio di Ambrogio. servo di Giovanni Nicola Spanò. IX. Cicala e sua madre Lucrezia. Loro abboccamento sulla riva di Motta San Giovanni.


I. Dopo la battaglia di Lepanto l’Arciduca Giovanni d’Austria approdò a Reggio colla sua flotta, e sceso in città vi dimorò parecchi giorni. In quello stesso anno che fu il 1571, una galeotta di un certo capitan Mangiante aveva pigliato porto in Messina con roba infetta di peste, ed in giugno si manifestò in tal città l’indomito morbo, donde si spaziò celeremente per gran parte della Sicilia. Come seppesi in Reggio la calamità sopravvenuta alla prossima Messina, si pose ogni diligenza perchè tutte le comunicazioni coll’isola fossero rotte e vietate. E quando fu scoperto che in Reggio era sbarcato di soppiatto Girolamo Spagnuolo zoccolajo con tutta la sua famiglia, fu messo egli ed i suoi in una rigorosa contumacia di quaranta giorni, nel qual tempo solo alla moglie sua apparvero i gavoccioli del male, ma si guarì. Già da parecchi anni desolava la Sicilia quel tremendo flagello, e Reggio non ne era tocca sino al giugno del 1576, [p. 280 modifica]mediante l’oculata vigilanza e solerzia de’ suoi amministratori. Ma nel detto mese si ebbe la dolorosa certezza che la peste era nella città nostra. Questa apparve in casa di Bifaro Cotugno, dove nascosamente eransi portate alcune merci da Messina, e distribuite anche per altre case. Il che fece che la pestilenza si dilatasse irresistibilmente, e senza rimedio, e nella città e nelle vicine contrade.

Nell’incipienza del morbo tutti quelli ch’eran sospetti di tale infermità venivano confinati sopra un poggiuolo di aria purissima e ventilata detto del Salvatore, da una chiesetta che vi era sotto questo titolo. Eran serviti gl’infermi da tre pii Cappuccini, i quali con evangelica carità si prestavano a tutti i bisogni corporali e spirituali di quegl’infelici; e tutti e tre questi Cappuccini, che furono il Padre Girolamo da Montesoro, il Padre Girolamo da Santa Giorgia, e Fra Giacomo Foti da Reggio, per amor di Dio e del prossimo morirono anch’essi di quel morbo. Nè è qui da preterirsi il nome della nobil donna Maria Mazza, la quale ricchissima essendo, ed abitando in un suo delizioso podere non lungi dal convento de’ Cappuccini, non ebbe riguardo a sè medesima, e pose a rischio la sua vita col recare assiduamente e personalmente soccorsi e conforti a’ poveri infermi, che stavano sequestrati sul poggiuolo del Salvatore. Durò in Reggio sette mesi la pestilenza, e vi perirono di tal male settecento persone.

II. Ma quando i cittadini stavano tuttavia in questi travagli, era aggravato su Reggio un altro infortunio da que’ malviventi che in armate comitive, impunemente quasi, scorrevano le città e le campagne, assassinando, rubando, e bruciando a man salva. E Reggio versava in presentaneo pericolo di essere spacciata da quegli assassini che le formicavano attorno. All’interna difesa della città eran costituiti Agamennone Spanò e Minichello di Capua, i quali ordinati a schiere armale i cittadini, li tenevan presti ad opporsi a’ banditi, qualora avvicinandosi a Reggio, facessero minaccia di entrarvi. Coletta Malgeri intanto si era preso l’assunto di dar loro il persèguito colle regie squadriglie. Ma queste furono al bisogno assai scarse, perchè que’ malfattori, ch’erano audacissimi, non lasciaronsi impaurire dalle braverie del Malgeri, anzi fecero voto di levargli la vita.

Era famosa in que’ tempi la comitiva de’ banditi, di cui erano capi Nino Martino detto il Cacciadiavoli, Marcello Scopelliti, e Giovanni Michele Toscano. Costoro non lasciavano aver posa a questa misera terra, nè v’era alcuna pubblica forza che valesse a domarli. Eransi abbracciati agli stessi una cinquantina di Siciliani, e tra i banditi calabresi primeggiavano, oltre i tre capi anzidetti, Colan[p. 281 modifica]gelo Crupi ed Ascanio Monsolino. Una lor comitiva verso il giugno del 1576 irruppe nel casale di Ortì, dove uccise diciannove uomini, e parecchie donne e fanciulli, e bruciò sei case. Il capitan d’armi Giuseppe Mazza, che la città aveva spedito contro que’ malviventi, fu assai svillaneggiato, e poco mancò che non n’uscisse colle membra rotte. Dopo, agli undici di luglio, mentre la città era angustiata dalla pestilenza, i banditi scopertamente vi entrarono, ed andavan gridando al popolo che stesse di buona voglia, perchè essi non venivano a far male a persona, ma anzi a liberar tutti dalle oppressioni de’ nobili. Ed in fatti il popolo reggino, o per timore o per altra cagion che si fosse, non vi fece alcuna opposizione, nè diede ascolto a’ nobili, che il chiamavano ad armarsi per dare addosso ai banditi, i quali, a prima giunta, assaltarono la casa di Coletta Malgeri. Questi che vi stava entro con altri otto suoi familiari, lungamente si difese, ma finalmente fu colto e privato di vita da un’archibugiata; e poco dopo gli cadde al fianco Donato Vazzani, uno de’ suoi. Degli assalitori fu ucciso Ascanio Monsolino, e due altri che portando fascina tentavano di accostarla alla casa per darvi il fuoco. Ma questa essendo solidissima, tutti i loro sforzi tornaron falliti, e per rabbia incendiarono una vicina casa di Alfonso Nasiti. Tornarono però tosto al desiderio di mandare a terra la casa del Malgeri, e vi condussero a tal fine un pezzo di artiglieria, palle e due barili di polvere, con che cominciarono a batterla. Dopo pochi colpi diede il caso che uno de’ barili della polvere, ch’era ivi presso prendesse fuoco, onde ne seguì uno scoppio così violento che incenerì sei banditi, bruciò un braccio a Nino Martino, ed a Marcello Scopelliti le mani. Quelli che eran dentro la casa si difendevano intanto con sovrumano ardire e fermezza; sì che i banditi, non potendone altro, si trassero finalmente da quell’impresa. Mentre ciò avveniva sotto la casa del Malgeri, in un altro punto della città sei banditi assalivano quella del nobil cittadino Silvio Barone, ed entrativi, ne involavano gran copia di danaro e di cose preziose. Da ultimo percuotevano in quella di Giovanni Battista Rota, dove non si rimanevano contenti a torgli cinquecento scudi ed altri oggetti di molto prezzo: ma gli uccidevano ancora la moglie.

Il nobile e ricco reggino Nicola Brancati, stretto all’improvviso da’ banditi siciliani in una sua villa, fu condotto in Sicilia dove i medesimi avevano il loro covo, e per prezzo del suo riscatto gli domandarono una somma di danaro ben grossa. Saputo la dolente sua moglie quel che chiedevano i banditi, procacciò sollecitamente il danaro, e consegnollo ad un suo fido servo, perchè passasse nel[p. 282 modifica]l’isola, e recasselo nel territorio di Savoca, dove quelli avevano il loro ricetto. Ma non si era il servo dilungato un buon miglio da Messina, quando vide venirglisi incontro libero e sciolto il suo padrone, di che ne fece gran festa. Ed interrogatolo del come avesse potuto uscir dalle costoro mani, intese dal Brancati che mentre il tenevano legato ad un albero, sopraggiunse il Capitan d’armi, che guardava quella parte di provincia, con numerosa milizia per dar la caccia a’ malviventi. Onde i medesimi non ebbero spazio a slegarlo, ed ivi il lasciarono, donde fu sciolto dal capitano, e rimesso in libertà.

III. Ma questi assassinamenti ed eccessi eran pervenuti a tale per tutta la provincia di Calabria, (1577) che sollevarono l’indignazione del governo, ed il vicerè finalmente vide quanto fosse necessario dare efficaci provvedimenti perchè le comitive de’ banditi fossero distrutte. Era allora Governatore generale della provincia di Calabria Giovanni Alfonso Bisballe conte di Briatico, il quale perlustrando il paese colle regie squadre, aveva da Polistina riferito al Vicerè lo stato deplorabile di tal provincia, e chiestegli energiche e severe provvisioni e facoltà contro i fuorusciti. I quali s’eran già imbaldanziti in tal forma che non solo per le pubbliche strade, ma nè tampoco per i luoghi abitati poteva aversi certezza che i buoni non fossero presi, rubati, uccisi, e fatti loro altri maltrattamenti senza alcun timore di Dio, nè della giustizia umana. Per la qual cosa il Vicerè, con parere e voto del regio collateral Consiglio, concedette al Bisballe ampie autorità e facoltà di prender quelle misure cne stimasse più conducenti allo scopo di sperdere e struggere le bande de’ facinorosi.

Ordinò adunque il Bisballe da Reggio addì quindici di novembre del 1577, che i banditi Consalvo Marino, Colangelo Crupi, Giovanni Michele Toscano, Marcello Scopelliti, Nino Martino detto il Cacciadiavoli, ed altri quarantasette, individuati col loro nome e soprannome, fossero citati a comparire in Reggio dentro il termine di dieci giorni alla presenza dei Bisballe, e stare a ragione pe’ delitti e misfatti loro imputati. E non curando ubbidire alla perentoria citazione, e continuando ad esser contumaci, ed a commetter nuovi reati per il corso di un anno dopo il termine intimato, ordinò che fosser dichiarati fuorgiudicati, e come tali potessero essere offesi ed uccisi impunemente da chiunque. Con questo che chi dopo tal anno darebbe in poter della regia Corte o vivo o morto alcuno de’ fuorgiudicati avesse ad esser premiato con questa norma: — Chi de’ delinquenti presenterebbe vivo o morto alcuno de’ fuorgiudicati, dovesse [p. 283 modifica]godere indulto di tutti i suoi reati, ancorchè non vi fosse la remission della parte. Il presentatore, non essendo nè un contumace nè un delinquente, avesse facoltà di nominare uno o due altri delinquenti, a’ quali sarebbe dato pieno indulto de’ commessi reati.

IV. Nondimeno per i quattro capi banditi Consalvo Marino, Colangelo Crupi, Giovanni Michele Toscano, e Marcello Scopelliti fu provveduto che fossero esclusi da qualunque indulto, salvo solo il caso che un di loro ammazzasse o presentasse vivi o morti alla Corte gli altri tre. Fu provveduto similmente che i dieci Nino Martino, Colajacopo Idà, Cicco Bello, Cicco Caracciolo, Nino Matrapodi, Lorenzo Losciglitano, Giovanni Lorenzo Martino, Pompeo Giunta, Giovanni Leonardo Rognetta, e Silvio Caccamo allora solo potessero goder l’indulto, quando un di loro ammazzasse o presentasse vivo o morto alcuno de’ detti quattro capi banditi. E che i sedici Francesco Giunta Nunzio Rognetta, Pietro Furci, Giovanni Ramondino, Silvestro Caridi, Matteo Stiriola, Gesuele Alati, Filippo Mazzei, Giovanni Majorana, Paduano Orecchi, Ottaviano Mammi, Marcello Sturnello, Giuseppe e Filippo Vazzani, Angelillo Mandica, e Vincenzo d’Amico non potessero goder dell’indulto che ammazzandosi l’un l’altro, o presentando vivo o morto alcuno de’ detti quattro capi, o degli altri dieci.

Se poi colui che presenterebbe vivo o morto uno de’ sopradetti fuorgiudicati non fosse un contumace o delinquente, nè volesse goder tale indulto, nè farlo godere altrui, allora fu disposto che gli si dovesse dare un premio di ducati duecento per testa, se il presentato o vivo o morto fosse uno de’ quattro capi; di ducati cento, se fosse uno degli altri dieci o sedici; e di ducali cinquanta, se fosse alcuno di quelli non compresi nelle tre classi indicate. E questo premio dovesse intendersi oltre della taglia che potessero aver imposta sulla persona del fuorgiudicato le università o i particolari.

Con questi mezzi violenti, ma alle volte pur troppo necessarii a domar l’umana belva, si conseguì lo scopo prefisso. Imperciocchè de’ banditi parte si presentarono spontanei al Governatore, ed i rimanenti, decorso il termine e l’anno furon dichiarati fuorgiudicati dall’auditore Pietro de Balcane, che stava allora in Reggio a rappresentar la Corte per queste faccende. I banditi si sbrancarono, si perseguitarono scambievolmente, si ammazzarono l’un l’altro, e facevano a gara di tradirsi, e di conseguir l’indulto ed il premio promesso. Di tal maniera per la ferma energia del conte di Briatico e dell’auditore Balcane, le bande de’ malfattori vennero in gran parte distrutte, ed i contumaci che di dì in dì eran presentati vivi o fe[p. 284 modifica]riti in Roggio, venivano afforcati. Sicchè nella provincia di Calabria non vi era più quasi alcun bandito verso il termine del 1582.

V. Terminati i pericoli delle invasioni de’ Turchi, cessati i travagli della peste e de’ banditi, Reggio anelava e sperava un avvenire di riposo, di pace, e di prosperità. Si erano ridestate le menti alle cure operose del traffico, delle industrie, dell’agricoltura, delle lettere e delle arti. E la pubblica amministrazione era tutta intesa a far che la città nostra risorgesse più nobile e bella dalle sue ceneri. L’anno 1582 eran sindaci Agamennone Spanò, Annibale di Capua, e Giovanni Battista Lanatà. Costoro convocato il general Parlamento de’ ventuno Eletti proposero che fosse supplicato il re Filippo II di concedere a Reggio la residenza della regia Udienza provinciale, che allora stava in Catanzaro. Fu nel Consiglio approvata ad un animo la proposta de’ sindaci; ed al magnifico Tommaso dal Fosso fu data commissione di recarsi in Napoli, affinchè, assistito dall’avvocato Girolamo Crisanti, desse avviamento e buon esito all’affare. Tommaso dal Fosso nel chiedere al governo la traslocazione in Reggio della regia Udienza rappresentava da parte de’ Reggini che ove potessero ottener tal benefizio, sarebbero pronti ad obbligarsi alle seguenti cose:

1.° Di pagare alla regia Corte ventimila ducati sull’introito delle gabelle, e di altre civiche imposte.

2.° Di ampliare a proprie spese il carcere della città.

3.° Di costruirvi un edifizio per abitazione del Preside e de’ suoi uffiziali, e farvi il locale della regia Udienza.

4.° Di pagar per due anni la mercede del Preside e degli altri impiegati provinciali.

Ad onta degli ostacoli, e delle premure in contrario che vi sosteneva la città di Catanzaro, ottennero i Reggini la regia Udienza nel corso del 1583, e questo tribunale fu in effetto traslocato da Catanzaro in Reggio al principio del 1584. Il primo Preside che venne a far dimora in Reggio fu Cristofaro La Cueva, a cui i sindaci della città diedero atto di possesso coll’intervento dell’arcivescovo Gaspero dal Fosso. I primi Auditori di quell’anno furono Giovanni Battista Cupizio, Mario Caraffa, ed Antonino Parra. Ma del Preside La Cueva non poco ebbero i Reggini a dolersi, poichè commise molte oppressioni e crudeltà; e per impedire i ricorsi al Vicerè contro di lui, aveva il ticchio di svaligiar la posta prima di partire, e dissuggellar le lettere private per veder se nulla rapportassero in Napoli contro le sue ingiustizie e prepotenze. L’arcivescovo Gaspero dal Fosso aveva ottenuto da papa Grego[p. 285 modifica]rio XIII che i sei vecchi monasteri di San Matteo, di Sant’ Anastasia, de’ Santi Quaranta Martiri, di Sant’Andrea di Mallamaci, di Santa Maria di Ganzerina, e della Santissima Trinità, tutti dell’ordine di San Basilio, fossero ridotti in un solo sotto la regola di San Benedetto. E come era ancor fresca la memoria della celebrata vittoria riportata in Lepanto da Giovanni d’Austria contro i Turchi, si volle intitolare il nuovo Monastero a Santa Maria della Vittoria. Ne furono gittate le fondamenta nel 1586 coll’intervenzione dell’Arcivescovo, del Clero, e de’ Sindaci. Intanto le monache de’ sei monasteri furon raccolte in quello di San Matteo, ch’era il meno crollante, perchè ivi dimorassero sino al compimento del novello edifizio. Fu fatto intendere alle stesse che dovesser tutte acconciarsi all’ordine di San Benedetto; e che a quelle che non volessero cambiarlo rimanesse la scelta di poter ritirarsi alle lor case, e continuare a vestir l’abito di San Basilio, all’usanza delle terziarie. Solo sei non vollero abbracciar la regola di San Benedetto, e se n’andarono alle lor famiglie , e queste furono Porzia Monsolino, Ferrandina Carbone, Lucrezia Carbone, Caterina Castelli, Sicilia Melissari, e Rosella di Jacopo.

VI. Divenuta Reggio sede del Preside della Provincia e della regia Udienza, aveva goduto per parecchi anni il benefizio del nuovo suo stato. Ma le vicende guerresche dell’Europa dovevano un’altra volta spingere contro la nostra città la feroce rabbia musulmana, per farla riaffogare nelle più lagrimevoli sciagure. Era imperatore ottomano Amurat III; il quale per diverger le potenti forze de’ Cristiani che si erano alleati a’ suoi danni quand’egli si gittò a guerreggiar l’Ungheria, impose al suo ammiraglio Hassan o Sinan Cicala, rinnegato messinese, che movesse da Costantinopoli con poderoso navilio e con truppe da sbarco, e discorrendo i mari d’Italia menasse distruzione di tutte le terre e città marittime a cui si abbatteva. Hassan a’ due settembre del 1594 apparve nello stretto di Sicilia con un’ armata di novantasei navi.

Tutti gli abitanti delle marine per ordine del Preside si ritirarono ne’ luoghi interni, ove potessero meglio difendersi. Ed i Reggini, per non esservi nella città presidio bastevole alla difesa, si trassero fuor delle mura alle colline superiori del Trabucco. Tutte le religiose, ch’eran raccolte nel monastero di San Matteo, fuggirono allora in Messina, e furon ricoverate in uno de’ chiostri di quella città. La turchesca squadra, che già navigava di qua da Leucopetra, approssimandosi dava fondo nel seno di Motta San Giovanni; sicchè i cittadini ebbero spazio non solo di metter in salvo le per[p. 286 modifica]sone, ma anche le robe loro. Alla dimane due navi turche vennero a’ lidi di Reggio a riconoscerne la posizione e lo stato; ma veduta ogni cosa muta e deserta, se ne ritornarono senza farne altro. Cicala ebbe sospetto non sotto quell’apparente quiete covasse qualche insidioso disegno, e soprastette tre altri giorni ad assalir la città. Finalmente vi si andò accostando, e non vedendo alcun atto di ostilità, si fece ardito a sbarcar cautamente la soldatesca; e schieratala a battaglia la fece procedere verso le porte della Dogana e di San Filippo. Queste furono abbattute a colpi di scure, ed i Turchi, assai guardinghi però, si misero nella città; ma tosto si accorsero dalle vie e dalle case deserte che gli abitatori l’avevano a disegno abbandonata. Appiccarono allora il fuoco a’ migliori edifizii, le chiese profanarono, e le sepolture scoperchiarono, sperando che i fuggiti cittadini avessero in esse nascosti gli ori e gli argenti. E rabbioso il Cicala di non avervi trovato cosa alcuna, che satollasse la sua cupidigia di bottino, sparse al vento le ceneri degli estinti. Entrato nel duomo fece impeto alla tomba dell’arcivescovo dal Fosso, insultando ferocemente alle sacre ossa ed alla memoria veneranda di quel santo Prelato. Disseminatisi poi i Turchi per le vicine campagne, in ogni peggior guisa le devastarono ed arsero.

Delle Chiese di Reggio era assai ragguardevole quella vetustissima degli Ottimati, che allora formava soccorpo alla chiesa più moderna de’ Gesuiti. Questa fu assai guasta da’ Turchi; l’antico quadro dell’Annunziata fu distrutto, rotti i mosaici del pavimento, rotte le colonne di marmo, ed i sedili di legno che eran ricchi d’intagli e dorature di gran prezzo. E se non fu distrutta in tutto come la chiesa soprapposta, ciò provenne dall’esser costrutta sotterra, dove le fiamme struggitrici non potettero farsi il cammino.

VII. Quando questa infernalità si offerse alla vista de’ cittadini, che stavansi celati in quelle vicine collinette, si ripararono alle più alte e lontane parti, ed in gran copia a’ boschi che soprastavano al Convento de’ Padri Cappuccini. Recatisi gli Ottomani pe’ luoghi cespugliosi del Trabucco, menarono i loro occhi per il convento medesimo, e colà si precipitarono per dargli l’assalto. Ma i Cappuccini e quegli altri cittadini che vi si eran ricoverati, fattosi animo, risolvettero di affrontar la rabbia musulmana. Tra i nobili e coraggiosi giovani reggini erano ivi Alfonso Spanò, Francesco Monsolino, Lodovico Carbone, ed il sacerdote Timoteo Tritino. Costoro, unitisi a’ frati, si appostarono armati dietro le mura dell’orto del Convento, e quanti Turchi andavansi approssimando per quella stretta via, tanti ne prendevan di mira ed uccidevano a colpo sicuro. I Bar[p. 287 modifica]bari, che vedevano radersi l’uno appresso dell’altro sotto colpi invisibili, cominciarono a sbigottirsi, e credendosi fulminati da un nemico soprannaturale, retrocessero a Reggio.

Il giorno dopo nondimeno ritornarono al Convento in assai maggior numero, e col fermo proposito di mandarlo ad incendio e rovina. Ma i frati, e tutti que’ cittadini ch’eran con loro, prevedendo i nuovi insulti, si erano apparecchiati a disperata difesa, risoluti di vincere, o di andare a morte gloriosa. Stettero i monaci orando nel coro tutta la notte, ed implorando il divino ajuto della Santa Vergine loro avvocata. E quanta potenza abbia ne’ gentili animi la difesa del patrio ostello e della patria religione, ben il mostrarono quei valorosi claustrali, e quei cittadini che in lor compagnia combattevano. Perocchè assaliti gagliardamente da’ Turchi, gagliardamente risposero, ed il meraviglioso coraggio di pochi Cristiani fu muraglia inespugnabile contro l’impetuosa furia de’ nemici. A tutti soprastava, a tutti dava animo, con in mano il Crocifisso, il Guardiano Gabriele Castrisciano; il quale esposto alle nemiche percosse, rimase miracolosamente illeso. Lui seguivano e secondavano gli altri frati, tra i quali si segnalarono per maschia intrepidezza Grisostomo Melaya, Gregorio Foti, Filippo Crasti, Leonardo Citrino, Graziano Capelluto, e Timoteo Aromatisi.

Pure un sol timore angosciava l’animo di quei valorosi, ed era che potessero esser tramezzati dai Turchi, e trucidati senza riparo. Ma que’ furibondi, poco pratici di que’ luoghi scoscesi ed imboscati, si allargarono sulle colline a sinistra, e così più si esposero a’ colpi de’ difensori del chiostro. Onde avvedutisi che correvano al peggio, si risolvettero di farla finita, e ristrettisi allo spianato della chiesa, cacciaronsi a darle l’assalto, ed a fracassarne la porta colle loro scimitarre, che luccicavano di luce infernale. Ma allora i difensori, abbandonati i loro posti, si scompartirono in due schiere, l’una delle quali si aggruppò nella chiesa per difenderla sin all’ultimo, nel caso che riuscisse a’ Turchi di abbatter la porta: l’altra schiera si distribuì su per le finestre delle celle, e cominciò a tempestare i Turchi con sì stretta fucilata, che quanti traeva colpi, tanti Turchi freddava. Sicchè ì nemici, come presi di subito terrore, indietreggiarono, e si dettero a precipitosa fuga; nè si tennero nella desolata città, ma addì otto di settembre si ricondussero sulle loro galee, e senz’altro indugio partirono.

A’ tredici di novembre le monache, ch’eran fuggite in Messina, tornarono in Reggio, e furon chiuse nel novello edifizio del Monastero di Santa Maria della Vittoria. [p. 288 modifica]

Uscendo da’ lidi di Calabria tentò Cicala di accostarsi all’opposta riva di Messina, ma ivi trovò gli abitanti preparati a tal resistenza, che il salutarono con gagliarde cannonate. Laonde il rinnegato, persuasosi che per allora null’altro potea fare in quelle parti, se ne allontanò. Ma portava seco il dispetto della non compiuta impresa, e l’acceso desiderio di ritornar sopra Reggio fra non guari con animo preparato ad implacabil vendetta.

VIII. Ma questa tremenda calamità altra ne chiamava sulla distrutta Reggio. Nella devastazione fattane da’ Turchi, tutti i pubblici edifizii andarono in conquasso, ed i regii archivii furon divorati presso che tutti dalle fiamme. Non era quindi più sicura in Reggio la permanenza del Preside e della regia Udienza. Questa fu dapprima trasferita in Seminara; e poi diffinitivamente restituita in Catanzaro. Imperciocchè que’ cittadini, traendo partito dell’infortunio di Reggio, fecero ressa che la regia Udienza fosse loro riconceduta. Nè poco valsero a pro de’ Catanzaresi i buoni uffizii del vicerè conte di Miranda; di che è facil pensare quanto siensi doluti i Reggini presso il governo, ma fu loro risposto che la residenza provinciale veniva indi rimossa, non per altrui insistenza, ma per la sola forza degli avvenimenti che avevano condotta Reggio alla ruina. E rimanendo questa città della Calabria esposta più che altra alle ingiurie de’ Turchi, era di necessità trasportare in più sicuro luogo gli archivii ed i tribunali della provincia per guarentirli da’ pericoli dell’invasione e dell’incendio. La residenza del Preside in Reggio durò dunque dal 1584 al 1594, ed i Presidi che vi tenner seggio in que’ dieci anni furon sei, Cristofaro la Cueva, Ferrante della Iovara, Vincenzo Pignoni, Arrigo de Mendozza, Andrea Ossei, e Pietrantonio Caracciolo.

Entro questo stesso anno 1594 il Turco Mamud, venendo con cinquanta navi dall’Affrica, e costeggiando il nostro litorale con mentite insegne maltesi, ghermì molte barche nella marina di Catona, e menò presa assai gente. Trascorrendo poi presso Reggio, cercò di operarvi qualche sbarco; ma vedendo i cittadini pronti a difendersi, passò in là, e raccolse le vele nel seno di Santo Leo. Ivi le sue genti, gittatesi a terra, cominciarono a scorrazzare per tutti quei luoghi. Ed allargandosi verso mezzodì, venne lor veduta non molto lungi del lite una casa torrionata, in cui si era ristretto buon numero di terrazzani all’avvicinarsi de’ Turchi. I quali a quella si diressero per tentar di assaltarla; ma que’ di dentro, fatto fuoco, uccisero nel primo tratto cinque Turchi. Della qual cosa irritatissimo Mamud spinse tutti i suoi all’espugnazione di quella casa; e [p. 289 modifica]detto fatto fu presa, ed i paesani che vi erano, furono quali uccisi, quali fatti prigioni. Ma poi il barbaro dovette subito rimbarcarsi, e far via per Levante, tra perchè s’accorse d’esser codiato dal principe di Cariati Carlo Spinelli, cui il vicerè aveva destinato Capitano a guerra nella Calabria, e perchè non era lontana da’ nostri mari la flotta dagli alleati Cristiani, composta di settanta galee, e comandata dal principe Giovanni Andrea Doria.

Furono intanto riferite al Vicerè le nuove incursioni de’ Turchi, ed egli provvide che Reggio fosse messa in positura di vigorosa resistenza: e furon chiuse le porte del Trabucco, del Torrione, e Crisafi. Ordinò che ad un bisogno fossero ivi chiamati quanti soldati ed uomini d’armi potessero raggranellarsi nelle vicine contrade. E quando corse fama che Cicala con cinquantacinque galee non tarderebbe a ricomparire nel nostro mare, sotto pretesto di voler rivedere in Messina la sua vecchia madre Lucrezia, trovò tutti pronti a ributtarlo con forza e valore. E Diego Osorio, ch’era Governator della città e Capitano a guerra, ordinò che subito tutti quelli che ne’ borghi abitavano, ed erano alti alle armi, nella città si riducessero. Fornitili quindi di armi e di munizioni convenienti li distribuì per le fortezze, e per que’ punti ov’era maggiore il bisogno (1598). Oltre a questo collocò parecchie vedette in luoghi opportuni, e su i più alti ciglioni delle colline soprastanti alla città; affinchè speculassero i movimenti dell’armata nemica, e di ora in ora ne dessero avviso alle scolte della città. Venne ancor dalla Sicilia Pietro de Leva con sei bastimenti carichi di provigione d’ogni fatta, mentre il Vicerè dell’isola Garzia di Toledo, a coi eran venute da Napoli altre sei navi, studiava attentamente le mosse del Turco, che andavasi a poco a poco avvicinando. Era già il nemico pervenuto dietro la rada di Calamizzi, ed i Reggini, per non lasciarsi cogliere alla sprovveduta, furono in un tratto sulle armi. Ma Cicala, ivi trattenutosi per parecchi giorni, poi se ne dilungò, e gittò l’ancora nel solito seno di Motta San Giovanni. Fece divulgare intanto ch’egli non era venuto a far nuove offese a Reggini o ad altrui, ma solo a veder la madre sua. Ma niuno prestò credito alle sue parole, ed immantinente furon chiamati a Reggio da’ castelli di Motta San Giovanni e di Melicucca, parte della milizia Spagnuola che vi era di presidio, ed un drappello di cavalli da Santagata e da Seminara. Nè mancò il soccorso di settecento pedoni e cento cavalli, spediti dal principe di Scilla; e novecento Spagnuoli furon fatti sbarcare in Reggio dal Vicerè di Sicilia con tre bocche da fuoco.

Rincorati i Reggini da tanti sussidii, non stettero ad aspettare i [p. 290 modifica]Turchi in città; ma usciti fuori cominciarono a combatterli nelle campagne di Santo Leo, e di Motta San Giovanni, ove quelli erano sbarcati. Venuti ad avvisaglie e fazioni, queste finivano per l’ordinario colla peggio de’ Turchi. Perocchè i villani, preso ardire dal concorso dei cittadini, non vollero restar loro inferiori, ed impugnando marre, scuri, coltelli, e quanto altro il bisogno della propria salvezza metteva lor dinanzi, si scagliarono addosso a’ musulmani con vigore e risolutezza. E fecero tanto che una schiera di nemici fu disunita dalle altre; la quale qua e là rincacciata da’ nostri, si gettò sopra la terra di Macellari, e le pose fuoco. Ma stretta viapiù ed inseguita, moltissimi Turchi restaron morti, mentre de’ Reggini tre soli venner desiderati. E di essi uno fu un certo Ambrogio, servo di Giovanni Nicola Spanò: il quale Ambrogio, ito cogli altri alla pugna contro i Turchi, gittato giù il cappello si appostò dietro un grosso macigno che gli facesse riparo, e caricando e scaricando come fulmine il suo scoppietto, faceva vomitar l’anima a moltissimi Turchi. Ma finalmente i barbari dal fumo e dal lampo dello scoppio argomentando il punto donde i colpi partivano, tutti aggiustarono ivi la mira, e veduto quel valoroso, gli scaricarono addosso tal pioggia di palle, che stramazzò sul terreno insanguinato e morto. Di che avvedutisi, ma troppo tardi, i nostri accorsero a calca, e trovatolo esanime il portarono in sicuro luogo, e diedero al cadavere onorata sepoltura.

IX. Essendosi persuaso il Cicala che per allora i suoi disegni sopra Reggio non potevano pigliar forma (1598), perchè la città era gagliardamente propugnata, fecesi dell’alto, e mandò pregando il Vicerè di Sicilia, che dimorava in Messina, volesse permettergli di veder sua madre. Che egli intanto, per dissipar dall’animo del Vicerè qualunque sospetto di tradimento, si profferiva dargli due suoi figli in ostaggio. Fu contentato il desiderio di Cicala, e due navi Siciliane condussero Lucrezia sua madre con altri congiunti da Messina in Reggio. Donde avviatisi per terra alla marina di Motta San Giovanni ove stanziava Cicala, Lucrezia si appresentò al figlio con animo di donna forte e cristiana. Come l’ebbe veduto non si mosse per niente ad abbracciarlo, ma componendosi a severa mestizia, non dava sembianza di volerglisi far presso. E quando il rinnegato volea correrle nelle braccia, e prenderla per la mano, ella con dignità se ne ritrasse; e dissegli con ineffabile amarezza, lei non aver figliuoli musulmani, nè bastarle il cuore di stringer fra le sue braccia chi aveva disertato dalla religione de’ suoi padri. Tornasse in grembo della chiesa cattolica, ed allora a lui sarebbe anche aperto il materno [p. 291 modifica]grembo, e datogli gustar la santa ed ineffabil voluttà de’ materni baci. Questo dicea la nobil donna con sì fatta espressione di affettuusa malinconia, che a quanti eran presenti e turchi e cristiani corsero copiose agli occhi le lagrime. Cicala mostrossi profondamente commosso a’ rimproveri della madre, e le promise che non metterebbe che poco altro tempo a farla contenta, e gliene obbligò la sua parola. La madre allora, lasciatasi facilmente ammorbidire dalle promesse del figliuolo, sciolse il freno alla tenerezza, e lui stringendo al seno affettuosissimamente lo inondò di baci, e di lagrime di gioja, e desinò seco sul lido ad un lauto desco ivi preparato per lei. Poi rinnovati gli abbracciamenti ed i baci, si separarono profondamente commossi; covando l’uno nell’animo il proposito di non attener la promessa, l’altra tenendo per fermo che ivi a breve tempo vedrebbe il figliuol suo tornato alla verità del Vangelo, ed alle sue braccia. Lucrezia si ricondusse a Reggio, ed indi a Messina; Cicala risalì sulle navi, e non molestando oltre le nostre terre prese il largo, e veleggiò per Levante.