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Le rovine e il gran veglio - X

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Le rovine e il gran veglio - IX Le rovine e il gran veglio - XI
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X.


E siamo di nuovo alla quarta ferita; di nuovo all’ignoranza o alla depravazione dell’intelletto. La trovammo, questa ignoranza, due volte, nel limbo e nel cimitero. Lasciamo la prima, che è il lume che è tenebra: l’ignoranza originale: l’ignoranza di Aristotele e di Plato. La ignoranza attuale la trovammo un’altra volta. O, a dir meglio, la trovarono un’altra volta Virgilio e Dante. Virgilio guidava.1

               E poi ch’alla man destra si fu volto,
               passammo tra i martiri e gli alti spaldi.

I due viatori prendono sempre a sinistra; quella volta presero a destra. Perchè? Si può dire che quello fu come un deviare, un uscir dal solito cammino. Ma il deviare accade una altra volta: appunto nella circostanza dello scendere a trovare quell’altra ignoranza. Gerione è venuto a proda; e sta sull’orlo. Sul dosso di quella fiera hanno a scendere.2 [p. 265 modifica]

               Lo duca disse: Or convien che si torca
               la nostra via un poco infino a quella
               bestia malvagia che colà si corca.
               
               Però scendemmo alla destra mammella,
               e dieci passi femmo in su lo stremo...

Ho io bisogno d’aggiunger verbo? Il rivolgersi a destra per andare alle arche e per venire a Gerione non è per ciò che hanno di comune la froda e l’eresia? E questo non è la depravazione dell’intelletto? La quale non è nell’incontinenza assoluta e nell’incontinenza complicata col mal volere.

Invero se nell’inferno Dante volge quasi sempre a sinistra e nel purgatorio a destra, egli obbedisce al concetto comune che alla destra di Dio sono quelli che a lui si convertono e alla sinistra quelli che da lui si ritorsero; a destra gli agnelli, a sinistra i capretti.3 Il qual concetto ritrovava poi nell’ypsilon di Pitagora, nella qual lettera la parte sinistra è la via del vizio e la destra quella della virtù.4 Dante per il suo cammino nell’inferno va a Lucifero. Il cammino è a sinistra. Lucifero, come si dice comunemente del diavolo, che è alla nostra sinistra al modo che l’angelo è alla destra, e dunque sulla man manca. E qual faccia di lui vedrà prima il viatore? La nera; ossia la ignoranza, la depravazione dell’intelletto, l’intelletto volto al male. Due volte però torce a destra. [p. 266 modifica]Dunque si torce dal diavolo. E chi incontra a destra? Dio. Quale (si parla misticamente), quale delle sue faccie o persone? Quella che siede a destra. Ed è? La Sapienza. Chè il Cristo siede alla destra del Padre, sebbene questa sessione non si abbia a prendere materialmente.5 E, appunto, come s’ha a prendere? In questo modo: che la destra significa la potestà nuova di quell’uomo suscetto da Dio; il qual uomo venne prima ad esser giudicato per venir poi a giudicare.6 È la potestà di giudicare, insomma che è dimostrata da questo essere alla destra; la potestà giudiziaria perchè “il Padre non giudica alcuno, sì diede ogni giudizio al Figlio„.7 Chi non troverà un cenno a questa potestà nel discorso, che si fa tra Dante e Farinata, sulle leggi e sui decreti degli uomini?8 e più che un cenno, nell’esposizione della terribile pena, inflitta da Dio, in cui è così esatto contrappasso?9 Chi fece l’anima morta col corpo abbia anima e corpo sepolti in una tomba eterna, dopo che l’uomo Dio avrà giudicato: chi vide lontano e non vicino e non in sè, veda ora lontano e non vicino, e poi non veda più, dopo il gran giudizio. Ma, sopratutto, chi non affermerà presente allo spirito di Dante questo concetto nell’esclamazione:10

               O somma Sapienza, quanta è l’arte
               che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo
               e quanto giusto tua virtù comparte;

[p. 267 modifica]esclamazione che prorompe avanti il supplizio dei simoniaci? Chi non dirà che Dante abbia voluto riconoscere un’arte, dirò così, speciale della somma Sapienza nella giustizia che si fa di quelli che corruppero l’intelletto, o solo o con le altre potenze dell’anima?

Chè un elemento nuovo si scorge in questi peccatori ultimi: la vergogna. Già in Farinata e Cavalcante si può osservare una sollecitudine per i vivi; per i suoi sbandati, in Farinata, per il figlio, alto d’ingegno, in Cavalcante; che è infinitamente tormentosa per chi giace in tal letto ed è chiuso in tal sepolcro. Non è l’intelletto, il quale nonostante la sua umana eccellenza fu così vano nel dolce mondo; e che ora li tormenta laggiù? Ed è certo l’intelletto che da Malebolge al fondo del basso inferno, aumenta il cruccio dei dannati; come enunzia Virgilio con quel verso che pare ad alcuni un riempitivo:11

               La frode ond’ogni coscienza è morsa;

e invece echeggia all’altro “frode è dell’uom proprio male„, come effetto a causa. Nella reità degli altri peccatori è la pervicacia stolida, come in Capaneo; l’incoscienza animalesca prodotta da un abito che più non si depone, come nei fangosi, e negli avari, e anche nei rei della colpa della gola; il dolore acuto di chi vinto da un punto, smarrì la ragione, come in Francesca: nei fraudolenti è la vergogna. [p. 268 modifica]E qui devo notare, tornando un passo addietro, una particolarità dei bestiali del primo cerchietto. Sono essi tra l’incontinenza e l’ingiustizia, partecipi dell’una e dell’altra in varia misura. Quelli in cui l’incontinenza predominò, è ragionevole supporre che Dante li rappresenti, per questo rispetto del dolersi nel luogo della pena, come i peccatori d’incontinenza. Vediamo invero che ai violenti contro Dio è posta “diversa legge„.12

               Supin giaceva in terra alcuna gente,
               alcuna si sedea tutta raccolta,
               ed altra andava continuamente.

Quelli che vanno, sono i sodomiti. E vien subito in mente la rapina dei lussuriosi. Ma c’è altro. L’andare continuamente ha un senso mistico; significa essere agitato dallo stimolo della coscienza.13 “Non siede, non giace, ma cammina (deambulat) colui che è inquietato dal rimorso della sua coscienza„. In vero Capaneo che giace non è maturato dal fuoco, e colui del sacchetto bianco, che siede, distorce la bocca e trae fuori la lingua, come soleva. Ora quelli che camminano, riconoscono, il loro fallo, sì per bocca di Brunetto che chiama “lerci„ i pari suoi, sì per quella di Iacopo Rusticucci che parla del “dispetto„ che può ispirare la loro miseria e il “tinto aspetto e brollo„.14 E di più, con altra voce e altro cuore, costui apporta una scusa del suo peccato, come Francesca. Amore fu, dice l’una; la fiera moglie mi nuoce, [p. 269 modifica]dice l’altro.15 Il che è segno come d’un vano risveglio dopo un oscuramento della propria ragione vinta dai sensi. Si trova quindi che il rimorso è nei dannati, in cui la ragione fu sopraffatta dal talento, e in quelli, in cui l’intelletto ebbe parte, dirò così, attiva nel peccato.

Ed è in effetto al tutto diverso e contrario; chè nei primi è senza vergogna e senza orror della fama e con un’invocazione alla pietà del vivo e dei vivi; e con la vergogna e con l’orror della fama e col dispetto per il vivo e per i vivi si manifesta nei secondi. Là è l’intelletto sano, come era in Brunetto Latini, che insegnava come l’uom si eterna; come era nelle tre ombre, a cui si voleva esser cortese;16 l’intelletto sano che, troppo tardi, emerge dalla tristizia del senso: qua l’intelletto depravato che ricorda d’essere stato volto a raggiungere il male. Ma è l’intelletto in questi e in quelli che genera il vario e a ognun più convenevole rimorso.

Quello dei fraudolenti è vergogna. Subito nella prima bolgia è Venedico Caccianimico:17

               E quel frustato celar si credette
               celando il viso.

E “mal volentier„ confessa il suo fallo. Nell’altra bolgia uno sgrida:18

                                 Perchè se’ tu sì ingordo,
              di riguardar più me, che gli altri brutti?

E anch’egli confessa le sue lusinghe, dopo che Dante [p. 270 modifica]ha detto il nome di lui. Nella terza è papa Niccolò che dice il suo fallo, dopo avere accusato Bonifazio e non senza accusar poi altri predecessori; e il nome suo lo accenna, non lo dice: fui figliuol dell’orsa; e dopo l’invettiva di Dante springava coi piedi,19

               o ira o coscienza che il mordesse.

Non sembra mostrar vergogna lo sciagurato della bolgia quinta, il quale dice il suo essere, se non il suo nome; ma era, quando parlava, col ronciglio tra le chiome!20 Nè vergogna mostrano i due frati godenti; ma nel cauto discorso di Catalano si vede chiara l’intenzione di nascondere la loro reità:21

               frati godenti fummo e bolognesi;
               io Catalano e questi Loderingo
               nomati, e da tua terra insieme presi,
               
               come suole esser tolto un uom solingo
               per conservar sua pace, e fummo tali,
               ch’ancor si pare intorno dal Gardingo.

Poveretti! sì che Dante comincia col volerli rimbeccare, gl’innocenti uomini solinghi:22

               O frati, i vostri mali...

Ma Caifas si distorce e soffia “nella barba co’ sospiri„.23 Non vuol essere veduto, Caifas. Nella settima bolgia è poi manifesto il pensiero di Dante intorno alla vergogna dei dannati. Vanni Fucci dice [p. 271 modifica]la sua patria, la sua condizione, la sua reità e il suo nome:24

                                        Io piovvi di Toscana,
               poco tempo è, in questa gola fera.
               
               Vita bestial mi piacque, e non umana,
               sì come a mul ch’io fui: son Vanni Fucci
               bestia, e Pistoia mi fu degna tana.

O dunque? codesta vergogna propria di quella disposizione di cui è proprio l’intelletto, dov’è? È qui. Dante dice: “Aspetti un poco questo vantatore. Come è quaggiù sì basso, se non era che un uomo di sangue e di crucci? Ci ha a essere altro, ch’egli non confessa„.25

               E il peccator, che intese, non s’infinse,
               ma drizzò verso me l’animo e il volto
               e di trista vergogna si dipinse;
               
               poi disse: «Più mi duol che tu m’hai colto
               nella miseria dove tu mi vedi
               che quando fui dell’altra vita tolto.
               
               Io non posso negar quel che tu chiedi;
               in giù son messo tanto, perch’io fui
               ladro . . . .

Vanni non si vergogna fin che si tratta di dire della sua vita bestiale e d’uom di sangue: si vergogna per la giunta. E confessa, sì, senza infingersi, questa giunta; ma perchè “non può negare„; e tuttavia vuol mostrare la sua orribile audacia, e drizza “l’anima e il volto„; ma [p. 272 modifica]

                    di trista vergogna si dipinse.

Vanni è reo anche con l’intelletto; e tuttavia non dice la bugia affermando d’essere stato, e d’essere perciò, anche bestiale; della bestialità di Capaneo che non è maturo, com’esso è acerbo; e tuttavia vuol ingannare. Non dice tutta la verità sulle prime; e quando è costretto dal fato comune dei dannati di Dante a non infingersi, allora si sparge nel suo volto di bestia la vergogna dell’uomo. Non dice la bugia affermando d’essere bestiale. Si può supporre con certezza che molti di questi ladri sono coi predoni della riviera rossa nella relazione in cui Caco è coi centauri che là saettano. Hanno una inordinazione di più, quella dell’intelletto, come il centauro dell’Aventino ha in più che gli altri un draco “che affoca qualunque s’intoppa„.26

Nell’ottava bolgia non è la vergogna così forte come nelle altre. Sono eroi e guerrieri per cui la frode fu arte. E del resto sono coperti nella fiamma; e Ulisse e Diomede ubbidiscono a questo scongiuro:27

               non vi movete, ma l’un di voi dica
               dove per lui perduto a morir gissi.

Che mi pare valga: Non v’interrogherò intorno alle vostre colpe, sicchè non ha luogo il “mucciare„. Così Dante per Vanni Fucci, come Virgilio per i due eroi sembrano temere che fuggano per non essere costretti a rivelarsi. E alcuni invero fuggono “chiusi„, pur non tanto che il Poeta non li riconosca.28 E [p. 273 modifica]Guido di Montefeltro non dice il suo peccato se non perchè crede di parlare a un morto:29

               s’io credessi che mia risposta fosse
               a persona che mai tornasse al mondo,
               questa fiamma staria senza più scosse.

Non ha “tema d’infamia„ e pure il suo nome non dice. E il rimorso di costoro è significato anche dall’errar continuo, come lucciole nella vallea.

Nella nona bolgia gli autori di scandoli e di scismi si nomano: il primo d’essi, però, Maometto, perchè crede Dante dannato; e Pier di Medicina, per predire malanno ad altri. E questi e il Mosca e Beltram del Bornio mostrano pure desiderio che di loro vadano novelle nel mondo.30 Nel che credo si debba vedere speranza, più di nuovi scandoli e scismi, che di fama. Il fatto di Geri del Bello è quel di tutti; e Dante così suol parlare, una volta per tutte.31 Geri del Bello vorrebbe che la discordia continuasse e che il suo sangue rifermentasse. E anche i falsificatori si governano in vario modo ed o con sè nomano altri o si dichiarano rei di altra colpa di quella che fu loro apposta, e questa colpa, come l’alchimia, è tale da ammettere alcun vanto.32 C’è, insomma, più o meno vergogna in tutti i dannati di Malebolge; e in alcuni, se volete, punta; ma tutta la trattazione di questa specie di peccatori si conclude (e per me non è caso) con un suggello suo proprio; che è un grande vergognare di Dante. Al quale Virgilio (e non è caso nemmeno questo) parla [p. 274 modifica]con ira.33 Non è caso. Dante non racconta una passeggiata delle nostre solite, in cui avvengono tante cose e si dicono tante parole, come vien viene. Gli accidenti, i conversari, il caso, per dir tutto in una parola, è, in questo viaggio oltremondano, invenzione del Poeta. E ha quindi il suo perchè anche quello che sembra caso. Il fatto è che qui risorge l’ira che Virgilio mostrò contro l’Argenti e contro Capaneo; e che qui si descrive un vergognar di Dante, che anche il duca trova eccessivo:34

               Quand’io senti’ a me parlar con ira,
               volsimi verso lui con tal vergogna,
               ch’ancor per la memoria mi si gira:
               
               e qual è quei che suo dannaggio sogna,
               che sognando desidera sognare,
               sì che quel ch’è, come non fosse, agogna;
               
               tal mi fec’io, non potendo parlare,
               che desiava scusarmi, e scusava
               me tuttavia, e nol mi credea fare.

Dante qui insegna, come sempre. Insegna qui che in vita abbiamo, per non cadere in certi falli o per risorgerne poi, questa vergogna, testimonio della coscienza; vergogna che se non abbiamo da vivi, con frutto, avremo da morti in vano.

Note

  1. Inf. IX 132.
  2. Inf. XVII 28 segg. Nel limbo, Dante non dice se entrò piegando a destra o a sinistra. Tuttavia la sua non fu la solita via; quindi forse fu la destra. E certo esso lascia la selva degli spiriti per andare al nobile castello, e poi torna, per scendere nel secondo cinghio, nell’aura che trema (IV 150, 27) e nella tenebra (151, 25). Non ha forse voluto dire che il castello era a destra, fuor della direzione solita del suo cammino, che prima interruppe e poi riprese? del suo cammino che fu «pur a sinistra, (XIV 126)»? Al mio valentissimo collega L. A. Michelangeli molto esperto di siffatta materia, il problema. Certo per me, e non per lui, «pur a sinistra» significa «solo a sinistra», chè, le volte che mossero a destra Virgilio e Dante, deviarono alcun poco per riprendere la solita direzione subito dopo. Quanto al cimitero, esso in certo modo non conta, come vedremo.
  3. Ev. sec. Matth. XXV 33; Zach. 14, 5; Apoc. 20, 11-13; Rom 14, 10; Ez. 34, 17.
  4. Serv. ad. Aen. VI 136; cfr. p. 3 n. 1.
  5. Per es. Aur. Aug. De symbolo I 16.
  6. Id. ib.
  7. Per es. Aur. Aug. Serm. ad cat. II 7, Hugo de S. Vict. In epist. ad Eph. Q. VII. Ev. sec. Ioan. V.
  8. Inf. X 79 segg. 83 seg.
  9. Inf. IX 125 segg. X 10 segg. 15, 78, 100 segg.
  10. Inf. XIX 10 segg.
  11. Inf. XI 52, 25. Per es. il Tommaseo spiega: «Intendi, o che la frode è tal vizio che le coscienze più dure n’hanno rimorso, o che Virgilio voglia rimproverare i contemporanei di Dante come i più macchiati di frode».
  12. Inf. XIV 21 segg.
  13. Rich. de S. Victore, De erud. hom. inter. 39: Ille ergo deambulet, quem conscientiae stimulus undique exagitat.
  14. Inf. XV 108, XVI 29 seg.
  15. Inf. V 100 segg., XVI 45.
  16. Inf. XV 85, XVI 15.
  17. Inf. XVIII 46 segg.
  18. ib. 118 segg.
  19. Inf. XIX 119.
  20. Inf. XXII 31 segg.
  21. Inf. XXIII 103 segg.
  22. ib. 109.
  23. ib. 112 segg.
  24. Inf. XXIV 122 segg.
  25. ib.130 segg.
  26. Inf. XXV 22 segg. Di ciò, vedi la Minerva Oscura, e più avanti.
  27. Inf. XXVI 83 seg. XXIV 127.
  28. Inf. XXV 147 segg.
  29. Inf. XXVII 61 segg. 66 e segg.
  30. Inf. XXVIII passim.
  31. Inf. XXIX 18.
  32. Inf. XXIX e XXX passim.
  33. Inf. XXX 133 segg.
  34. ib. 133 segg.