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le rovine e il gran veglio 271

la sua patria, la sua condizione, la sua reità e il suo nome:1

                                        Io piovvi di Toscana,
               poco tempo è, in questa gola fera.
               
               Vita bestial mi piacque, e non umana,
               sì come a mul ch’io fui: son Vanni Fucci
               bestia, e Pistoia mi fu degna tana.

O dunque? codesta vergogna propria di quella disposizione di cui è proprio l’intelletto, dov’è? È qui. Dante dice: “Aspetti un poco questo vantatore. Come è quaggiù sì basso, se non era che un uomo di sangue e di crucci? Ci ha a essere altro, ch’egli non confessa„.2

               E il peccator, che intese, non s’infinse,
               ma drizzò verso me l’animo e il volto
               e di trista vergogna si dipinse;
               
               poi disse: «Più mi duol che tu m’hai colto
               nella miseria dove tu mi vedi
               che quando fui dell’altra vita tolto.
               
               Io non posso negar quel che tu chiedi;
               in giù son messo tanto, perch’io fui
               ladro . . . .

Vanni non si vergogna fin che si tratta di dire della sua vita bestiale e d’uom di sangue: si vergogna per la giunta. E confessa, sì, senza infingersi, questa giunta; ma perchè “non può negare„; e tuttavia vuol mostrare la sua orribile audacia, e drizza “l’anima e il volto„; ma

  1. Inf. XXIV 122 segg.
  2. ib.130 segg.