Simpatie di Majano/VIII
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VIII.
Andiamo dunque al bagno di Majano, poichè Lei si contenta di andarci in compagnia: quanto all’andare in bagno, è un altro paio di maniche: poichè Ella è gelosa di sè stessa quanto Diana, e sarebbe capace di rifiutarsi anche a Tiziano se questi risorgesse dalla tomba a supplicare per averla a modello.
A Vienna invece il pittore Mackart mette insieme ogni anno un gran quadro di nudi femminili e le signore viennesi fanno a gara per entrarci, con una parte almeno del loro vero, se, come accade, il tutto non è degno del pennello....
Il bagno di Majano, quantunque sia all’aria aperta, le offrirebbe tutte le garanzie di perfetta solitudine: è nascosto ai piedi di due colline boschive, e rinchiuso in un vasto recinto di muraglia dove non si penetra senza chiave. Laggiù Ella potrebbe affidare il suo bel corpo all’acqua limpida senza tema di qualche indiscreto Atteone, solo visibile all’occhio di Dio e dei volatili.
Il proprietario di Majano è inglese: e però preferirebbe di affogare piuttosto che vivere a secco: e però s’era provvisto di diverse vasche nella villa dove l’acqua per bagnarsi e il sole per asciugarsi non gli mancavano: ma un pelaghetto d’acqua viva e corrente, abbastanza ampio e profondo per potervi nuotare, era il suo sogno.
Pochi sogni di noi miseri mortali diventano realtà: ma lui fu così fortunato che il suo sogno è da qualche anno un fatto compiuto. Fra la collina di Majano e quella dove egli ricostruì il castello di Vincigliata scorre il torrentello di Mensola; sì signora, la Mensola del Boccaccio. E dico scorre, perchè quantunque non nasca da un ghiacciaio, il torrentello non è mai affatto sprovvisto d’acqua: e questa è sempre purissima per essere il letto roccioso.
Il proprietario di Majano trovò anche il bacino bello e fatto: un bacino storico, un bacino scavato nel seno del vivo macigno, poiché lì si sfruttava un tempo la famosa cava di pietre detta delle colonne.
Giacchè, mia signora, io non le ho ancora detto che qui a Majano siamo in un paese classico, non solo per la filosofia e per la poesia, ma anche per la storia dell’arte.
Sulle rive dell’azzurro Danubio... non corra al pianoforte: il famoso waltzer lo suonerà quando avrà finito di ascoltare il mio chiacchiericcio: e vi aggiungerà anche Bavardage... per ora mi stia a sentire.
Chi viaggia lungo la riva o fra le rive dell’azzurro Danubio, quando, scendendo da Vienna si avvicina alla capitale dell’Ungheria, nel punto dove il fiume prende, con un gomito, la direzione da tramontana a mezzogiorno, vede le grandiose rovine di Vicegrad: grandiose e bellissime, fra quello che i Turchi e gli Austriaci si compiacquero di non distruggere e quello che ora vi rifabbricano gli Ungheresi. Vicegrad era nel secolo XV la Versailles dei Re d’Ungheria, e fra gli altri vi tenne corte splendida Mattia Corvino, uno dei principi più generosi tra i fautori del rinascimento intellettuale ed artistico.
Fu appunto alla corte di Vicegrad che un glorioso artista di Majano, Benedetto, si diede all’arte della pietra e dei marmi, dopo avere esercitato quella più modesta della tarsia in legno. Poichè il Vasari è uno dei pochi storici dell’arte che si leggono con diletto, Ella può consultarlo a questo proposito senza paura di sbadigliare; e vedrà il come e il perchè Benedetto si convertisse a un’arte che era per lui arte di famiglia, arte naturale del suo paese.
Arte di famiglia:
L’avo di Benedetto da Majano, dopo aver esercitato a lungo l’arte della pietra nel suo villaggio, scese giù a Firenze e vi aperse bottega di scalpellino: voleva che suo figlio Giuliano facesse il notaio, ma l’istinto fu più forte della volontà paterna, e Giuliano diventò il celebre Giuliano da Majano; Benedetto imparò l’arte da suo zio Giuliano e quando in Ungheria volle convertirsi dal legno alla pietra si rivelò subito grande scultore. Pur troppo i lavori da lui fatti per Mattia Corvino non sopravvissero alle rovine successive di Vicegrad: ma di lui, come di suo zio, Ella ha veduto a sufficienza lavori in Toscana, a Roma e a Napoli.
La scultura, il lavoro della pietra è l’arte naturale di queste colline; Fiesole, Majano, Settignano, Rovezzano, sono tutti nomi celebri nella storia della scultura: scultori i migliori, scalpellini eccellenti moltissimi, di generazione in generazione, perchè il suolo è pietra da lavoro: i bambini di questi villaggi si trastullano cogli scalpelli e da giovinetti sono già maestri nell’arte di lavorare la pietra. Qui, al Castello di Vincigliata, e così a Firenze nella facciata del Duomo Lei può persuadersi che questi figli della collina hanno la scultura nel sangue anche ai nostri giorni: se poi vi aggiungono lo studio, diventano presto eccellenti artisti.
Il monte Ceceri, che va su quasi a picco fra Majano e Fiesole, è tutto un ammasso di bella pietra arenaria, che secondo il colore si distingue in bigia e serena, secondo la grana in ruspa e fine, secondo la resistenza in forte e tenera. I ripidi fianchi del monte sono continuamente tormentati dalle mine, dai picconi e dagli scalpelli: e dalla base al vertice sono aperte nel dantesco macigno fiesolano una quantità di cave, disposte a piani obliqui, le une sulle altre: è un labirinto di escavazioni e di burroni, dove chi non è pratico smarrisce facilmente il sentiero serpeggiante: visitato da vicino è ricco di pittoresche sorprese: perchè, essendo l’ammasso un aggregato di massi separati da sottili infiltrazioni di molle fanghiglia che dicono bolo, conviene lasciare a sostegno delle vôlte in ciascuna cava grossi pilastri di rozze proporzioni, di linee irregolari e capricciose. E in questa o in quella cava si raccolgono in seno alla pietra tagliata stagni d’acqua purissima, così pura di materie sedimentali che è molto rara in tutta la montagna la più piccola traccia di stalattite.
Visto il monte Ceceri da lontano, le aperture delle cave appaiono ordinate come i palchi d’un teatro da giganti.
In ciascun masso si trovano tutte le varietà della pietra: perchè gli strati più esterni, per l’azione dell’aria e dell’acqua, diventano bigi, ruspi e forti, mentre le interne viscere restano tenere, fini e serene. E appunto per essersi già temprata all'azione degli elementi climaterici, per ragione di omeopatia (direbbe Lei che ci crede alla medicina dei delicati) le pietre bige si adoperano dagli architetti nell’esterno degli edifizi, mentre le serene, che facilmente soffrono dall’aria e dall’acque, adoperate dove ne hanno riparo, ricevono per la finezza della grana le più delicate impressioni dell’ornato e fino il pulito quasi marmoreo.
Colle sue belle varietà il monte Ceceri ha dato materiale a molti fra i più insigni monumenti di Firenze, come colla sua umile pietra morta, gialliccia e porosa, dà pavimenti e vôlte refrattarie ai forni da pane e ai camini.
La pietra bigia servì nell’esterno del palazzo Pitti, del palazzo Giacomini a San Michelino, del palazzo Strozzi da Santa Trinita, di quello di Pier Capponi in via Larga, del palazzo Gondi, e di moltissimi altri.
La pietra serena per le Logge degli Uffizi e di Mercato Nuovo, per le colonne di San Lorenzo e di Santo Spirito, per la cappella dei Gaddi in Santa Maria Novella, per il coro dell’Annunziata, per alcune porte a Pitti.
La pietra del fossato, privilegiata fra le pietre serene per il colore azzurrigno e per la durata, servì nelle cappelle di Santa Croce e a Michelangelo per la libreria e la sagrestia di San Lorenzo.
E lì vicino, sempre nel tenimento della villa di Majano, vi è la cava di Trassinaia, donde per apposita deliberazione del comune di Firenze furono tratte le pietre che servirono alle leghe nella fabbrica di Santa Maria del Fiore sotto la direzione di Filippo Brunelleschi. Questi, come risulta dai documenti dell’opera del Duomo, si recava più volte a Trassinaia, cavalcando una mula adatta a quei dirupati sentieri, per sorvegliare l’estrazione e il taglio di quelle pietre. Nessuna cura pareva troppo minuta al grande architetto per assicurare il successo della sua opera gigantesca: a questa è legato il suo nome immortale, ma a me piace che il proprietario di Trassinaia abbia voluto ricordare le sue visite fra questi colli a cagion della cupola, ponendo il suo busto fedelmente ricalcato da ritratto autentico, nel suo Castello di Vincigliata.
Si può dire che Fiesole e Firenze vivono da secoli colla dura carne di monte Ceceri, il quale pareva così inesauribile al Boccaccio da fargli accettare il pregiudizio d’una continua vegetazione della pietra, e ancora nel secolo scorso convenne a insigni naturalisti adoperarsi a combattere la credenza e a dimostrare il contrario.
Il governo granducale non ci credeva però; e dichiarò bandite le cave migliori, cosicchè non si poteva trarne pietre senza il regio permesso. La cava che ora il proprietario di Majano ha cambiata in bagno, era fra le privilegiate e conosciuta come cava del Mulinaccio, da un mulino che le sta presso sulle dirupate e fronzute sponde della Mensola; ma più come cava delle colonne perchè nel 1817 ne furono levate le colonne della Cappella dei principi in San Lorenzo; così nel 1833 l’architetto Poccianti ne trasse il pietrame per la nuova scala di palazzo Pitti.... Ora limpide acque dalle tinte azzurra o verdognola secondo l’ora del giorno, iridescenti d’argento quando il venticello ne accarezza la superficie, riempiono la grande vasca: a ponente paurose rocce di cupo colore, variegato dai grigi filoni dell’arenaria, si innalzano a picco e in qualche punto sporgono così da formare come l’ingresso d’una oscura grotta: il caprifoglio, l’ellera, giovani querce, tutte le pianticelle salvatiche che hanno potuto metter radice nei crepacci spenzolano i verdi rami dall’alto. Dall’altra parte una solida muraglia separa il bagno dal letto della Mensola irto di macigni: e il proprietario non ha trascurato di rivestire di lieta vegetazione la nudità del muro: dove c’è un po’ di piaggia ha piantato un boschetto di sempreverdi: e in mancanza di ninfe, una schiera di ninfee sporge a fior d’acqua le tonde foglie che si cullano sotto il bacio dell’aria e del sole, e spiega le corolle dai petali color d’avorio e dal seno giallo come oro fiammante: vi nidificano in pace le anatre e vi si moltiplicano i pesciolini; e l’omaggio di fiori freschi e del lumicino acceso non manca alla vecchia Madonna che un tempo proteggeva dalle frane i lavoratori della pietra. Da ogni lato, al di là del torrente, l’erta collina di Vincigliata vestita di boscaglia limita l’orizzonte e racchiude con una scena di verde l’invidiabile solitudine.
E traverso la collina sono praticati comodi sentieri per i quali fra le ombre si può passeggiare da Majano a Vincigliata e un bellissimo ponte a un arco, tutto di pietra, attraversa il letto della Mensola.
Il vasto e rigoroso recinto che scendendo e risalendo l’erta di colli custodisce un grande spazio di bosco tutto intorno al bagno, permette agli usignoli e agli altri uccelletti canori di vivere in pace colà ed essi rallegrano colle più piacevoli variazioni della loro musica gli echi del monte.
Il bosco ogni anno diventa più folto e più bello rispondendo alle amorose e generose cure del proprietario, il quale è grande amico delle Driadi e delle Oreadi, come delle Nereidi e delle Naiadi: e a queste ultime ha consacrato, appunto in seno al bosco, una grotta graziosa, dove si raccoglie in un bacino il limpido e perenne umore cui si dissetavano un tempo gli scalpellini delle cave circostanti.
Ed ecco come, mia signora, il bagno delle colonne è diventato una delle più squisite fra le delizie di questo privilegiato Majano: il corpo vi trova refrigerio nelle acque, i polmoni vi respirano l’aria imbalsamata dagli effluvi delle piante resinose che crescono nel bosco, dalla fragranza delle erbe odorifere che fanno cespuglio lungo i sentieri; lo spirito vi ritrova la quiete e il riposo nella solitudine; e il cuore batte con gagliardia, la vita si rinnovella di forze, l’essere si rinfocola di nuova felicità e.... torna la tentazione di pronunziare quelle tali parole che Lei con tanta saviezza mi ha impedito di pronunziare.... È inutile che Ella rinnovi quel tal gesto.... ho finito per oggi: e come sempre, anche oggi mi protesto
Suo devotissimo.