Spagna/X
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X.
Quella fu la serata più deliziosa di tutto il mio viaggio.
Poco dopo che il bastimento s'era mosso cominciò ad alitare una di quelle aurette gentili che scherzano come la manina d'un bimbo col fiocco della cravatta e coi capelli delle tempie; e da prora a poppa si levò un vocío di donne e di ragazzi, come segue in una brigata d'amici al primo chiocco di frusta che annunzia la partenza per una scampagnata festiva. Tutti i passeggieri si radunarono a poppa, all'ombra d'un'ampia tenda variopinta come un padiglione chinese, e chi sedette sui cordami, chi si sdraiò sulle panche, chi si appoggiò al parapetto, ognuno rivolto dalla parte della torre dell'Oro, per godere lo spettacolo famoso e incantevole di Siviglia che s'allontana e dispare. Qualche donnina aveva ancora il viso bagnato delle lagrime dell'addio, qualche bambino era ancora un po' stordito dallo strepito della macchina a vapore, qualche signore non aveva ancora finito di bisticciarsi coi facchini che gli avevan un po’ strapazzato i bauli; ma di lì a pochi minuti tutti si rasserenarono, si cominciò a mondare aranci, ad accender sigari, a far girare fiaschettine di liquori, ad appiccar conversazione cogli sconosciuti, a canterellare, a ridere; in un quarto d’ora fummo tutti amici. Il bastimento scivolava colla soavità d’una gondola sulle acque chete e limpide, che riflettevano come uno specchio le vesti bianche delle signore; e l’aria portava un gratissimo odore d’aranci dai boschi delle sponde popolate di ville. Siviglia s’era nascosta dietro la sua cinta di giardini; e noi non vedevamo più che un mucchio immenso d’alberi verdissimi, e di sopra la nera mole della cattedrale, e la Giralda color di rosa, sormontata dalla sua statua fiammeggiante come una lingua di fuoco. Via via che ci allontanavamo la cattedrale appariva più grande e più maestosa come se tenesse dietro alla nave e guadagnasse terreno; ora pareva che, pure inseguendoci, si allontanasse dalla sponda; ora che si fosse posta a cavallo del fiume; un momento sembrava che fosse tutt’a un tratto ritornata al suo posto; un momento dopo appariva tanto vicina da far sospettare che il bastimento tornasse indietro. Il Guadalquivir serpeggia a brevi curve; secondo che il bastimento andava di qua o di là, Siviglia appariva e spariva. Ora faceva capolino da una parte, come se si fosse allungata fuor della sua cinta; ora balzava tutt’a un tratto al di sopra dei boschi, biancheggiando come un altopiano coperto di neve; ora lasciava veder qua e là in mezzo al verde alcune striscie bianche, e si nascondeva daccapo, e faceva ogni sorta di vezzi e di civetteríe da donnina capricciosa. Poi disparve, e non la rivedemmo più; e non rimase che la cattedrale. Allora tutti si voltarono a guardare le sponde. Pareva di navigare in un lago d'un giardino. Qui una collina vestita di cipressi, là un poggio tutto fiorito, più oltre un villaggio schierato lungo la sponda; e sotto i pergolati dei giardini e sulle terrazze delle ville, signore che ci guardavan col canocchiale; e qua e là famiglie di contadini vestiti di vivi colori, e barchette a vela, e ragazzi nudi che si tuffavan nell'acqua e facean tomboli e guizzi, strillando e agitando le mani verso le signore del bastimento che si coprivano il viso col ventaglio. A qualche miglio da Siviglia, incontrammo tre bastimenti a vapore a breve distanza l'un dall'altro. Il primo ci venne addosso all'improvviso, in una giravolta del fiume, così che io, non esperto di quella maniera di navigazione, temetti un momento che non si fosse più in tempo ad evitare lo scontro. I due bastimenti si passaron vicini quasi da toccarsi, e i passeggieri dell'uno e dell'altro si salutarono e si gettaron sigari e aranci, incaricandosi a vicenda di portare un saluto a Cadice e a Siviglia.
I miei compagni di viaggio eran quasi tutti Andalusi; così che dopo un'ora di conversazione, io li conosceva dal primo all'ultimo, nè più nè meno che se fossero stati tutti miei amici d'infanzia. Ognuno disse subito a chi lo voleva e a chi non lo voleva sapere, chi egli era, quant'anni aveva, che cosa faceva, dove andava, e qualcuno anche quante amanti aveva avute e quante pecetas portava nella borsa. Io fui preso per un cantante, e non è strano per chi pensi che in Spagna il popolo crede che tre quarti degl'Italiani campino cantando o ballando o recitando. Un signore, vedendo che avevo un libro italiano tra le mani, mi domandò di punto in bianco:
"Dove ha lasciato la compagnia?"
"Qual compagnia?" domandai io.
"O che lei non cantava colla Fricci al teatro della Zarzuela?"
"Mi spiace; ma io non ho mai messo piede sul teatro."
"To'; allora bisogna dire che il secondo tenore e lei si rassomigliano come due goccie d'acqua."
"Bisogna dir così."
"Scusi, sa."
"Non c'è di che."
"Ma lei è italiano?"
"Italiano."
"Canta?"
"Me ne rincresce: non canto."
"È curiosa! A giudicar dalla struttura del suo collo e del suo petto avrei detto che lei doveva avere una stupenda voce di tenore."
Io mi toccai il petto e il collo e risposi:
"Può darsi, proverò, non si sa mai: due delle condizioni volute le ho: sono italiano e ho un collo da tenore: la voce deve venire." — A questo punto, la prima donna della compagnia che aveva sentito il dialogo, entrò nella conversazione, e dopo di lei tutta la compagnia:
"Il signore è italiano?"
"Per servirla."
"Glielo domando appunto perchè ho bisogno d'un piacere. Che cosa voglion dire quei versi del Trovatore che dicono:
«Non può nemmeno un Dio |
"È maritata la signora?"
Tutti si misero a ridere.
"Sì," rispose la prima donna; "ma perchè mi fa questa domanda?"
"Perchè.... non può nemmeno un Dio rapirla a me, vuol dire quello che suo marito, se ha due bravi occhi nella testa, dovrebbe dire di lei ogni mattina quando si leva e ogni sera quando va a letto: Ni Dios mismo podria arrancármela."
Gli altri risero; ma alla prima donna parve così stravagante quella supposta arroganza di suo marito, di affermarsi sicuro anche da un Dio, mentre forse ella sapeva che non aveva avuto sempre l'accortezza di guardarsi dagli uomini; che appena degnò il mio complimento d'un sorriso per far vedere che l'aveva capito. E mi domandò subito la spiegazione d'un altro verso, e dopo di lei il baritono, e dopo il baritono il tenore, e dopo il tenore la seconda donna, e via via, per un pezzo non feci che tradur cattivi versi italiani in pessima prosa spagnuola, con gran soddisfazione di quella buona gente che per la prima volta poteva dire di capire un poco quello che aveva tante volte cantato coll'aria di capire moltissimo. Quando ognuno ne seppe quanto voleva, la conversazione si ruppe; io stetti un po' col baritono che mi canterellò un'aria di zarzuela; poi mi attaccai a un corista, il quale mi disse che il tenore faceva all'amore colla prima donna; poi tirai in disparte il tenore che mi scoperse gli altarini della moglie del baritono; poi discorsi colla prima donna che disse roba da chiodi dell'intera compagnia; ma erano tutti amiconi, e incontrandosi in quell'andare e venire sulla coperta, gli uomini si azzeccavan dei pizzicotti, le donne si mandavan dei baci, gli uni e le altre si scambiavano sguardi e sorrisi che rivelavano intelligenze secrete; e chi solfeggiava di qui, e chi canterellava di là, e chi faceva un trillo in un canto, e chi in un altro tentava un do di petto che finiva in un rantolo; e intanto discorrevan tutti insieme di mille corbellerie. Suonò finalmente la campanella e ci gettammo a tavola coll'impeto di tanti invitati ufficiali a un pranzo di gala per una festa d'inaugurazione d'un monumento. A quel desinare, in mezzo alle grida e ai canti di tutta quella gente, bevvi per la prima volta un bicchiere schietto di quel formidabile vino di Jerez, del quale si cantan le meraviglie ai quattro angoli della terra. Appena l'avevo tracannato, che mi parve di sentire una scintilla scorrere per tutte le mie vene, e la testa infiammarmisi come se l'avessi piena di zolfo. Bevvero tutti gli altri, e a tutti pigliò un'allegria sfrenata e una parlantina irresistibile; la prima donna si mise a discorrere in italiano; il tenore in francese; il baritono in portoghese, gli altri in dialetto; io in tutte le lingue e lì brindisi e canzoncine ed evviva ed occhiate e strette di mano sopra la tavola e giuochi di pedina di sotto e dichiarazioni di simpatia che s'incrociavano in tutti i sensi come le impertinenze in un Parlamento quando destra e sinistra s'accapigliano. Finito il desinare, si salì tutti in coperta, rossi, tronfi, sbuffanti, avvolti in una nuvola di fumo di cigarritos; e là, al lume della luna, che inargentava l'ampio fiume, e copriva di una luce limpidissima i boschi e le colline ricominciarono più clamorose le conversazioni, e dopo le conversazioni i canti, non più di ariette di zarzuela, ma d'operoni coi fiocchi, duetti, terzetti, cori, con accompagnamento di gesti e di passi da palco scenico, intercalati di declamazioni di versi, di racconti, d'aneddoti, di risa sgangherate, di applausi fragorosi; finchè sfiatati e rifiniti, tutti tacquero, qualcuno s'addormentò col viso in aria, qualche altro s'andò ad accucciolare sotto coperta, la prima donna sedette in un canto a guardar la luna. Il tenore russava; io approfittai della buona occasione per andare a farmi ripetere a bassa voce un'arietta della zarzuela: El sargento Federico. La cortese andalusa non si fece pregare, cantò; ma tutt'a un tratto tacque e chinò il viso. La guardai: piangeva. Le domandai che cos'avesse. Mi rispose malinconicamente: — Penso a uno spergiuro. — Poi diede in uno scoppio di risa e ricominciò a cantare. Aveva una voce armoniosa e snella, e cantava con un sentimento come di tristezza amorosa; il cielo era tutto tempestato di stelle, e il bastimento scorreva così placidamente sul fiume che pareva appena che si muovesse; e io pensavo ai giardini di Siviglia, all'Affrica vicina, e a una persona cara che m'aspettava in Italia, e mi pigliava il piantoriso, e quando la donna cessava di cantare, le dicevo: — Canti ancora — e
«Lingua mortal non dice |
Allo spuntar dell'alba il bastimento stava per entrare nell'Oceano; il fiume era immenso; la riva destra appariva appena, in lontananza, come una lingua di terra di là dalla quale luccicavan le acque del mare. Alcuni istanti dopo il sole s'affacciò all'orizzonte, e il bastimento uscì dal fiume. Allora ci si spiegò dinanzi agli occhi un tale spettacolo, che se si potessero confondere in una sola arte rappresentativa la poesia, la pittura e la musica, io per me credo che Dante colle sue più grandi immagini, il Tiziano coi suoi più fulgidi colori e il Rossini colle sue più potenti armonie, non sarebbero riusciti, tutti e tre insieme, a significarne la magnificenza e l'incanto. Il cielo era una meraviglia di color zaffiro senza la macchia d'una nube, e il mare così bello che pareva un immenso tappeto di raso serico; e luccicava al sommo delle lievi increspature che vi faceva l'aura leggerissima, come se fosse tutto coperto di gemme azzurre, e formava specchi e striscie luminose, e in lontananza mandava lampeggiamenti di luce d'argento, e mostrava qua e là alte e bianchissime vele, simili ad ali sornotanti di giganteschi angeli caduti. Non ho mai visto tanta vivezza di colori, tanta pompa di luce, tanta freschezza, tanta trasparenza, tanta limpidità d'acque e di cielo. Pareva una di quelle aurore della creazione che la fantasia dei poeti ci dipinse così pure e così sfolgoranti da non esser più le nostre, al paragone, che un pallido riflesso; ed era più che lo svegliarsi della natura e il ridestarsi della vita; era come una festa, un trionfo, un ringiovanimento del creato, che sentisse espandersi nell'infinito un secondo soffio di Dio.
Scesi sotto coperta per pigliare il canocchiale; quando salii vidi Cadice.
La prima impressione che mi fece fu di mettermi in dubbio se fosse o non fosse una città; poi risi; poi mi voltai verso i miei compagni di viaggio coll'aria di chi domanda che lo rassicurino che non s'è ingannato. Cadice sembra un'isola di gesso. È una gran macchia bianca in mezzo al mare senza una sfumatura oscura, senza un punto nero, senza un'ombra; una macchia bianca tersa e purissima come una collina coperta di neve intatta che spicchi sur un cielo color di berillo e di turchina in mezzo a una vasta pianura allagata. Una lunga e sottilissima striscia di terra l'unisce al continente; da tutte le altre parti è bagnata dal mare, come un bastimento sul punto di far vela, non trattenuto più alla riva che da una catena. A poco a poco si distinsero i contorni dei campanili, i profili delle case, le imboccature delle strade; e ogni cosa pareva più bianco via via che ci avvicinavamo, e per quanto guardassi col canocchiale, non mi veniva fatto di trovare in quella bianchezza il più piccolo neo, neanco sopra gli edifizi, neanco intorno al porto, neanco negli estremi sobborghi. Si arrivò nel porto dove non erano che pochi bastimenti a grande distanza gli uni dagli altri, scesi in una barca senza neppur portare con me la valigia perchè dovevo ripartir la stessa sera per Malaga, e così vivo era il mio desiderio di veder la città, che quando la barca giunse alla riva, spiccai innanzi tempo il salto e caddi in terra come corpo morto, che risenta ancora, ahimè! i dolori d'un corpo vivo.
Cadice è la città più bianca del mondo; e non gioverebbe oppormi che non vidi tutte le città, perchè ho per me la buona ragione, che una città più bianca d'una che è superlativamente e completamente bianca non ci può essere. Cordova e Siviglia non han nulla che fare con Cadice; quelle son bianche come la carta, Cadice è bianca come il latte. Per darne una idea, non ci sarebbe di meglio che scrivere mille volte di seguito la parola «bianca» con una matita bianca su carta azzurra e notare in margine: — Impressioni di Cadice — Cadice è uno dei più stravaganti e graziosi capricci umani. Non son bianchi soltanto i muri esterni delle case: son bianche le scale, bianchi i cortili, bianche le pareti delle botteghe, bianchi i muricciuoli, bianchi i pilastri, bianchi gli angoli più riposti e più oscuri delle case più povere, delle strade più appartate; bianco ogni cosa dai tetti alle cantine, per tutto dove può entrare la punta di un pennello, persino i fori, persino le screpolature, persino i nidi degli uccelli. In ogni casa è un deposito di calce e di bianco, e ogni volta che l'occhio scrutatore degli inquilini scopre una macchietta, si dà di piglio al pennello e si copre. I servitori non sono ricevuti dalle famiglie se non sanno fare l'imbianchino. Uno scarabocchio di carbone sur un muro è uno scandalo, un attentato contro la quiete pubblica, un atto di vandalismo. Potete girar tutta la città, guardar dietro a tutte le porte, ficcare il naso in tutti i bugigattoli, e non troverete che bianco e sempre bianco ed eternamente bianco.
Con tutto questo, Cadice non arieggia nemmeno alla lontana le altre città andaluse. Le sue strade sono lunghe e diritte, e le case alte, e senza i patios di Cordova e di Siviglia. Ma per questo l'aspetto della città non riesce men nuovo e gradevole agli occhi dello straniero. Le strade sono diritte, ma strette, e poichè sono anche lunghissime, e molte attraversano tutta la città, così vi si vede in fondo, come per lo spiraglio d'una porta, una sottilissima lista di cielo, che fa parer quasi che la città sia costrutta sulla sommità d'una montagna tagliata a picco da tutte le parti. Inoltre, le case hanno un gran numero di finestre, e ogni finestra è munita, come a Burgos, d'una specie di vetrina sporgente che s'appoggia su quella della finestra di sopra e sorregge quella della finestra di sotto; così che in molte strade le case sono completamente coperte di vetro, e si vede appena qualche tratto di muro, e par di passare in un corridoio d'un immenso Museo. Qua e là, fra una casa e l'altra, sporgono i rami eleganti d'una palma; in ogni piazza v'è un mucchio lussureggiante di verzura; su tutte le finestre ciuffi d'erbe e ciocche di fiori.
In verità, io ero ben lontano dall'immaginare che fosse così gaia e ridente questa terribile e sventurata Cadice, arsa dagl'Inglesi nel secolo decimosesto, bombardata sulla fine del decimottavo, devastata dalla peste, e poi ospite delle flotte di Trafalgar, sede della giunta rivoluzionaria durante la guerra dell'Indipendenza, teatro di stragi orrende nella rivoluzione del 1820, bersaglio delle bombe francesi nel 1823, e antesignana della rivoluzione che sbalzò dal trono i Borboni, e sempre inquieta e turbolenta e prima fra tutte a lanciare il grido della battaglia. Di tante vicende e di tante lotte non restano che palle di cannone confitte nei muri, poichè su tutte le altre traccie della distruzione è passato l'inesorabile pennello, che copre d'un velo bianco ogni vergogna. E come delle guerre nuovissime, così non vi rimane traccia nè dei Fenici che la fondarono, nè dei Cartaginesi e dei Romani che l'ampliarono e l'abbellirono; quando non si volesse considerar come traccia la tradizione che ci dice: qui sorgeva un tempio ad Ercole, là sorgeva un tempio a Saturno. Ma il tempo ha fatto ben di peggio che togliere a Cadice i monumenti antichi: le tolse il commercio e le ricchezze, dopo che la Spagna perdette i suoi possedimenti d'America; ed ora Cadice giace là inerte sul suo scoglio solitario, aspettando invano le mille navi che venivano un giorno imbandierate e festose a recarle i tributi del nuovo mondo.
Avevo una lettera di raccomandazione per il nostro console, gliel'andai a portare, e fui cortesemente condotto da lui sulla cima d'una torre di dove potei abbracciare con uno sguardo tutta la città. Fu una nuova e più viva meraviglia. Cadice, vista dall'alto, è bianca, tutta bianca e purissimamente bianca come vista dal mare; in tutta la città non v'è un tetto; ogni casa è chiusa di sopra da una terrazza cinta di un parapetto imbiancato; quasi su ogni terrazza si innalza una torricina, pure bianca, sormontata da un'altra terrazza, o da una cupoletta, o da una specie di casotto da sentinella: ogni cosa bianco. E tutte queste cupolette, queste punte, questi merli, che formano alla città un contorno svariatissimo e bizzarro, spiccano e appaiono più bianchi sul vivo azzurro del mare. Lo sguardo percorre tutto l'istmo che unisce Cadice al continente, abbraccia un lunghissimo tratto della costa lontana su cui biancheggiano le città di Puerto real e di Puerto Santa Maria e villaggi e chiese e ville; e spazia nel porto e sull'oceano e pel bellissimo cielo che gareggia col mare di limpidezza e di luce.
Io non potevo saziarmi di guardare quella strana città. A socchiuder gli occhi, appariva come coperta d'un immenso lenzuolo. Ogni casa sembra costrutta ad uso di osservatorio astronomico. Tutta la popolazione, in caso che il mare inondasse la città, come ne' tempi antichi, si potrebbe raccogliere nelle terrazze e starci, salvo la paura, a tutt'agio. Mi fu detto che, pochi anni sono, in occasione di non so che eclissi, in pieno giorno, si vide questo spettacolo. I settantamila abitanti di Cadice saliron tutti sulle terrazze per osservare il fenomeno. La città, di tutta bianca, era diventata di mille colori; ogni terrazza era gremita di teste; si vedeva con un colpo d'occhio, quartiere per quartiere, tutta la popolazione; un mormorío sordo e diffuso si elevava al cielo come il muggito del mare, e un movimento immenso di braccia, di ventagli, di canocchiali rivolti in alto faceva parere che si aspettasse la discesa di qualche angelo dalla sfera del sole. Al momento fissato, si fece un silenzio profondo; appena cessato il fenomeno, tutta la popolazione mandò un grido che parve uno scoppio di tuono; e pochi momenti dopo, la città riapparve bianca.
Sceso dalla torre, visitai la cattedrale, vasto edifizio di marmo, del secolo decimosesto, non certo paragonabile alle cattedrali di Burgos e di Toledo, ma pure d'un'architettura nobile e ardita, e ricca, come tutte le chiuse spagnuole, d'ogni maniera di tesori. Fui a vedere il Convento dove il Murillo, dipingendo un quadro sopra un altar maggiore, cadde dal palco, e riportò la ferita, che fu cagione della sua morte. Feci una corsa nel Museo di pittura, che contiene alcuni bei quadri del Zurbaran. Entrai nel Circo dei tori, che è tutto di legno, e fu costrutto in pochi giorni per offrire uno spettacolo alla regina Isabella. E verso sera andai a fare un giro sur un delizioso passeggio lungo la riva del mare, in mezzo agli aranci e alle palme, dove mi furono segnate a dito ad una ad una le più belle ed eleganti caditane. A me, qualunque sia il giudizio degli Spagnuoli, il tipo femminino di Cadice non parve da meno di quello tanto celebrato di Siviglia. Le donne sono un po' più alte e un po' più grassoccie, e d'un bruno più carico. Qualche osservatore fino credette di poter asserire che ritraggon molto del tipo greco: non so da che parte. Io non ci vidi, salvo la statura, che il tipo andaluso; e bastò per farmi tirare dei sospironi che avrebbero mandato innanzi una barca, e costringermi a ritornare quanto prima potei al mio bastimento, come a un luogo di rifugio e di pace.
Quando rimisi il piede a bordo, era notte, il cielo scintillava tutto di stelle, e l'aria portava or sì or no la musica della banda che suonava sul passeggio di Cadice. I cantanti dormivano, ero solo, la vista dei lumi della città e quella musica e il ricordo dei bei visini caditani mi dava malinconia; non sapevo che far di me; scesi sotto coperta, presi il mio quaderno e incominciai la descrizione di Cadice. Ma non mi riuscì che di scrivere una diecina di volte le parole bianco, azzurro, neve, splendore, colori; dopo di che abbozzai una figurina di donna e poi chiusi gli occhi e sognai l'Italia.