Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano/Avvertimento II
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Traduzione dall'inglese di Davide Bertolotti (1820-1824)
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AVVERTIMENTO
apposto dal Traduttore Pisano al Capitolo XXXIII del Gibbon.
Eccoci al termine della promessa traduzione di ciò, che è stato pubblicato finora dal Sig. Eduardo Gibbon intorno alla Storia della decadenza dell’Impero Romano. Il Lettore avrà certamente ammirato in quest’opera una erudizione estesa e profonda, uno stile nervoso e vivace, e nell’Autore di essa una mente capace di cose grandi. Auguriamo pertanto al medesimo vita ed ozio per ultimarla; ma lo esortiamo ad essere nel tempo stesso più rispettoso per la Religione divina di Gesù Cristo, e per gl’illustri Campioni che la sostennero coi loro scritti immortali, colla Santità della vita, e bene spesso col proprio sangue. Nuocerà sempre alla fama di uno Scrittore, che parla sovente di una Religione, la quale teme soltanto di non essere ben conosciuta, il mostrare appunto di non conoscerla, e molto più il ravvisarla. Se ciò debba dirsi del Sig. Gibbon si può rilevare da molte annotazioni o staccate od in forma di lettera, che abbiamo fatte negli otto precedenti volumi, e singolarmente dalla solida Confutazione in 2 Tomi in 4.° del Sig. Ab. Niccola Spedalieri, a cui parimenti appartiene il Saggio, da noi inserito nel Tomo terzo. In quest’ultimo Tomo l’A. Inglese sfoga l’antico livore nazionale non tanto contro dei Monaci, quanto contro la stessa primitiva istituzione del Monachismo: e con intollerabile ardire ispira dei dubbi intorno al domma della Trinità Sacrosanta; quasi che mancandoci il memorabile Testo di S. Giovanni1 = Tres sunt qui testimonium dant in coelo Pater, Verbum, et Spiritus S., et hi tres unum sunt = non se ne avesse altra prova. Coloro che son versati nelle scienze sacre, ed ai quali non sono ignote le opere dei Bull, dei Bianchini, de’ Maffei, Calmet ec. non hanno bisogno dei nostri lumi per condannare una critica sì sfrenata. Per gli altri che amano la brevità in cotal genere di discussioni, più delle nostre, abbiamo creduto opportune le riflessioni fatte sopra i due articoli sopraccennati da Monsignor Claudio Fleury2, Autore citato più volto dal Sig. Gibbon, ed a cui non può darsi la taccia di superstizioso o di credulo senza ingiustizia. Ecco pertanto ciò che egli dice dei Monaci primitivi3.
Dopo i Martiri viene uno spettacolo egualmente maraviglioso, e sono i Solitari. Comprendo sotto questo nome i Monaci, gli Anacoreti, e quelli, che nei primi tempi si chiamavano Asceti. Questi si ponno dir Martiri della penitenza, e le lor sofferenze son tanto più maravigliose, quanto più volontarie e più lunghe; poichè in luogo di un supplizio di poche ore, essi hanno portata fedelmente la loro Croce per lo spazio di cinquanta, o sessant’anni. Trattando di essi, mi sono esteso forse troppo, se considero il gusto degli Eruditi, o de’ curiosi, che poco valutano l’orazione, e le pratiche di pietà. Credo per altro, che la vita dei Santi formi una gran parte della Storia Ecclesiastica, e risguardo questi Santi Solitari come il modello della perfezione Cristiana. Essi erano veri Filosofi, come sovente gli chiama l’antichità. Si separavano dal Mondo per meditare le cose celesti; non come quegli Egiziani descritti da Porfirio4, che sotto un sì gran nome non intendevano altro, che la Geometria5, o l’Astronomia: nè come i Filosofi Greci, che si ritiravano per ricercare i segreti della natura, per ragionare sulla morale, o per disputare del Sommo Bene, e della distinzione delle virtù.
I Monaci (ricordevoli dei detti della incarnata Sapienza eterna, incontro a cui altro non sono che importuni gracidatori i Filosofanti del secolo) rinunziavano al Matrimonio, e alla Società degli uomini, per liberarsi dall’imbarazzo degli affari, e dalle tentazioni che sono inevitabili nel commercio del Mondo; per pregare, cioè contemplare la grandezza di Dio, meditare i suoi benefizi e i precetti della santa sua Legge e purificare il lor cuore. Tutto il loro studio era la Morale, cioè a dire la pratica delle virtù: non si disputava, non si disprezzava alcuno, e appena si parlava. Ascoltavano con docilità le istruzioni de’ loro Anziani; parecchi non sapevano neppur leggere, e meditavano la Scrittura sulle lezioni che avevano sentite. Si nascondevano dagli uomini, per quanto potevano, non cercando che di piacere a Dio. La sola fama delle loro virtù e spesso de’ lor miracoli gli faceva conoscere: e noi non sapremmo neppure per la maggior parte, che essi fossero stati al Mondo, se Dio non avesse suscitati dei curiosi6, come Rufino e Cassiano, che sono andati a cercarli nel fondo delle loro solitudini, e gli han sforzati a parlare.
Del restante non possono esser sospetti di alcuna specie d’interesse. Si riducevano a una estrema povertà; guadagnavano col lavoro il poco, che lor bisognava per vivere; e degli avanzi facevan limosina. Taluni avevano delle eredità, che coltivavano colle proprie mani: ma i più perfetti temevano, che l’amministrazione delle masserie e delle rendite non gli facesse ricadere nell’imbarazzo degli affari che avevano abbandonato; e preferivano i lavori semplici e sedentari per vivere alla giornata. Talvolta ricevevano delle limosine per supplire alla tenuità de’ loro guadagni: non vedo per altro che ne dimandassero. Erano fedeli alle osservanze e consideravano come essenziali la stabilità ed il lavoro delle mani. Ciascun Monaco stava attaccato alla sua Comunità e ciascun Anacoreta alla sua Cella, sempre che ragioni ben forti non gli costringessero a uscirne: perchè nulla è tanto contrario alla orazione perfetta ed alla purità del cuore, che si eran proposta, quanto la leggierezza e la curiosità7. Nel tener lontana la moltitudine de’ pensieri, ed in rendere la loro anima stabile e tranquilla si prendevano una tal cura, che schivavano fino i luoghi di bella vista, e le piacevoli abitazioni; e se la passavano la maggior parte del tempo rinserrati nelle loro cellette. Stimavano necessario il lavoro non solo per non essere di aggravio ad alcuno, ma anco per conservare l’umiltà e per fuggire la noia.
Le comunità erano numerose8, e si aveva per massima di non moltiplicarle in un medesimo luogo; sì per la difficoltà di trovar Superiori, come anco per ischivare la gelosia e le divisioni. Ogni Comunità era governata dal suo Abate; e talvolta vi era un Superior Generale che aveva la soprintendenza a molti Monasteri, sotto il nome di Esarco, di Archimandrita, o altro simile: erano però tutti sotto la giurisdizione de’ Vescovi, e in allora non si parlava di esenzione. I Monaci non facevano un Corpo a parte distinto da quello de’ Secolari e del Clero, senza passare dall’uno all’altro. Era cosa ordinaria il prendere i più santi tra’ Monaci, per farli Sacerdoti e Chierici. I Monasteri erano un fondo, in cui i Vescovi erano sicuri di trovar soggetti eccellenti; e gli Abati preferivano di buon grado il vantaggio generale della Chiesa al particolare della loro Comunità9. Tali erano i Monaci tanto celebrati da S. Gio. Grisostomo, da S. Agostino e da tutti i Padri; ed il loro istituto ha continuato, come si vedrà in seguito, per molti secoli a cagione della sua purità. Tra essi principalmente si conservò la pratica della pietà più sublime, e descritta negli Autori i più antichi dopo gli Apostoli10, come nel libro del Pastore, e in Clemente Alessandrino, specialmente nella descrizione, che questi fa del vero contemplativo, da esso chiamato Gnostico. Questa pietà interiore, che sul principio era più comune tra’ Cristiani, coll’andar del tempo si rinserrò quasi tutta ne’ Monasteri. Un giusto numero di tali Monaci, da prescriversi da coloro, che Dio destina al governo dei Popoli, ed alla protezione e difesa di S. Chiesa sarà sempre uno degli ornamenti della medesima non meno, che di uno Stato cristiano.
Dopo la disciplina (prosiegue l’illustre Scrittore)11 consideriamo anche la dottrina degli Antichi, sì riguardo alla sua sostanza, come alla maniera, con cui s’insegnava. La dottrina in sostanza è quella stessa, che noi crediamo ed insegniamo al presente: avete potuto vederla dagli estratti de’ Padri, che ho riferiti, e la vedrete ancor meglio, consultando in fonte le loro opere. Essi hanno primieramente stabilita la Monarchia, cioè l’Unità di Principio sì contro i Pagani, avvezzi ad immaginarsi più Deità, come ancora contro certi Eretici quali erano i Marcioniti e i Manichei, che imbarazzati in trovar la cagione del male, mettevano due principj indipendenti l’uno dall’altro, l’uno buono e l’altro cattivo.
La Trinità è provata contro i Sabelliani, gli Arriani e i Macedoniani. Non già che si sia spiegato questo Mistero, che è incomprensibile alla nostra fiacca ragione; ma si è solo mostrata la necessità di crederlo. È certo che Gesù Cristo è stato sempre adorato dai Cristiani come loro Dio. Ciò si vede dalle Apologie12, dagli Atti de’ Martiri, e dalle testimonianze de’ Pagani medesimi; come dalla lettera di Plinio a Traiano, e dalle obbiezioni di Celso e di Giuliano l’Apostata. È certo altresì, che i Cristiani hanno sempre adorato un solo Dio: dunque Gesù Cristo è un Dio stesso col Padre Creatore dell’Universo. È certo pure, che Gesù Cristo è il Figlio di Dio, e che uno non può essere insieme Padre e Figlio, riguardo a se stesso; il che viene con gran forza dimostrato da Tertulliano contro Prassea. Se così fosse, il discorso di Gesù Cristo sarebbe assurdo e insensato, allorchè dice, che egli procede dal Padre; che il Padre l’ha mandato; che il Padre e lui non sono che una sostanza. Sarebbe lo stesso che dire: Io procedo da me; io ho mandato me stesso; io ed io siamo una sola sostanza. Non può dunque darsi a queste parole altro senso, se non dicendo, che Gesù Cristo è una Persona distinta dal Padre, benchè sia il medesimo Dio. La sua autorità basta per farci credere, ch’ella è così, quantunque non possiamo comprenderne il come.
Il Figlio, essendo Dio, deve esser perfettamente eguale, e perfettamente simile al Padre, e ciò è stato provato contro gli Arriani: altrimenti sarebbero due Dei: un grande e un piccolo: e questo non sarebbe in effetto se non se una creatura, quantunque, perfetta voglia supporsi, e sempre inferiore a quella, che ci dà la Scrittura del figlio di Dio. Contro i Macedoniani13, che ammettevano la Divinità del Figlio, e negavano quella dello Spirito Santo, è stato mostrato, che lo Spirito Santo procede dal Padre, ed è mandato dal Padre egualmente che il Figlio; ma che egli è persona distinta dal Figlio, poichè in nessun luogo si dice, ch’Egli sia Figlio, o che sia generato. Egli è pur nominato nella forma del battesimo: andate, battezzate in nome del Padre, e del Figlio, e dello Spirito Santo. Dunque questo è una terza Persona, ma il medesimo Dio.
In tal guisa i Padri hanno provato il Mistero della Trinità. Non con ragioni filosofiche, ma coll’autorità della Scrittura, e della Tradizione. Non con principii metafisici, da’ quali si suol conchiudere, che la cosa debba esser così; ma colle parole espresse di Gesù Cristo, e colla pratica costante di adorar il Figlio assieme col Padre, e di glorificare lo Spirito Santo assieme col Padre e col Figlio. È vero tuttavolta che hanno ragionato molto sopra tal mistero; perchè a questo venivano sforzati dagli Eretici, che impiegavano tutta la sottigliezza dell’umano discorso per rovesciarlo. Quindi nasce, che i Padri si sono spiegati in varie guise, giusta la diversità delle obbiezioni che volevano sciogliere. Bisognava parlare in una maniera co’ Pagani, nell’altra cogli Eretici, ed in maniere diverse con ciascun Eretico in particolare: e questa diversità di espressioni, di cui i Padri hanno dovuto servirsi secondo i tempi e le congiunture, ha incitato qualche moderno ad abbandonare con troppa leggierezza i Padri Anteniceni per ciò che riguarda la presente materia della Trinità. Credo per altro di aver date ne’ miei dieci primi libri quelle notizie, che bastano per giustificare a sufficienza questi Padri.
Note
- ↑ I. Joan. Cap. 5 N. 7.
- ↑ Discors. 2 sopra la Stor. Eccl.
- ↑ §. 3 al luog. cit.
- ↑ Porph. de Vita Pitag.
- ↑ Trattato degli Studi n. 4.
- ↑ Hist. l. XX n. 3.
- ↑ Cass. Coll. 24 Ist. XX n. 6.
- ↑ S. Basil. reg. fus. n. 35.
- ↑ Ist. l. XIX n. 8 n. 17.
- ↑ Ist. l. 2 n. 44 l. IV. 41.
- ↑ §. XI.
- ↑ Ist. l. III n. 19. XV n. 45.
- ↑ Ist. l. XIV n. 31 Athan. ad Serap.