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194 | storia della letteratura italiana |
smorfia che fanno quando si sentono scottare e si sciolgono. La pancia di maestro Adamo, che sotto il pugno di Sinone «sonò come fosse un tamburo», è una felice caricatura; ma è una freddura il dire:
E mastro Adamo gli percosse ’l volto |
Manca spesso a Dante la caricatura, e i suoi versi piú comici non fanno ridere. Perché, a fare la caricatura, bisogna fermare l’immaginazione nell’oggetto comico, spassarcisi, obbliarsi in quello, alzarlo a contromodello. Dante non ha questo sublime obblio comico, non ha indulgenza né amabilitá. Teme di sporcarsi tra quella gente; e se ode, se ne fa rimproverare da Virgiglio; e se ci sta, se ne scusa:
Ahi fiera compagnia! ma nella chiesa |
Il suo riso è amaro; di sotto alla facezia spunta il disdegno, e spesso nella mano la sferza gli si muta in pugnale.
Il riso muore quando il personaggio comico ha coscienza del suo vizio e, non che sentirne vergogna, vi si pone al di sopra e ne fa il suo piedistallo. Allora non sei tu che gli fai la caricatura; ma è lui stesso il suo proprio artista, che si orna del suo difetto come di un manto reale, e se ne incorona e se ne fa un’aureola, atteggiandosi e situandosi nel modo piú acconcio a dire: — Miratemi; — piú acconcio a dare spicco al suo vizio. La bestia non cela il suo vizio e non arrossisce: il rossore è proprio della faccia umana. L’uomo, consapevole del suo difetto, che vi si pone al di sopra, rinuncia alla faccia umana e dicesi «sfacciato» o «sfrontato». Qui la caricatura uccide se stessa: il comico, giunto alla sua ultima punta, si scioglie; e n’esce un sentimento di supremo disgusto e ribrezzo, che è il sublime del comico: la propria abiezione, predicata e portata in trionfo, aggiunge al disgusto un sentimento che tocca quasi l’orrore. Qui Dante è nel suo campo. Il suo eroe è Vanni Fucci. Maestro Adamo è come animale, senza coscienza della sua bassezza;