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le rovine e il gran veglio | 269 |
dice l’altro.1 Il che è segno come d’un vano risveglio dopo un oscuramento della propria ragione vinta dai sensi. Si trova quindi che il rimorso è nei dannati, in cui la ragione fu sopraffatta dal talento, e in quelli, in cui l’intelletto ebbe parte, dirò così, attiva nel peccato.
Ed è in effetto al tutto diverso e contrario; chè nei primi è senza vergogna e senza orror della fama e con un’invocazione alla pietà del vivo e dei vivi; e con la vergogna e con l’orror della fama e col dispetto per il vivo e per i vivi si manifesta nei secondi. Là è l’intelletto sano, come era in Brunetto Latini, che insegnava come l’uom si eterna; come era nelle tre ombre, a cui si voleva esser cortese;2 l’intelletto sano che, troppo tardi, emerge dalla tristizia del senso: qua l’intelletto depravato che ricorda d’essere stato volto a raggiungere il male. Ma è l’intelletto in questi e in quelli che genera il vario e a ognun più convenevole rimorso.
Quello dei fraudolenti è vergogna. Subito nella prima bolgia è Venedico Caccianimico:3
E quel frustato celar si credette
celando il viso.
E “mal volentier„ confessa il suo fallo. Nell’altra bolgia uno sgrida:4
Perchè se’ tu sì ingordo,
di riguardar più me, che gli altri brutti?
E anch’egli confessa le sue lusinghe, dopo che Dante