Storia di Reggio di Calabria (Spanò Bolani)/Libro quinto/Capo terzo

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CAPO TERZO

(Dall’anno 1432 al 1446.)

I. Cose di Napoli. Morte di Lodovico III. Giovanna conferma ai Reggini i loro privilegi. Morte di lei. II. Alfonso d’Aragona tenta la conquista del Regno. Nuova lotta tra Aragonesi ed Angioini. Pietro Vitale detto il Calabrico. Ranieri d’Angiò entra nel Regno. Napoli cade in potestà di Alfonso. Riunione de’ due regni di Napoli e di Sicilia. Parlamento di Napoli. III. Reggio cede a Ranieri d’Angiò. È espugnata da Alfonso Cardona, a cui re Alfonso concede titolo e dominio di Conte di Reggio. Così questa città vien sottratta al regio demanio. Sua condizione sotto la potestà del Conte. IV. La Calabria da Bagnara a Spartivento è ridotta ad Alfonso da Nicola Melissari. Fatti del Melissari. Alfonso riconoscente gliene rende merito col feudo de Proditoribus. V. Ribellione di Antonio Centeglia. Alfonso viene in Calabria. Il Centeglia gli si sottomette. Condizione di Reggio. VI. I Sindaci Giovanni Fuffuda e Lancilotto Mayrana. Privilegi della città.


I. Ma la dimora in Calabria di Lodovico d’Angiò si era mutata a poco a poco in esilio. Poichè quando egli ebbe voglia di tornare in Napoli (l433), Giovanna non gliel permise in niun modo. Ella non voleva aversi vicino il suo figliuolo adottivo, a fine di poter con più agio metter la sua persona e lo Stato nella balìa di Sergianni Caracciolo. Lodovico quindi dovette cedere senza più a’ prepotenti raggiri della Corte, e propostosi di non più allontanarsi dalla Calabria, si ammogliò colla principessa Margherita di Savoja, che venne quivi a raggiungerlo. Poi per mostrarsi arrendevole alle ingiunzioni della regina, Lodovico mosse guerra a Giannantonio Orsini, ed unito a Giacomo Caldora, assediò quel potente feudatario nella città di Taranto. Fu così investito l’Orsini che versava in presentaneo pericolo di perdere i suoi stati; ma Lodovico preso da una febbre violenta nel novembre del 1434 fu condotto alla morte in pochi giorni. Questo principe era d’indole mitissima e benefica; ed i Calabresi fra i quali visse assai tempo, lo amavan di cuore. Onde rimase in [p. 224 modifica]loro tale affetto per la casa d’Angiò che non venne mai meno nelle guerre successive.

Sin dal 1432 era morto Sergianni Caracciolo, ed Alfonso d’Aragona, il quale a quel tempo stava in Sicilia, era passato ad Ischia colla sua armata. Ma avvedutosi che i cortigiani della regina ed i nobili non avevan l’animo a secondar le sue brame, concluse con lei una tregua di dieci anni, e diede fede di non tornare in Napoli finchè le durasse la vita.

Giovanna II nel 1434 tornò a confermare a’ Reggini il godimento di tutti i lor privilegi, ed ordinò similmente che ove mai Alfonso d’Aragona facesse guerra al Ducato di Calabria, i Reggini durante essa guerra non fossero tenuti al pagamento di alcuna quota della colletta generale; e che intanto di una di esse quote impiegar dovessero la somma alla riparazione e ricostruzione delle mura della città. Ma questa regina, giunta all’età di soli sessantacinque anni, era così estenuata e fiacca di spirito e di corpo che pareva decrepita. Le sofferte sciagure la conducevano inesorabilmente al sepolcro nel febbrajo del 1435. Ella morendo chiamava suo erede al trono Ranieri d’Angiò, fratello di Lodovico III.

II. Dopo la morte di Giovanna II, Alfonso d’Aragona si approntava a contrastare i diritti di Ranieri, fondandosi sulla prima adozione della stessa regina. Mentre i Napolitani, a’ quali era cara la memoria di Lodovico, ubbidirono senza difficoltà a’ desiderii della morta regina, e concordi si dichiararono per Ranieri. Alfonso però che già stava in Sicilia preparato ad ogni evento, deliberò di prevenire l’arrivo de’ francesi. Ma i primi suoi fatti nel reame di Napoli furono infelicissimi, ed in una battaglia navale presso l’isola di Ponza coll’armata genovese, che comandata dall’illustre Biagio d’Assereto, sosteneva le ragioni di Ranieri, Alfonso fu al tutto sconfitto; e fatto prigioniero, depose la spada in mano di Jacopo Giustiniani. Genova allora dipendeva dal Duca di Milano Filippo Maria Visconti, a cui fu mandato Alfonso e gli altri prigionieri. Conseguenza di un abboccamento che Alfonso ebbe col Duca fu che questi due Principi si stringessero tra loro in un’intima alleanza. Alfonso d’Aragona riebbe la libertà, e tornò nel regno di Napoli, che ridiveniva miserabile campo della nuova lotta tra l’Aragonese e Ranieri d’Angiò. Per tre anni consecutivi Isabella di Lorena moglie di Ranieri sostenne con invitto animo la pugna contro re Alfonso; e Ranieri non venne nel reame che nel 1438.

Fiorì a questi tempi Pietro Vitale, detto il Calabrico, monaco basiliano di Reggio. Egli nacque in Pentidallilo; fu prima Abate di [p. 225 modifica]Grottaferrata, poi Archimandrita del Salvatore di Messina. Disputò caldamente e dottamente nel Concilio fiorentino sotto papa Eugenio IV, con Gregorio Ieromonaco della Chiesa alessandrina, sulla collazione del battesimo, giusta il rito latino.

Nel 1440 Alfonso divenne padrone di Napoli, e Ranieri, la cui fortuna l’andava lasciando via via, fu costretto ad uscir del regno prima che terminasse il quarto anno della sua venuta. Papa Eugenio IV però per consolargli la fuga, diedegli l’investitura degli Stati perduti e con solenne cerimonia il coronò re di Napoli. Nel tempo medesimo Alfonso riuniva in un solo i due reami di Napoli e di Sicilia, e faceva chiamarsi Alfonso I Re della Sicilia di qua e di là dal Faro. Eugenio IV, dopo pochi mesi, credendo di apporsi al bene di questo Regno, si accostava ad Alfonso, ed il riconosceva re di Napoli, obbligandosi di mantenergli la corona e di guarentirne l’eredità al suo figliuolo naturale Ferdinando, natogli dalla bellissima e sventurata Margherita de Hijar.

Dopo la partenza di Ranieri, fu prima cura di Alfonso di convocare il Parlamento napolitano, e di far che il suo figliuolo Ferdinando, già da lui legittimato, fosse riconosciuto abile alla successione del Regno. Questo parlamento, che non si riuniva periodicamente, ma quando i Sovrani di Napoli ne vedevano l’opportunità ed il comodo loro, si componeva di due consigli. Era l’uno il Consiglio de’ Nobili e de’ Baroni, a’ quali si aggiungevano alcuni Prelati nella lor qualità di feudatarii, com’erano fra gli altri l’Abate di Montecasino e l’Arcivescovo di Reggio. L’altro era il Consiglio dei deputati delle Università del Regno, fra i quali si comprendevano i Sindaci delle più cospicue città. Ferdinando in effetto fu riconosciuto successore alla corona, ed ebbe l’investitura del Ducalo di Calabria. Egli sposò nel 1444 Isabella di Chiaromonte, figliuola di Tristano di Chiaromonte conte di Copertino, e nipote di Giannantonio Orsini principe di Taranto.

III. La maggior parte delle città di Calabria avevano seguito costantemente Ranieri, e fra queste era Reggio. Alfonso, impigliato in maggiori travagli nel cuore del reame, e nella guerra contro lo Sforza, aveva commesso ad Alfonso Cardona la cura di toglier la Calabria al dominio angioino; promettendo al medesimo che quando gli fosse succeduta l’espugnazione di Reggio, egli non solo gli avrebbe conferito il titolo di Conte di questa città, ma anche il dominio insieme a quello di tutte le altre terre che avrebbe sottratte colla sua industria alla potestà di Ranieri. Il Cardona, animato da tal regia promessa, con sì stretto e prolungato assedio investì Reggio, [p. 226 modifica]che vinceodo ogni ostacolo se ne fece signore. Ma tal vittoria gli costò una grave e pericolosa ferita, e la perdita di un occhio. Entrato in Reggio il Cardona si dimostrò a’ cittadini assai amorevole, e li trattò con affabile confidenza. Re Alfonso con suo diploma del 1443, liberando la sua parola, conferì al Cardona il titolo di Conte di Reggio, e gliene concesse il dominio. Così questo re, sottraendo la nostra nobil città al regio demanio, contro il tenore de’ suoi privilegi, fece che i Reggini scendessero alla qualità di vassalli. Allora Reggio cessò di esser capo di provincia, e tutto il suo territorio fu annesso a quello della provincia di Catanzaro; sì che la Calabria non fu più divisa in tre parti, ma in due, di Val di Crati, e di Calabria Ulteriore. In questa trista condizione durò Reggio per lo spazio di diciannove anni, cioè, come vedremo, sino a quattro anni dopo la morte di re Alfonso.

IV. Questo re compresse e schiantò da per tutto l’anarchia, in cui era caduto il regno nelle passate guerre civili. Gran parte della meridional Calabria da Bagnara a Spartivento, eccetto Reggio, ch’era già in mano di Alfonso Cardona, fu sottratta al dominio angioino, e condotta all’autorità di Alfonso da un valoroso uomo che fu Nicola Melissari. La famiglia Melissari era nel secolo decimoquinto una delle più agiate e note di Fiumara di Muro, terra soggetta prima ad Arrigo Sanseverino, conte di Terranova, poi al conte di Sinopoli Carlo Ruffo. Tanto dal Sanseverino che dal Ruffo avevano ottenuto i Melissari speciosi privilegi, ed erano oltre a ciò assai affezionati alla casa d’Aragona.

Fra i calabresi che si mostrassero più caldi a favore di tal casa fu Nicola Melissari; il quale formatasi una banda di cinquecento uomini ben armati e presti di mano, e fattosi lor capo, scese nel primo tratto in Bagnara, e la occupò dopo breve contrasto (1443). Ivi il numero de’ suoi avanzò a settecento, i quali divenuti più arditi per la riuscita del primo fatto, presero la via contro Scilla. Gli Scillesi, come prima ebber sentore dell’appressarsi delle bande del Melissari, si schierarono animosi fuori del paese a fargli resistenza; ma in breve dovetter piegare al vigoroso urto degli assalitori, che ottennero quel castello senz’altro riscontro. Da Scilla il Melissari, usando la buona fortuna, mosse la sua squadra già forte di mille cinquecento uomini contro Calanna. Ed investendola dal lato di montagna dovette batterla furiosamente per tre dì prima di poterla espugnare. Ottenutala finalmente la mise a sacco, a fuoco, ad uccisione, e la gravò di una contribuzione di tre mila reali. Di là progredì verso Reggio, dove gli fece lieta accoglienza il conte Alfonso Cardona, e [p. 227 modifica]fornì quella gente, che sommava a tremila e duecento uomini, di tutto quanto le fu di bisogno. Uscendo di Reggio il Melissari si cacciò ad osteggiare la Motta San Giovanni che prese senza resistenza, sottoponendola ad una contribuzione di quattrocento reali. Dalla Motta passando per Montebello, che non si era staccato dall’ubbidienza di Alfonso, riuscì a Pentidattilo, dove gli fece molto petto il castello, in cui eransi chiuse e fortificate quindici delle famiglie più aderenti al partito angioino. Ma nulla tenne saldo alle impetuose armi del Melissari, che fece costar molto cara a quel paese la pertinacia in difendersi. Egli pose a bottino i beni de’ sollevati, uccidendo a man salva, predando bestiame, e guastando ogni cosa. Ivi fece sosta il Melissari parecchi giorni per far che la sua gente prendesse ristoro e nuova vigoria. Finalmente si spaziò per San Lorenzo, terra allora assai grossa, e popolata di tremila abitanti; i quali camparono dalla vicina burrasca ad intercessione de’ lor sindaci Salvatore Borruto ed Eugenio Manti. Solo furono sottoposti ad una tassa di tre mila reali, e dovettero per dieci giorni somministrar le provvigioni alla gente del Melissari.

Quando i Bovesi, che si eran pure ribellati, intesero quel ch’era avvenuto delle terre vicine, presero consiglio alla salute loro. E quantunque una parte di cittadini inclinasse a far resistenza, prevalse nondimeno il migliore avviso, che fu di spedire al Melissari una deputazione formata dal loro Vescovo Fra Iacopo da Seminara e da’ più segnalati ed influenti cittadini. Il Vescovo restò mallevadore al Melissari che la città si renderebbe senza ostilità alcuna. E questi promise sicurtà per la vita e per gli averi delle persone; ma però pose al paese una tassa di cinquemila scudi, e chiese una sufficiente provvista di viveri per le sue schiere. Quindi il Melissari si metteva agli alloggiamenti sul piano ch’è di là dal fiume Amendolìa, dopo aver ottenuto tanto e sì celere successo.

Alfonso fu riconoscente al calabrese del gran servigio fattogli, e per rendergliene un’adeguata retribuzione, volle che di parte de’ beni confiscati a’ sollevati si costituisse un ricco feudo, e ne fosse investito il Melissari per se e suoi eredi. Tal feudo fu domandato De Proditoribus, perchè componevasi di beni appartenenti a persone che avevano tradite le loro terre e castella a Ranieri d’Angiò, in pregiudizio di Alfonso.

V. Durante il suo regno Alfonso schiacciò sempre energicamente l’inquieto partito della casa angioina. Solo al principio (1444) fu per qualche tempo disturbato dalia ostinata resistenza fattagli da Antonio Centeglia, già suo vicerè in Calabria, che poi per private ca[p. 228 modifica]gioni gli si era mutato in avverso. E fattoglisi ribelle si fortificò nei suoi castelli di Calabria, e particolarmente in Catanzaro e Cotrone. Come questo intese Alfonso gli mandò contro Paolo di Sangro, ed altri capi di squadra con mille cavalli. Ma il Centeglia si era già messo in sicuro. Per la qual cosa il re ordinò allo stesso Paolo di Sangro ed al suo luogotenente di Calabria Martino Boffa, che andassero a por l’assedio alla città di Cotrone, dove il Centeglia si era chiuso. Ma questi rispose di rimbecco alle armi regie; e scrisse di sua propria mano al re, che quelle castella e terre di Calabria, da lui tenute, aveale conquistate colle sue genti e col pericolo della sua vita contro le armi dell’Angioino; e quel che aveva colle armi conquistato, colle medesime lo avrebbe difeso sino all’ultimo sangue.

Di ciò quanta indignazione sia venuta ad Alfonso, ciascuno sel pensi. Infuocato a vendetta contro l’audace ribelle, deliberò di passare personalmente in Calabria a fiaccarlo. E vennevi, e pose il campo in Belcastro, donde mandò intimazione al Centeglia (il quale colla sua famiglia si teneva chiuso nel castello di Catanzaro) che gli assicurerebbe e vita e libertà, purchè cedendo e presentandosi alla regia presenza, gli risegnasse Catanzaro, Cotrone, Tropea, Precacore, e tutti gli altri luoghi che rispondevano a lui. Ma non vi fu modo che il Centeglia s’inducesse a cedere, e stette sul duro. Il re allora assediò Cotrone, e dopo due mesi la prese di assalto; espugnò anche in seguilo altre castella, e la stessa Catanzaro. Laonde veduto il Centeglia il mal viso della fortuna si arrese ad Alfonso, e gli chiese perdono della sua fellonia. Ed il re il perdonò; ma confiscatigli tutti i beni, e toltogli ogni potere, gli lasciò solo per grazia la città di Gerace.

Alfonso rese la pace e la prosperità a’ Napolitani; protesse le industrie, le arti, le lettere, il commercio in tutte le provincie; e dicono che poteva annoverarsi tra i migliori monarchi del secolo decimoquinto. Quantunque coll’aver ingrandita soverchiamente la potenza baronale a scapito degl’interessi del popolo, avesse preparato per indiretto molta materia alle future turbolenze. Ma Reggio non ha che lodarsi di lui; perchè egli sofferse che questa nobil città col suo territorio cadesse sotto la pressione feudale di un Alfonso Cardona. Onde dall’anno 1443 al 1462, cioè sino al quarto anno del regno di Ferdinando I d’Aragona, Reggio non ebbe più storia. Per tutto quell’infausto periodo di diciannove anni non Sindaci di Reggio conosciamo (tranne quelli del 1446), non Capitanii, non alcun altro uffiziale o regio o municipale che si volesse. Reggio spopolata, ammiserita, ed annichilita dalle passate guerre, non era [p. 229 modifica]più che un oscurissimo castello feudale. Alfonso nondimeno volle che fossero conservati all’Università di Reggio tutti i suoi privilegi, e che nè il Cardona, nè i suoi eredi potessero in modo niuno menomarli.

VI. L’Università di Reggio nel 1446 mandò ad Alfonso i Sindaci Giovanni Fuffuda e Lancilotto Mayrana, i quali tornarono in patria coll’aver ottenuto:

1.° Che i Reggini, anche per pena criminalissima, non potessero esser convenuti in altra Corte fuori di quella della lor città; nè fossero tenuti a riconoscere in tal caso, nè le citazioni del Preside della Provincia, nè quelle della regia gran Corte della Vicaria, o della Camera della Sommaria, o di qualunque altro regio Commissario maggiore o minore. Che perciò i non comparenti non dovessero incorrere in pena alcuna; nè gli uffiziali della città permettessero a’ nunzii ed esecutori di citare i cittadini ad extrahendum, salvo solo il caso di reato di lesa maestà.

2°. Che i cittadini potessero impunemente resistere e non ubbidire a chiunque tentasse di ottenere o avesse ottenuti privilegi, Lettere Patenti, provvisioni, grazie tendenti a derogare a’ Privilegi della città.

3.° Che ad evitare gli errori, gli scandali, e le rapine che si potrebbero commettere in ogni futuro tempo, l’esercito e gli armigeri dovessero far dimora in città; nè i cittadini fossero obbligati a prestare alimenti a questa forza armata, senza il competente prezzo e fuori città; eccetto solo il caso in cui vi facesse residenza la stessa Maestà Sua.

4.° Che i Reggini, per qualunque operazione che facessero o per proprio comodo, o per commerciare, non fossero mai tenuti nell’avvenire di pagare alcun diritto di dogana, di fondaco, di ancoraggio, di fallangaggio, di portolanìa, di passaggio, di peso e misura, di custodia, di passo, di porto, e di gabella o vettigale di qualsivoglia natura. Ed in caso di molestie, che gli uffiziali della città potessero far rappresaglia.

5.° Che dovendo le donne oneste della città recarsi, nelle ore proibite della notte, alle case de’ consanguinei ed amici, massime in tempo di lutto, d’infermità e di nozze, ognuna di esse avesse ad essere accompagnata da due onesti uomini armati a sua tutela.

6.° Che ogni cittadino che avesse ad esser carcerato nel castello della città, non potesse costringersi a pagare per il carcere e la liberazione che soli grani dieci.

7.° Che le donne reggine tanto in agendo quanto in defendendo [p. 230 modifica]nelle cause civili e criminali, non fossero obbligate a comparire in giudizio personalmente, ma per procuratore.

8.° Che la città non fosse obbligata ad altro pagamento ordinario o straordinario fuori delle annuali collette da pagarsi in tre quote, al Natale, alla Pasqua, ed in agosto; e che i cittadini potessero impunemente ricalcitrare a qualunque ordine in contrario.