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   232 libro quinto

Costoro introdottisi nel castello, operarono opportunamente una sortita nella città. Co’ quali azzuffaronsi i cittadini, che armati e risoluti tenevano il fermo; ma non fu lunga la resistenza, perchè la moltitudine rinfusa e disordinata rimase vinta dalle schiere disciplinate de’ nemici, ed andò in rotta e dispersione. Così cadde Cosenza; e de’ suoi cittadini quali furono uccisi, quali imprigionati, quali perseguitati. La città fu messa a bottino, che fruttò settecento mila scudi di oro agli Aragonesi. La caduta di Cosenza si tirò seco quella di tutti i luoghi finitimi; ed il Centeglia, venuto alle mani con Tommaso Barrese fu battuto e fatto prigione. Al vittorioso Barrese furono aperte per conseguenza le porte di Catanzaro; così gli Aragonesi ripreser terreno.

Nella meridional Calabria Reggio non solo non aveva fatta alcuna dimostrazione a favor dell’Angioino, ma si teneva saldissima all’obbedienza di Ferdinando. A Giovanni d’Angiò ubbidiva pertanto molta parte della convicina contrada. Seminara, Motta Rossa, Motta Anomeri, Santagala, Pentidattilo, San Lorenzo ed altre terre e castella erano in potere degli Angioini, ordinati e diretti da Giovanni Battista Grimaldi, che venuto da Genova con Giovanni d’Angiò, era stato da questi fatto suo luogotenente nella Calabria meridionale.

III. Le vittorie degli Aragonesi nelle altre parti di Calabria animarono Reggio a togliersi dal vassallaggio, ed a ritornare alle garenzie demaniali. Un grosso partito di cittadini, traendo frutto delle contenzioni tra Berlingieri Malda castellano, e viceconte di Reggio, col conte Antonio Cardona (contenzioni che ridussero il conte a fuggir della città, e mettersi in salvo in Messina) si levarono a rumore (1462), ed abbattendone le insegne, dichiararono decaduto il Cardona. Ciò fatto, spedirono incontanente a re Ferdinando i sindaci Nicola Gerìa, e Giacomo Foti, perchè esponessero l’avvenuto al Sovrano, ed invocassero la restituzione della libertà demaniale. I sindaci narrarono al re come la lor città, sebbene circondata e tentata dagli Angioini, fosse rimasta sempremai fermissima nella fede della casa d’Aragona. Come, non ostante che re Alfonso avessela venduta ad un Cardona, e ridotta al niente, pure essa città avesse voluto piuttosto portare con rassegnazione le sue sventure, che romper fede al successore per pagarsi de’ mali tratti del padre. Essere ormai cinque anni, dicevano, da che la città era passata, per la morte del conte Alfonso, nelle mani del costui figlio Antonio; ed aver sostenuto in quel tratto increscioso di tempo calamità e miserie senza termine. Imperciocchè il nuovo conte Antonio, tanto per i debiti paterni che suoi, risedeva ordinariamente fuori di Reggio,