Storia di Reggio di Calabria (Spanò Bolani)/Libro quinto/Capo quarto
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CAPO QUARTO
(Dall’anno 1447 al 1465.)
I. Alfonso muore, e gli succede il figliuolo Ferdinando. I Baroni del Regno offrono lo Stato a Giovanni d’Angiò. Commovimenti alla sua entrata. II. In Reggio si fanno nuove fortificazioni. Rivoluzione in Calabria contro Ferdinando. Tutti i paesi attorno a Reggio cadono in poter degli Angioini; ma questa città resta salda all’obbedienza dell’Aragonese. Fatti d’armi tra Aragonesi ed Angioini. III. Contrasti tra Berlingieri Malda ed il conte Antonio Cardona. I Reggini si ribellano alla potestà del Conte, e mandano a re Ferdinando i Sindaci Nicola Gerìa e Giacomo Foti. IV. Reggio è rintegrata nel regio demanio. È dichiarata da Ferdinando Capo e Madre delle città di Calabria. Nuovi privilegi della città. V. Fazioni guerresche tra Angioini ed Aragonesi. Gli Angioini si fortificano in Santagata. Viene contro di loro Alfonso Duca di Calabria. Espugna parecchie terre; ma Santagata, difesa da Giovanni Battista Grimaldi, resiste. Il Duca di Calabria in Reggio. Il Malda cede il castello di Reggio. VI. Traversie del partito angioino. Giovanni d’Angiò esce del Regno. Giovanni Ballista Grimaldi consegna Santagata ad Alfonso. Tutto il regno è sotto re Ferdinando. Condizione di Reggio, e favori concessile dal re. Motta Rossa e Motta Anomeri sono atterrate.
I. Ad Alfonso, passato di vita nel 1458, successe il suo figliuolo Ferdinando. Ma tuttochè questi fosse già abilitato alla successione e dall’adozione paterna e da’ papi Eugenio IV e Nicolò V, nondimeno non volle riconoscerlo Calisto III, e dichiarò il reame di Napoli devoluto alla Sede pontificia. Ma per buona fortuna del nuovo re, Calisto non visse che pochi mesi, ed il nuovo pontefice Pio II confermò a Ferdinando la successione paterna.
Sotto l’incipiente regno di Ferdinando cominciarono a ripullulare le vecchie discordie; e tutti que’ Baroni che erano male affetti alla casa d’Aragona, massime il principe di Rossano, il duca di Atri, il principe di Taranto, ed il marchese di Cotrone Antonio Centeglia si ristrinsero per operare contro il nuovo Sovrano (1458). Il quale a schivare il commovimento che poteva succedere, cercò ammorbidir l’animo de’ più principali, rimettendo nel possesso delle loro castella il principe di Taranto ed il marchese di Cotrone. Ma costoro avevan già preso partito, e mandarono ad offrire il Regno a Giovanni re di Navarra, fratello del morto Alfonso, come parte della fraterna eredità. Ma costui, avviluppato in civil guerra co’ suoi sudditi di Catalogna e di Navarra, e troppo occupato degli affari generali di Spagna, non volle turbar la signoria del nipote. Allora i baroni volsero il loro animo verso Giovanni, figliuolo di Ranieri d’Angiò. Questo Giovanni, che faceva chiamarsi Duca di Calabria per le ragioni di eredità sul reame di Napoli, governava a quel tempo Genova in nome di Carlo VII re di Francia; nella cui proiezione si era gittata quella repubblica, quando abbattuta dalle passate guerre, non credeva poter bastare da se sola a sostener la propria indipendenza. Giovanni pigliò questa propizia ventura per dare effetto alle antiche pretensioni della casa d’Angiò. S’invogliò dunque, secondato moltissimo da’ Genovesi, all’impresa del regno; e mosse dal porto di Genova nel 1459 con un’armata ragguardevole, composta parte di galee genovesi, parte di navi speditegli da Marsiglia da suo padre Ranieri.
Il più dichiarato partigiano di Giovanni era Antonio Centeglia, che non vedeva il momento di vendicar su Ferdinando le persecuzioni ed i travagli sofferti sotto il defunto Alfonso. Ma non prima scese Giovanni sulle coste del reame, che moltissimi baroni si apersero suoi fautori, e si trasser dietro il popolo delle provincia.
II. Dal momento che Ferdinando aveva avuto notizia della spedizione di Giovanni d’Angiò contro di lui, erasi accelerato a mettere in assetto di virile difesa le principali città e castella. Ed allora per suo ordine al vecchio castello di Reggio furono aggiunte due grosse torri verso scirocco, con un rivellino coronato di merli ad oriente. Furono inoltre rifatte a nuovo le mura della città, e piantato alla marina il nuovo edifizio della Dogana. A tal uopo il re costituì il nobile Nicola Gerìa reggino a Commissario e Soprintendente delle dette fabbriche per due anni, con piena potestà di ordinare e fare qualunque altra opera di difesa che gli sembrerebbe necessaria, adoperandovi gl’introiti delle collette generali, e delle regie gabelle. Il sollevamento contro Ferdinando se fu gagliardo in tutte le provincie, fu gagliardissimo in Calabria, ove attizzava l’incendio il marchese di Cotrone. Cosenza, ch’era allora la più popolosa e considerevole città di Calabria, si abbracciò pure a Giovanni, sebbene il castello si fosse mantenuto nella fede dell’Aragonese. Sull’esempio di Cosenza tutta la rimanente Calabria andò in fiamme. Ferdinando, comprendendo che a contener questa provincia, era prima necessario soggiogar Cosenza, che n’era la testa, vi spedì con buon nerbo di fresche milizie Alfonso d’Avalo e Roberto Orsini. Costoro introdottisi nel castello, operarono opportunamente una sortita nella città. Co’ quali azzuffaronsi i cittadini, che armati e risoluti tenevano il fermo; ma non fu lunga la resistenza, perchè la moltitudine rinfusa e disordinata rimase vinta dalle schiere disciplinate de’ nemici, ed andò in rotta e dispersione. Così cadde Cosenza; e de’ suoi cittadini quali furono uccisi, quali imprigionati, quali perseguitati. La città fu messa a bottino, che fruttò settecento mila scudi di oro agli Aragonesi. La caduta di Cosenza si tirò seco quella di tutti i luoghi finitimi; ed il Centeglia, venuto alle mani con Tommaso Barrese fu battuto e fatto prigione. Al vittorioso Barrese furono aperte per conseguenza le porte di Catanzaro; così gli Aragonesi ripreser terreno.
Nella meridional Calabria Reggio non solo non aveva fatta alcuna dimostrazione a favor dell’Angioino, ma si teneva saldissima all’obbedienza di Ferdinando. A Giovanni d’Angiò ubbidiva pertanto molta parte della convicina contrada. Seminara, Motta Rossa, Motta Anomeri, Santagala, Pentidattilo, San Lorenzo ed altre terre e castella erano in potere degli Angioini, ordinati e diretti da Giovanni Battista Grimaldi, che venuto da Genova con Giovanni d’Angiò, era stato da questi fatto suo luogotenente nella Calabria meridionale.
III. Le vittorie degli Aragonesi nelle altre parti di Calabria animarono Reggio a togliersi dal vassallaggio, ed a ritornare alle garenzie demaniali. Un grosso partito di cittadini, traendo frutto delle contenzioni tra Berlingieri Malda castellano, e viceconte di Reggio, col conte Antonio Cardona (contenzioni che ridussero il conte a fuggir della città, e mettersi in salvo in Messina) si levarono a rumore (1462), ed abbattendone le insegne, dichiararono decaduto il Cardona. Ciò fatto, spedirono incontanente a re Ferdinando i sindaci Nicola Gerìa, e Giacomo Foti, perchè esponessero l’avvenuto al Sovrano, ed invocassero la restituzione della libertà demaniale. I sindaci narrarono al re come la lor città, sebbene circondata e tentata dagli Angioini, fosse rimasta sempremai fermissima nella fede della casa d’Aragona. Come, non ostante che re Alfonso avessela venduta ad un Cardona, e ridotta al niente, pure essa città avesse voluto piuttosto portare con rassegnazione le sue sventure, che romper fede al successore per pagarsi de’ mali tratti del padre. Essere ormai cinque anni, dicevano, da che la città era passata, per la morte del conte Alfonso, nelle mani del costui figlio Antonio; ed aver sostenuto in quel tratto increscioso di tempo calamità e miserie senza termine. Imperciocchè il nuovo conte Antonio, tanto per i debiti paterni che suoi, risedeva ordinariamente fuori di Reggio, ed i travagliati cittadini erano di là da ogni misura emunti e gravati per provvedere alla sua sussistenza. Egli era in somma a tale ridotto che non poteva giovar più nè a se stesso, nè altrui; ed abbandonava la sua contea al governo di un viceconte, ch’era Berlingieri Malda. Col quale da ultimo venuto a discordia, il conte si trasse in Messina; ed i cittadini lasciati a lor medesimi, non vollero pretermettere quella occasione di francarsi dal giogo feudale. Invocavano perciò la regal protezione, affinchè la città e suo territorio fosse restituita nel regio demanio; nè potesse mai più esserne alienata in qualunque tempo, e sotto qualunque titolo o pretesto. Facevano nel tempo medesimo i sindaci conoscere al re di quanto momento fosse che la sua regia protezione non patisse ritardo; poichè la città era seriamente minacciata tanto dagli esterni nemici, quanto da sollevazione interna del partito angioino, soffiato a tumulto dal Grimaldi, che teneva occupate tutte le terre convicine per Giovanni d’Angiò; e si era gagliardamente fortificato nella città di Santagata.
IV. Ferdinando, udito con lieto riguardo l’esposto de’ sindaci di Reggio, approvò quanto i Reggini avevano operato, e rintegrò nel governo demaniale la città e territorio loro. Dichiarò Reggio Capo e Madre delle città del Ducato di Calabria, e le accordò inoltre che in avvenire non potesse esser più alienata; e quando ciò avvenisse, permise che i cittadini avessero l’arbitrio di resistere, in genere et in specie, liberamente ed impunemente; e d’impugnar le armi, se fosse il caso, non ostante alcun ordine o disposizione in contrario. Confermò altresì tutti i privilegi della città, e la franchigia delle due fiere di agosto e di San Marco; e facultò i sindaci ad essere, secondo il solito, magistri nundinarum.
Concesse ancora:
1.° Pieno indulto di qualunque misfatto e delitto, anche di lesa maestà, per il tempo passato, tanto a’ Cristiani che a’ Giudei.
2.° Che oltre il pagamento annuo delle tre collette, alla ragione di once dieci per ognuna, non fossero i Reggini soggetti ad alcuna altra imposta di qualunque titolo e natura.
3.° Che la metà di tali collette dovute dalla città fosse adoperata per la riparazione e rifazione delle sue mura.
4.° Che la detta città, essendo assai vasta, ma assaissimo spopolata, facesse godere, a tutti quelli che venissero ad abitarvi, tutti i suoi privilegi, e la libera gestione de’ beni ovunque questi fossero siti. E qualora a ciò si opponessero i signori de’ luoghi ove tali beni si trovassero, che gli uffiziali della città potessero far rappresaglia in quei luoghi.
5.° Che le due Motte Rossa ed Anomeri, essendo state già di pertinenza dell’università di Reggio per titolo di compera, al cui dominio si eran sottratte a’ tempi delle passate rivolture, non sì tosto fossero riprese dalle mani dell’Angioino, e restituite alla pristina dipendenza, dovessero riconsegnarsi alla università. Nella cui facoltà resterebbe di spopolarle e distruggerle; e far che non avessero più proprio territorio, ma fossero parte integrale ed indivisibìle di essa città.
6.° Che que’ cittadini che avevano delle saline (gurgium ad faciendum sale) potessero continuare a goderle come si praticava prima che la città fosse divelta dal demanio.
7.° Che l’uffizio degli Aguzzini (alguzinorum) stabilito dal conte Cardona, essendo cosa insolita nel territorio e città di Reggio, più non avesse luogo, nullo modo, nulla causa, nullo colore, contro i cittadini in genere et in specie, ma che ogni esecuzione d’ordine dovesse esser fatta da uffiziali della città, secondo l’usanza.
8.° Che siccome i baroni, che possedevano terre convicine a Reggio, usurpavano con modo tirannico e violento il diritto detto della biada (jus blavae) su tutte le vettovaglie che si producevano nelle terre e possessioni de’ cittadini site ne’ territorii baronali; tal diritto fosse in perpetuo abolito, e fattine esenti i Reggini. Ed ove essi baroni o loro ufiziali presumessero fare il contrario, in tal caso fosse lecito alla città far rappresaglia ne’ beni di tali baroni, e loro uffiziali o vassalli.
9.° Confermò in ultimo all’Arcivescovo di Reggio il possesso della città di Bova, ma il re riserbò a se la castellanìa per poterla concedere a chi meglio gli talentasse.
V. Or tornando al Barrese diciamo che dopo aver ottenuto alle sue armi tanto successo nella provincia di Cosenza e di Catanzaro, dopo aver espugnato Oppido, Terranova, e San Giorgio, si deliberò di cacciarsi contro al Grimaldi (1463), che aveva ristrette tutte le sue forze nelle castella prossime a Reggio. Stava allora il Grimaldi nel castello di Santagata, e quando seppe l’avvicinarsi minaccioso del nemico si ristrinse a consiglio co’ suoi capitani Galeotto Baldassino, Luigi d’Arena, Francesco Gironda, e Francesco Caracciolo; e si pigliò il partito di muovere con tutte le forze contro le schiere di Tommaso Barrese. Tra Filogasi e Panagia s’incontrarono i nemici, e venuti a giornata, mancò la fortuna al Barrese, e fu al tutto sconfitto colla dispersione de’ suoi: ed egli stesso potette a gran pena salvarsi in Seminara.
Reggio allora videsi circondata da’ nemici vittoriosi; ma quantunque costoro, fortificatisi in Santagata e nelle altre terre prossimane, mettessero a cotidiana distruzione le coltivazioni del suo territorio, ne uccidessero gli abitanti, e commettessero prede, rapine, ed esterminii indicibili; quantunque il nome di re Ferdinando fosse già al tutto cancellato e vilipeso in questa regione, pure Reggio resisteva alle minacce, alle percosse, alla furia de’ nemici, per virtù e volere de’ proprii cittadini, non per alcuno ajuto che potesse aversi o sperarsi dal re aragonese.
Come questo re ebbe la dolorosa nuova della sconfitta del suo capitano, considerando che da questo sinistro avrebbero preso maggior lena i suoi nemici, volle mandare in Calabria contro i sollevati il suo proprio figliuolo Alfonso Duca di Calabria, ancor giovanissimo, affinchè col consiglio di Antonio e Luca Sanseverino reggesse la guerra coll’influenza del regio nome. Ed in effetto ebbe alla prima in suo potere Gerace, poi la Roccella, e via via altre terre e castella. Internatosi in seguito nella più meridional parte di Calabria, si avviò coll’esercito verso Pentidattilo, i cui abitanti per difender quel castello avevano piantati molti bastioni fuori della porta. Ma al primo assalto mal resistette, e fu preso e saccheggiato. Di qui seguendo il viaggio il Duca di Calabria si pose a campo a Motta Anomeri. Intimò la resa a que’ terrazzani, ma non vollero sentirne; appresentò le artiglierie, e minacciò di fulminarli; alzò bastioni avanti la porta della rocca, formati di recisi alberi e di fascine. Ma que’ di dentro tenevano il fermo; ed una notte venne lor fatto di appiccare il fuoco alle opere degli assalitori, e di mandarle alla mal’ora. In somma colle loro spesse sortite que’ coraggiosi mottigiani tanto molestarono i preparativi di assalto, che il Duca di Calabria videsi obbligato a mutarlo in regolare assedio. Per il quale i terrazzani vennero a tanto estremo difetto di acqua e di viveri, che dovettero in breve scendere a’ patti, ed arrendersi. Ottenuta quella Motta passò Alfonso all’altra detta Motta Rossa, e vi ordinò le artiglierie e le schiere per batterla. Ma si riversarono in sul buono così frequenti e copiose piogge con tuoni e folgori, che scoppiata parte della munizione ch’era nel castello, ne restaron morti quattordici degli assediati; e Sancio d’Acerbo, il quale comandava il presidio, fu così colpito dal fulmine, che per molti giorni restò mentecatto. Non vi volle poco a supplire alla mancanza della munizione bruciata; e contuttociò que’ di dentro duravano alle prove con grande ostinatezza.
Avvenne in quel mentre che un certo Antonio, il quale di frate si era mutato in soldato, e che chiamavanlo perciò il Gabba Dio, trovandosi dentro la terra si profferse a Sancio d’Acerbo bastargli la vista d’inchiodar le artiglierie nemiche, qualora gli fosse data licenza di uscir fuori a far tale effetto. Ma costui, da quel malvagio ch’egli era, come fu fuori si presentò ad Alfonso, e lo accertò di dargli in mano il castello senza difficoltà, sì veramente che gliene seguisse una larga ricompensa. E convenuto col Duca il tempo ed il modo, il Gabba Dio tornò dentro la terra, dando sicurtà a quella gente di aver eseguito per appunto il disegno. Poi quando fu tempo il Gabba Dio fece da su la rocca i segnali stabiliti, ed i nemici corsero subito a darvi la scalata, mentre da ciò niente si guardavano gli assediati. Tutto allora fu confusione, uccisione e dolore. La Motta Rossa fu saccheggiata, distrutta ed arsa, ed i suoi abitatori furono trasportati in Reggio, giusta il volere di Alfonso. San Lorenzo fu ancora espugnato, ed in queste prove i Reggini non solo soccorsero il Duca di provvigioni, di armi e di soldati, ma gli furono larghi di un donativo di ducati mille duecento: e molti sagrifizii sostennero nell’ajutarlo all’oppugnazione de’ luoghi sopradetti, e specialmente delle Motte Rossa ed Anomeri. Santagata nondimeno durò a qualunque sforzo di Alfonso; perchè il Grimaldi vi si era chiuso co’ suoi, ed aveva reso quel castello inespugnabile. Ciò vedendo il Duca, torse il cammino per Reggio, ove fu accolto da’ cittadini con feste grandissime e straordinarie.
Dopo l’espulsione del Cardona, Berlingieri Malda era rimasto padrone del castello di Reggio, nè in modo alcuno aveva voluto farne la cessione. Trovandosi presente il Duca ne fu pattuita la consegna, ed i cittadini, per contratto fatto col regio Commissario e Consigliere Antonio Gazo, si obbligarono di pagare al Malda ducati mille per tal consegna sulle rendite della gabella del vino. Tante gravezze eran portate da’ Reggini con lieto animo, dopo essersi sottratti alla tirannia feudale.
VI. Alfonso da Reggio si era recato in Cosenza (1464) ma intanto da per tutto nel reame le cose di Giovanni d’Angiò erano volte in basso dalla fortuna, la quale andava prosperando di bene in meglio quelle di Ferdinando d’Aragona. Da ultimo il principe angioino, a cui poco era mancato che l’agognato reame non gli venisse tutto in potere, si vide condotto a dover dipartirsi mesto ed accorato da quelle regioni, ov’entrando era stato ricevuto con tanto gaudio ed amore. Ristrettosi dapprima nell’isola d’Ischia, quindi imbarcossi e fece via per Marsiglia.
Giovanni Battista Grimaldi, che per due anni aveva fatto fronte a qualunque colpo nemico nel castello di Santagata, donde usciva sovente a guastare il paese, non ne fece la dedizione se non quando Giovanni d’Angiò gli ebbe ordinato da Marsiglia che il consegnasse ad Alfonso. Ed avuto da questi un salvocondotto, se ne passò in Sicilia, e di là navigò per la Provenza a raggiungere il suo principe. Per la disfatta e partenza dell’angioino, tutto il regno si raggiustò quietamente sotto la signoria di Ferdinando; il quale da quel momento non ebbe altro pensiero che di abbattere, mediante le perfidie ed i tradimenti, la potenza de’ baroni, e di confiscarne i dominii e le ricchezze. Quanto fu severo a punir le città che si eran contro di lui sollevate per seguir l’avversario, tanto si mostrò benevolo e munificente verso di quelle che gli erano rimase fedeli.
E forse niuna tra le città del Regno aveva patite tante avversità e tante percosse, per serbar fede a Ferdinando, quante Reggio in Calabria. Questa città, che durante la vita di Alfonso era divenuta la più oscura, povera e derelitta del Ducato di Calabria, risorse dalle sue ceneri sotto il regno di Ferdinando, e cominciò a metter nuova vita e vigore. Gratissimo costui all’inconcussa fede de’ Reggini, provvide che la lor città, famosa, insigne, e delle più principali di Calabria, tornasse all’antico lustro, per quanto veniva consentito dalla mutata condizione dei tempi. Conobbe di quanto momento sarebbe che Reggio, per sito importantissima, fosse ritenuta e conservata tenacemente nel regio demanio. E con real diploma del dieci maggio del 1465 tornò a dichiararla solennemente di appartenenza demaniale con tutto il suo territorio a perpetuità, come era in antico. E volle che essa città, degna, insigne, antica, con tutte le sue gabelle, rendite, pertinenze, e diritti non potesse mai, nè dovesse in tutto o in parte segregarsi, vendersi, distrarsi, o alienarsi, in qual che siasi modo o titolo, dal regio demanio e dalla corona; anche se ciò fosse in prò dello Stato, o per ragion di dotazioni e maritaggi della real casa.
Volle oltre a questo che Motta Rossa e Motta Anomeri fossero consegnate effettivamente in mano dei Reggini, affinchè in pena della reiterata ribellione, potessero a lor piacere atterrarle con tutte le torri e gli edifizii, spopolarle, bruciarle, e condurre in Reggio la gente. Ed ordinò a’ castellani e capitanii di tali Motte, che in vista di tal privilegio, ed alla semplice requisizione de’ sindaci reggini, facessero libera, reale e spedita consegna di esse all’Università, senza bisogno di altro regio mandato. Ed i Reggini, come tosto ebbero in lor balìa quelle due Motte, dando sfogo all’antico desiderio di vendetta, trasportarono in Reggio tutti gli abitanti di quelle, e le munizioni ed altro che vi trovarono; e poi demolitene le torri e le case vi ficcarono il fuoco.