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La convalescenza è felicemente finita; questa volta non è un sogno l’uscita dalla sinistra dimora che tuttavia, forse per lo stesso dolore e lo stesso sangue che ci si lascia, diventa tristemente cara. È l’alba della terza domenica dopo Pasqua: un’alba che è tutta una rete sfolgorante di suoni di campane e di canti d’usignuoli. Il rumore della città che si desta ha pur esso qualche cosa di armonioso, di fluviale; tutti gli uomini, oggi, hanno riaperto gli occhi con letizia e quelli che già camminano sono come ragazzi in vacanza. Io non posso più restare a letto: mi sollevo, suono. Lina accorre, allarmata.

— Lina, io voglio alzarmi; io voglio andar via.

La donna, tutta bianca e profumata come un giglio, mi tasta il polso.

— Eppure febbre non ce n’ha! Buona; non vaneggi. Si rimetta giù: le porto il caffè.

— Lina, mi dia almeno un giornale.

Ecco, col caffè ristoratore, un giornale della sera avanti; la prima escursione si fa nella terza pagina, la seconda attraverso la cronaca cittadina, la terza nell’ultima pa-