Storia di Reggio di Calabria (Spanò Bolani)/Libro quarto/Capo primo
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CAPO PRIMO
(Dall’anno 1197 al 1255.)
I. Morte di Arrigo VI. L’imperatrice Costanza, e Federigo erede del trono. II. I Tedeschi nel regno. Consiglio di Prelati al supremo governo, fra i quali l’Arcivescovo di Reggio. Papa Innocenzio III. Federigo si ammoglia. III. Origine della lingua italiana. Lingua romanza. IV. Lingua romanza e greca sono i Normanni. Lingua volgare italiana. Poeti siciliani e calabresi. V. Manifattura dello zucchero. Fiere generali del regno. Landono Arcivescovo di Reggio. Alta considerazione in cui è tenuto da Federico. Sue ambascerie al Pontefice. VI. Atti di Federigo. Gli Ebrei nel Regno. Tumulti di Messina. Martino Baglione stuzzica i Reggini a sollevarsi. Federico in Reggio. I Saracini di Sicilia sono trasportati in Puglia. La Calabria è divisa in tre provincie: Val di Crati, Terra Giordana, e Calabria propria o Sicilia citeriore. Morte di Federigo. Manfredi. Morte di Corrado. VII. Manfredi. Pietro Ruffo, Conte di Catanzaro. Sommosse contro il Ruffo, che è costretto di cedere il castello di Messina, di Reggio e di Calanna a’ Messinesi. VIII. I Messinesi si costituiscono a governo popolare. Si raffermano in Reggio, e tentano di prender Calanna, che il Ruffo avea rioccupato. Ma costui tien fermo, e fortifica Bagnara e Scilla. IX. Lotte in Calabria tra i partigiani di Manfredi e quelli del Ruffo. Giordano Ruffo, nipote di Pietro, combatte con molto vantaggio.
I. Le crudeltà ed esorbitanze commesse da Arrigo VI nella monarchia di Sicilia, eccitarono sin lo sdegno della stessa sua consorte Costanza, la quale essendo di sangue normanno, non poteva comportare l’abbiezione ed esizio dei suoi. Laonde cominciò ella ad aprire il suo animo ai più ragguardevoli e probi cittadini per dar modo e ritegno alle oppressioni dell’Imperatore. Ma costui, tornando di Germania nel Reame (1197), s’infermava per via, e giunto in Messina passava di questa vita.
Arrigo si era reso specialmente odioso all’universale per i balzelli intollerabili, onde aveva gravati i sudditi suoi. Oltre di questo i Tedeschi erano divenuti insolentissimi, e malmenavano in mille guise i poveri abitatori. Sì che l’imperatrìce Costanza, dopo la morte del marito, vedendo quanta noja facesse a’ suoi popoli quella gente straniera, che si trangugiava quasi tutte le pubbliche pecunie, mise bando che tantosto sgomberasse dalla Sicilia e dalla Puglia, nè alcuno Tedesco ardisse di rientrarvi senza espressa licenza di lei. Ma ivi a due anni (1199) Costanza morì, e tutti gli stati di Arrigo cadevano a Federigo suo figliuolo, il quale essendo ancor fanciullo fu dalla madre affidato alla cura e protezione di papa Innocenzio III.
In questo stesso anno il detto Pontefice approvava e consacrava per Arcivescovo di Reggio l’Arcidiacono Giacomo reggino, eletto dal Capitolo della Chiesa Reggina.
II. Dopo la morte di Costanza i Tedeschi da lei cacciati si sollecitarono come famelici avvoltoi a precipitarsi sul regno, ove posero a durissime prove il popolo siciliano. Erano a quell’età la Sicilia e la terraferma tiranneggiate da Marcovaldo, e poi da Guglielmo Capperone, dal Conte Diepoldo, e dal francese Gualtiero Conte di Brienne. Quest’ultimo, avendo in moglie Albina figliuola di Tancredi, aveva pretensioni sul Principato di Taranto, e sulla Contea di Lecce, ch’erano già beni allodiali di esso Tancredi. Nè a rassettare i disordini, ed a comprimere l’insolenza tedesca, valevano le esortazioni e rampogne di Gregorio da Galgano Cardinal di Santa Maria in Portico, e di Riccardo della Pagliara Vescovo di Troja, e Gran Cancelliere di Sicilia. Costoro per commissione del papa, di convenio con Caro Arcivescovo di Morreale, e cogli Arcivescovi di Capua, di Reggio e di Palermo (che dall’Imperatrice erano stati preposti alla tutela ed al Consiglio del picciol re) avevano preso il governo della Monarchia. Tanto increbbe ad Innocenzio la pertinace arroganza de’ Tedeschi, che per darvi alcun riparo fulminò prima di scomunica Marcovaldo e suoi seguaci; e scrisse poi a’ detti Prelati che si accingessero con tutto lo sforzo delle armi a battere e cacciar via quella gente straniera. Lo stesso fece co’ Baroni, Abati e Priori di Calabria, ordinando che ogni domenica e tutte le feste Marcovaldo ed i suoi scherani fossero pubblicamente maledetti. Ma costui faceva poco conto de’ fulmini del Vaticano, e la Sicilia continuava ad esser travagliata aspramente. Onde fu di necessità che Innocenzio si conducesse in persona nell’isola; e con molti Cardinali giunse in Palermo nel mille duecento otto. E trovato che il re era già all’età di anni tredici il persuase a tor moglie, proponendogli Costanza sorella di re Pietro d’Aragona; ed a costei si maritò Federigo nel seguente anno. Non molti anni dopo (1212), lo svevo, eletto imperatore da’ Principi di Germania, passò ivi ad incoronarsi. Appresso ritornò in Sicilia, dove prendendo cura dell’interna amministrazione, riordinò ogni cosa con nuove leggi, e provvide a rilevar lo Stato da’ guasti sofferti.
III. Sotto il suo governo ebbe glorioso principio la nuova lingua volgare d’Italia, e le prime rime italiane son tutte di poeti siciliani. Perilchè non mi sembra in tutto fuor di materia dire sotto brevità le prime origini della nostra favella, nata senza punto di dubbio dalla corruzione della lingua latina. Della quale la prima alterazione avvenne da Augusto in qua, quando gl’Imperatori, intesi a distruggere non la sola repubblica, ma il nome stesso di cittadino romano, sprecavano i diritti di questa cittadinanza a qualunque più barbaro vassallo dell’Impero. Mentre dall’altro lato tante nuove arti, tante nuove e varie fogge di lusso, tanti nuovi costumi indussero nuovi vocaboli e modi di dire, e guastarono il candore del nativo linguaggio.
Partito in due il romano Impero, gran numero di Romani si traslocarono in Costantinopoli, e divennero Greci; intanto che i popoli settentrionali, brulicando da ogni banda a diluvio, calavano tumultuariamente dalle Alpi, e sbranavano le slogate membra dell’Impero Occidentale. I Goti, che opprimevano l’Italia per tutti i versi, volevano parer Romani, ma era tempo gittato. Vandali, Unni, Longobardi, Greci, Saracini, Franchi, Alemanni, e tante altre maledizioni di gente non nostra, non lasciarono angolo alla povera Italia che contaminato non fosse. Tutto era scompiglio, sovvertimento, rinfusione. Arti sino a quel tempo ignorate, stranissime usanze, e favelle diverse ed orribili, scossero radicalmente l’Impero, e ne sconvolsero il viver civile, e domestico e pubblico In mezzo a tanta rimescolanza di cose non poteva al certo serbarsi incontaminata ed intatta la nobile e maestosa favella della Repubblica Romana. Dal latino volgare, balbettato e smozzicato dall’aspra e gutturale pronunzia de’ Barbari, ed affogato ne’ gerghi delle loro varie favelle, emerse una lingua mista, che per esser la nuova lingua parlata dai Romani fu detta romanza. Questo fu il linguaggio che nelle provincie già romane cominciò ad usarsi dal settimo secolo in qua, e che a poco a poco si mise dentro alle scritture, come si parrà a chiunque scorra da Cassiodoro agli autori sussecutivi sino a’ cronisti del secolo undecimo. Ed il dettato latino presso gli scrittori stessi del decimo secolo altro non era che la lingua romanza, dalla quale pigliarono origine e forma il provenzale, il catalano, e l’italico.
IV. E questa lingua romanza cominciò di buon’ora ad aver prevalenza nelle due Sicilie, ulteriore e citeriore, sotto i Normanni, quando col mancar della signoria de’ Bizantini venne ancor meno la loro favella, massime nelle regioni litorane. Imperciocchè ne’ luoghi mediterranei della Calabria, che restavano lunga pezza fuori dell’influenza normanna, continuò a durar tenacissima non pur la greca lingua, ma e molte costumanze civili e religiose. Nè rimase negletta la greca letteratura; che anzi questa era coltivatissima; e dopo i Bizantini, non cessarono nè i Normanni, nè gli Svevi, nè gli Angioini di tenerla in gran prezzo e favore, e d’incoraggirne lo studio. Per tale che non solo i nomi de’ magistrati e di altri pubblici uffizii, come Logoteta, Strategò, Sindaco, Gaito e simili, continuarono ad esser quali erano sotto i Bizantini; ma la stessa lingua aveva ancora molta forza nel volgo, e nella Corte. Ed in greco fu scritto sotto gli Svevi il Codice delle Costituzioni della Monarchia. E ne’ nostri pubblici Archivii dura tuttavia una gran copia di scritture, rogate in greca lingua da’ pubblici attuarii e notai.
Il rozzo latino volgare, che aveva anche corso nelle civili conversazioni, non divenne lingua scritta se non dopo di aver deposto la più parte delle frasi primitive, delle finali consonanti, e delle inflessioni del pretto latino, il che non avvenne in Italia prima del secolo tredicesimo. E più che ogni altro al volgare italico aveva attenenza il latino romanzo, che si parlava nella Sicilia di qua e di là dal Faro, ov’è certo questo volgare essersi scritto prima che in altro luogo d’Italia. Le usuali desinenze in u delle voci siciliane e calabresi ne’ participii passivi e ne’ sustantivi ed addiettivi pur ci additano quelle latine in us, ur, um; le quali con perder solo le lettere s, r, m presero veste italiana. Sicchè i primi volgari poeti toscani, alla guisa de’ siciliani, cominciarono a finire in vocali le parole, loro sottraendo le consonanti finali. Che il primo uso poi della rima volgare l’abbiano fatto i Siciliani ed i Calabresi, ad imitazione de’ Bizantini che vi dominavano, è cosa così manifesta, che non vale indugiarsi a confutare la contraria sentenza di taluni scrittori, che per malnata boria municipale fanno cosa propria l’altrui. A quanto splendore poi, gentilezza ed eleganza sia venuta questa lingua e poesia volgare ne’ tempi di Federigo Re di Puglia e di Sicilia, è cosa conosciutissima nella letteratura italiana. Questo stesso monarca compose gentilissime rime volgari; ed altri chiari rimatori e poeti tra tanti di quell’età, furono Enzo figliuolo di Federigo, Pier delle Vigne, Guido Colonna da Messina, Rinaldo da Aquino, Giacomo dell’Uva da Napoli, Folco da Reggio, Guglielmo da Otranto, Guzolo da Taranto, Iacopo da Lentini, Nina, Stefano da Messina, Mazzeo Ricca da Reggio, Odo Colonna da Messina, Ranieri, Ruggiero, ed Inghilfredi da Palermo, e così per lo simile. Ed è notevole che molla parte dell’antica lingua volgare, quale è scritta negli antichi rimatori, tale è tuttavia viva, fresca ed energica nelle frasi e ne’ vocaboli dell’odierno dialetto dei Siciliani e de’ Calabresi, massime in quello di Reggio, e sue vicinanze.
V. Sotto Federigo furono stabilite in Palermo officine per la manifattura dello zucchero, le cui canne anche crescevano rigogliose in Sicilia ed in Calabria sotto i Normanni; sebbene allora in poca quantità, e non ad uso di traffico, ma solo ad ornamento de’ giardini. Nè Federigo diede sola opera alla prosperità del commercio interno ed esterno, ma provvide ancora a statuir varie Fiere generali nelle principali città del reame. Il che fu determinato in Messina nel Parlamento dell’anno mille duecento trentatrè. Tali fiere furono ordinate in sette città, cioè Sulmona, Capua, Lucera, Bari, Taranto, Cosenza, e Reggio. La fiera di Reggio durava, anno per anno, dal dì della festa di San Luca al primo di novembre.
Intanto sin dal mille duecento ventidue era morta l’imperatrice Costanza; e papa Onorio III, che premeva Federigo alla spedizione di Terrasanta, s’interpose perchè Giovanni di Brienne, re di Gerusalemme, desse in nuova moglie a Federigo la sua figliuola Violante (Iole, o Iolanda); maritaggio che fu poi celebrato in Brindisi a capo di tre anni. E da ciò fu tramandato a’ Re di Sicilia il titolo di Re di Gerusalemme.
Fra i personaggi avuti da Federigo in grandissima considerazione era Landono Arcivescovo di Reggio; del quale si avvalse in molte alte commissioni e casi di stato. Così lo mandò in compagnia di Fra Ermanno Saltza, Gran Maestro de’ Cavalieri Teutonici, a papa Gregorio IX, quando questo pontefice il tempestava a concorrere alla Crociata; mentre Federigo or con una or con un’altra scusa cercava frascheggiarlo, e non uscir de’ suoi Stati. E tornò poi ad inviare al papa questo stesso Arcivescovo insieme con Rinaldo Duca di Spoleto, e con Arrigo Conte di Malta, per onestare che solo per cagion di salute non aveva fatto il passaggio. Di che il papa irritatissimo lo scomunicò, e mise l’interdetto a’ suoi regni. Onde Federigo, a causar maggiori molestie, dovette alfine partirsi (1227); ma Gregorio gliene rese cambio col ribellargli parecchie provincie. Il che come seppe l’imperatore fece immediato ritorno dall’Oriente, e ruppe guerra col papa. Finalmente dopo varii contrasti e fatti d’armi fu bisogno che l’Arcivescovo di Reggio, ed il Gran Maestro de’ Teutonici si recassero più volte in Roma al pontefice, prima di potere trovar modo alla pace.
VI. Dopo questo, volgendo l’animo Federigo all’assestamento e quiete del Regno, commise a Pier delle Vigne che rifacesse in nuovo le Costituzioni dello Stato, per meglio accordarle a’ presenti bisogni, ed a’ tempi. E soccorse all’estinzione di varie eresie che andavano ripullulando nel popolo. A qual uopo volle in particolar modo che l’Arcivescovo di Reggio, e Riccardo di Principato andassero in Napoli, e castigassero con asprezza e severità quegli eretici, che vi si erano radicati, e facevano chiamarsi comunalmente Paterini.
Con Federigo era venuta da Terrasanta una gran quantità di Ebrei, a cui diede licenza ed agio di stabilirsi nei suoi Stati. Costoro si diffusero in picciol tempo per le principali città del reame, e moltissimi presero casa in Calabria, ed in particolar modo in Reggio; la qual città, essendo marittima e propinqua a Messina, offeriva a’ loro traffichi molta facilità. Il perchè divennero fra pochi anni una corporazione di mercatanti assai ragguardevole e prosperosa. Era di que’ di gran Giustiziere del Regno Riccardo da Montenegro; ed essendosi incapricciato di far cose contrarie al tenor de’ privilegi di cui godevano i Siciliani, provocò Messina ed altre città a risentirsene colle armi. A’ tumulti di questa città fu capo ed anima Martino Baglione, il quale per dare estensione e sfogo alla rivolta, venne diviato in Calabria (1234), e stimolò a movimento i Reggini. Ma non trovandovi materia a’ suoi ferri, tornò tosto in Messina, solo traendosi dietro alquanti giovani reggini, appetitosi di novità e d’imprese arrischiate. Questa ribellione prese poi tal radice e proporzione in Sicilia, che rese necessario all’imperatore il recarsi personalmente in varie parti dell’isola, in Messina, ed in Reggio per ammorzar le fiamme che cominciavano a guizzarvi di gran maniera. Ma ogni cosa compresse la venuta di Federigo; ed al Baglione con altri suoi complici fu mozza la testa.
Sotto il costui governo la Calabria fu divisa in tre parti: Calabria propria (e sovente Sicilia citeriore) che conteneva l’odierna provincia di Reggio, e parte di quella di Catanzaro; Val di Grati (Vallisgrata) che abbracciava Cosenza e tutta la parte occidentale di tal provincia; e Terra Giordana, che comprendeva la parte orientale della provincia di Cosenza e di Catanzaro, e la costa della Basilicata sull’Ionio.
Dopo una vita agitatissima di cinquantasette anni Federigo compiva di vivere nel Castelfiorentino di Capitanata (1250). Ed essendo assente in Alemagna il suo legittimo erede Corrado, costituì Manfredi suo figliuol naturale al baliato della monarchia siciliana con assoluto potere ed autorità. Come Corrado ebbe novella della morte del padre si affrettò di venir in Italia, e prender la Corona dei Regno di Sicilia e di Puglia; ma giunto in Lavello improvvisamente morì, non senza forte sospetto di essere stato avvelenato. Lasciava erede del trono Corradino, tenero figliuoletto di due anni.
VII. Alla morte di Corrado aveva cercato prender l’amministrazione del regno il marchese Bertoldo d’Honebruch; ma quando seppe che papa Innocenzio, a cui era venuto appetito di torre la monarchia siciliana alla casa sveva, istigava i baroni regnicoli ad innalzar la bandiera della Chiesa, non gli bastando la vista di sostener tanto pondo di guerra, compose con tutti gli altri baroni e partigiani di affidare a Manfredi la somma del governo. E questi, non ostante che ciò bramasse ardentemente, fece da prima sembianti di non volerlo accettare, ma finalmente vi si lasciò persuadere. La sua amministrazione però non fu che una lotta continua contro il romano pontefice che voleva a tutto potere torre lo Stato agli Svevi.
Viveva a que’ tempi (1254) Pietro Ruffo conte di Catanzaro, il quale, essendo familiare di Federigo, in breve tempo era salito a’ più alti uffizii della Corte; e lo stesso Imperatore lo aveva assunto a Vicerè di Sicilia e di Calabria, subordinato bensì a Manfredi, general Balio del Reame. E seguitando di governar quell’isola dopo la morte di Federigo, non gli dava più il cuore di deporne il comando, e cominciava a tener poco a cura gli ordini di Manfredi. Ed allorchè papa Innocenzio, entrato nel regno contro Manfredi, esortò il conte Pietro di alzar le bandiere pontificie, e dichiararsene suddito, questi non volle per cosa del mondo conformarsi a quanto chiedeva il papa. E parimenti, quando Manfredi insignoritosi di Lucera ricercò il Ruffo di ajuto e consiglio per difendere contro le armi pontificie gli Stati del picciolo Corradino, il Conte, come se trattasse da pari a pari, ad altro non assentì che ad allearsi collo Svevo. E mentre Manfredi, cacciato in rotta il Legato pontificio, era penetrato nella Puglia, il Ruffo senza chiedergliene licenza fece batter moneta in Messina col nome di re Corrado II. Ma questa cupidigia del Ruffo di usurparsi lo Stato fece montare in tal furia i Siciliani, che vennero ad aperta sollevazione, e prime a far rumore e correr all’armi furono Patti e Palermo. Finalmente i Messinesi si levarono in armi, e con tal impeto ed energia si scagliarono al palagio del Conte, il quale soggiornava nella lor città, ch’egli dovette obbligarsi di consegnar loro oltre il castello di Messina, anche i due castelli di Reggio e di Calanna in Calabria, da lui posseduti. A lui fu lasciata libertà di uscir di Messina co’ suoi famigliari, e ritirarsi in Calabria. Ma come prima ebbe voltate le reni, e passato lo stretto, i Messinesi non poterono tenersi di correr da capo al palagio, e darvi il sacco. La qual novella recata al Conte giudicò anch’egli conveniente far disprezzo de’ patti, e si fortificò di buon modo nel castello di Calanna, che non aveva ancora consegnato a’ Messinesi.
VIII. Costoro intanto (1255), sgravatisi della signoria del Ruffo, destinarono di non assoggettarsi nemmeno a Manfredi, e costituironsi a libero governo, creando loro Podestà Iacopo da Ponte, e Capitano delle armi Lionardo d’Altigerio. Poi si affrettarono di prender forte posizione in Reggio, ed andare al possesso di Calanna. Ma il Ruffo, che quivi era, tenne preso un loro ambasciatore, ed un figliuolo di Lionardo d’Altigerio, che per caso si trovava in Calabria. Spedì ancora suo nipote Giordano Ruffo con buona mano di soldati nel Val di Crati, e negli altri prossimi luoghi della Terra Giordana, acciocchè potesse mantener quel popolo sotto la sua fede. Fortificò altresì di muraglie e di presidio i castelli di Bagnara e di Scilla, posti di contro alla Sicilia. E non cessava di vigilare le mosse de’ Messinesi, i quali non sazii di averlo cacciato di Sicilia, e toltogli Reggio, minacciavano di passar prestamente con un esercito ad occupargli gli altri possedimenti di Calabria.
IX. In questo mezzo Manfredi, che ignorava affatto quanto era avvenuto in Sicilia ed in Calabria, aveva spedito al Conte un suo confidente Riccardo di Fortina; il quale intesa in Nicastro la novità delle cose, aveva espulso da quel castello il vecchio castellano Fulcomero Tedesco come di fede dubbia a Manfredi, e messovi in cambio Ruggiero di Fortina suo padre. Ma arrivatogli addosso Giordano Ruffo, a cui facevano seguilo molte brigate di gente stipendiata e ragunaticcia, ricuperò non solo Nicastro, ma fece sostener Riccardo e Ruggiero di Fortina, ed il loro zio Guglielmo, Decano di quella Chiesa vescovile. Fece chiuder Riccardo nella Rocca di Tropea, contro il quale era principalmente sdegnato, perchè avea messo voce in Calabria, che al Conte Pietro avessero i Messinesi tolta la vita. Per la qual cosa i Cosentini si erano chiariti inchinevoli a Manfredi, che sino allora non aveva trovato partito in Calabria. Ma sopravvenendovi Giordano con grossa squadra di armati acchetò ogni tumulto, e confermò nella fede del zio tutta la provincia.