Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
— 248 — |
di metallo. Io indico la torta che voglio comprare. La donna l’avvolge, la lega, mi dice:
— Cinquantanove lire e trenta centesimi.
È un po’ cara; ma non voglio fare brutta figura: traggo il portamonete per pagare; e questo portamonete è una scatola di fiammiferi.
Eppure è lo stipendio ultimamente riscosso da mio marito. L’uomo, al banco, accetta la strana moneta; ma dev’essere un sovversivo perché dice con aria tragica:
— Ecco come lo Stato paga i suoi funzionari.
E mi restituisce, contandoli uno per uno, sessantun fiammiferi.
Nel medesimo tempo la luce si spegne; un avventore seduto in un angolo della pasticceria, al quale non avevo badato, esclama con voce ironica e trionfante:
— Questo, a casa mia, non succede, posso giurarvelo.
Io riconosco la voce: è quella di un mio vecchio amico, scapolo impenitente, che si vanta di vivere come gli uccelli dell’aria: senza casa, senza impegni, senza denari.
— Come? — domando. — Se lei non ha casa, la luce certo non ci si può spegnere.
Sempre al buio, egli ribatte:
— Lei si sbaglia, illustre amica. Io ho la