Signorine povere/Prima parte/I

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Prima parte Prima parte - II

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I.

Un mucchio di curiosi e non pochi conoscenti, venuti là per rendere gli ultimi onori alla defunta signora Olimpia Valmeroni, aspettavano davanti al portone, intorno al carro funebre.

Sotto l’atrio si vedevano alcune corone di fiori freschi con i nomi dei donatori ricamati su i larghi nastri. La morta era ancora in casa, nel bell’appartamento del primo piano dove abitava tutta la famiglia Valmeroni. I parenti e gli amici più intimi erano saliti.

Là nell’elegante salotto, circondate da un’altra mezza dozzina di corone, sedevano dieci o quindici persone discorrendo tranquillamente dell’età della morta: novantotto anni — delle sue qualità, della sua vita, del suo spirito e del vuoto che lasciava in quella casa nonostante la grave età.

Una ragazza giovanissima, ma lunga, ossuta, male infagottata in un vecchio abito nero tirato [p. 10 modifica]fuori per la circostanza, offriva dei rinfreschi che nessuno toccava.

Un signore la interrogò su gli ultimi momenti della morta. Ella rispose con brevi parole, un po’ seccamente e sopra pensiero.

La «nonnina» (era la sua bisnonna) doveva essere morta improvvisamente, durante il sonno poichè nessuno se n’era accorto. Il giorno prima stava bene; aveva mangiato di buon appetito e si era coricata tardi, come al solito. La mattina, portandole il caffè, l’avevano trovata morta. La donna di servizio che dormiva nella camera accanto non aveva udito nessun rumore.

— Chi le portava il caffè? — domandò una vecchia signora, piccola e tozza, dal viso giallo. — Tu Angelica?

— No, signora Tadini; io non ci andavo quasi mai. Di solito era mia sorella Eugenia; ma ieri l’altro fu la Maria...

— Ah! la Maria Clementi... la vostra cugina... Avevo sentito che era andata maestra a Saronno — osservò un’altra signora, che portava con molta soddisfazione un abito di drappo nero tutto guarnito di volpe azzurra.

— Sì, due anni fa. Adesso ha ottenuto il posto a Milano...

— Angelica! — chiamò una voce affannata dal corridoio. — Angelica! La fanciulla depose la bottiglia dell’acqua di cedro sulla tavola accanto al vassoio con i bicchierini, e se ne andò. [p. 11 modifica]

I tristi rumori degli ultimi preparativi invasero la casa: passi affrettati e pesanti, voci soffocate, scoppi di singhiozzi, e quei terribili colpi di martello sui chiodi della bara.

— Questo che piange così è il signor Leonardo, il padrone di casa — disse la Tadini ad un vecchio signore che sedeva vicino a lei.

— Poveretto! Egli voleva un gran bene alla sua nonna. La chiamava mamma; e difatti, gli era stata più che madre per l’affetto che gli portava.

— Sì, sì — brontolò una donnetta dal viso rubicondo — è un gran dolore perdere i nostri cari; ma quando sono arrivati a quell’età è una sciocchezza di piangere così. Novantotto anni!... caspita, non bastano? Eh! Pretenderebbero forse che i loro parenti campassero eternamente, mentre tanti altri muoiono giovani come i miei, per esempio?

Questo sproloquio passò senza risposta nella disattenzione generale.

Nell’anticamera si sentiva uno stropicciar di piedi, un biascicamento di preci. Di tratto in tratto qualcuno singhiozzava; poi, voci tenere o gravi raccomandavano la rassegnazione.

— Ecco, portano la bara; andiamo — disse la Tadini alzandosi.

Due necrofori spalancarono l’uscio del salotto, presero le sei corone e sparirono.

La padrona di casa, la signora Elisa Zucchetti, [p. 12 modifica]moglie di Leonardo Valmeroni, apparve sulla soglia. Era in lutto strettissimo, sempre bella ed elegante, con un sorriso quasi gaio che non s’addiceva molto alla circostanza. Ella rivolse parole cortesi alle persone ivi convenute per onorare la sua famiglia. In quel momento entrarono pure i signori Pagliardi marito e moglie venuti da Pavia per assistere ai funerali della defunta. La signora Pagliardi era sorella di Elisa Valmeroni. Le due donne si abbracciarono. L’avvocato Amilcare Pagliardi strinse la mano alla cognata pronunciando a fior di labbro qualche parola di condoglianza, mentre l’ironia lampeggiava nei suoi occhi.

— E mia figlia? — domandò la Valmeroni. — Non è venuta la mia Antonietta?

— Oh, sì! L’Antonietta è qui. Eugenia l’ha fermata nell’anticamera.

Una fanciulla bruna, dalla fisonomia intelligente, dagli occhi luminosi entrò nel salotto e si buttò nelle braccia della signora Elisa.

— O mamma mia! Cara mamma!

E la baciava con tenerezza.

Le persone che si trovavano fin da prima nel salotto scambiarono saluti e strette di mano con i sopraggiunti, poi tutti insieme passarono nell’anticamera.

Era questa uno stanzone grandissimo, che sembrava quasi piccolo per la quantità di mobili d’ogni stile e di strani oggetti che [p. 13 modifica]l’ingombravano. Tra l’altre cose si notava un grande organo, coperto da una tela greggia. In quel momento lo stanzone era quasi affollato e da quella folla usciva un ronzìo confuso, composto di bisbiglii, di preghiere, di fruscii.

— Chi prega così? — domandò ad un suo vicino l’elegantissima signora Angeri mentre si alzava lo strascico per non sfregarlo sull’ammattonato.

— Sono i lontani parenti venuti da Lecco, o meglio, da Malgrate, culla dei Valmeroni — rispose una di quelle vecchie che in dati momenti escono non si sa da dove e sanno la storia di tutti.

I necrofori scendevano faticosamente le scale con la pesante bara. Olimpia Gritti vedova Valmeroni, la forte e nobile donna, usciva per l’ultima volta dalla casa dove aveva tanto amato, lavorato e sofferto.

— Oh! mamma mia, non lasciarmi! — gridò Leonardo Valmeroni buttandosi sulla cassa, cercando d’impedirne il trasporto.

I necrofori si fermarono; vi fu un momento di scompiglio.

— È svenuto? — domandò il dottor Monti, che era il medico della casa, facendosi largo tra i curiosi. — O impazzito? — mormorò egli tra sè.

E la signora Elisa, quasi ad alta voce:

— Povera me! Mio marito diventa matto!...

Leonardo era semisvenuto tra le braccia di Riccardo, il suo figlio maggiore. [p. 14 modifica]

— Avanti, avanti! — gridò il dottore ai necrofori. — Non ingombriamo la scala. Riccardo, conduci tuo padre nella sua camera. Non è in istato di andare al cimitero. Andiamo, Leonardo!

Leonardo si riscosse.

— No! No! Non cercate di trattenermi. Dovessi morire per la strada, la voglio accompagnare. Dammi il tuo braccio, Riccardo.

La signora Valmeroni si avvicinò al dottore: si scambiarono un sorriso che voleva dire: «Ci vuol pazienza!».

Il dottore domandò:

— E dov’è il cavalier Belli?

— A Roma. Una disdetta. Il ministro lo chiamò improvvisamente. Ieri sera telegrafò che sperava di essere qui per i funerali, ma forse non ha potuto.

Un maligno sorriso sfiorò le labbra del dottor Monti.

La bara era stata collocata sul carro, in mezzo ai fiori. Il corteo si formava. Leonardo Valmeroni con la moglie, il figlio Riccardo e le figlie maggiori, Eugenia e Antonietta, seguivano immediatamente il carro; venivano poi i coniugi Pagliardi, la cugina Maria Clementi, figlia di una nipote della defunta, e gli altri tre figliuoli dei Valmeroni: Angelica, Giorgetto ed Erminia. Questi due ultimi, una di quattro anni, l’altro di sette, affidati alla sorveglianza di Angelica, cominciarono subito a sbandarsi, a restare indietro. [p. 15 modifica]

Leonardo camminava vacillando, appoggiandosi al figliolo. Erano entrambi due figure distinte, nobili e belle; Leonardo aveva l’espressione dolce e altera del vero gentiluomo. Non conoscendolo, lo si sarebbe preso per il discendente di una vecchia stirpe decaduta, ne aveva le stigmate e le finezze. Invece egli discendeva da una pura stirpe di contadini. I suoi antenati avevano maneggiato assai più la vanga che la spada. A poco a poco, peraltro, quella famiglia di agricoltori si era arricchita e innalzata. Nel 1812 il nonno di Leonardo, il bel capitano Riccardo Valmeroni, era perito nella campagna di Mosca, lasciando alla sua vedova e all’unico figlio una fulgida aureola di gloria pari ad un blasone di nobiltà. La vecchia, quasi centenaria, che i nipoti, i parenti e gli amici accompagnavano al cimitero, era appunto la vedova del capitano Valmeroni. E nessuna vedova poteva vantarsi di aver portato con maggior fierezza e devozione il nome glorioso di un prode. Sposa a quindici anni, madre a diciassette, vedova a venti; e poi, per settantotto anni, niente altro che madre e vedova fedele al suo primo amore: tale era stata la vita di quella donna eccezionale. Leonardo, che ne conosceva tutto il valore, aveva ragione di piangerla così disperatamente. Nonostante la tarda età, essa moriva troppo presto e lasciava un gran vuoto nella sua casa.

Il funerale, partito da via Monforte, dove era [p. 16 modifica]la casa dei Valmeroni, giungeva alla chiesa di San Babila, parata a lutto. La gente che passeggiava sul Corso guardava curiosamente il maestoso carro coperto di fiori e la lunga fila di persone che lo seguivano. La salma fu portata in chiesa. Alcuni maligni, sapendo le condizioni finanziarie niente affatto floride dei Valmeroni, criticavano quel lusso; altri lo applaudivano, appunto perchè rappresentava uno sforzo, un reale sacrifizio.

— Tu sei stanco, babbo — diceva Riccardo facendo entrare suo padre in un banco. — Siedi, riposati, se vuoi andare fino in fondo.

Leonardo si abbandonò sul banco e celando la fronte nelle mani pianse in silenzio. Il giovine rimase in piedi nell’ombra di un pilastro, poichè egli pure aveva gli occhi gonfi di lagrime e voleva nasconderle agli indifferenti.

Quella vecchietta era stata la sua consolatrice. Nella casa rumorosa e disordinata che Elisa non sapeva amare e Leonardo non sapeva dirigere, il fanciullo precocemente serio si rifugiava nella camera quieta e pulita della bisavola. Adulto, egli vi aveva pure cercata la calma e l’equilibrio necessari al suo spirito. Dacchè essa era morta, il giovine aveva la sensazione d’essere rimasto solo in quella casa piena di gente. Egli era uno spostato come tutte le persone che hanno sortito dalla natura una intelligenza e una sensibilità superiori all’ambiente in cui vivono; ma aveva [p. 17 modifica]la forza di accettare la vita a cui era destinato senza lamenti, forzandosi a dominare, fin dove giungeva il suo potere, le circostanze nemiche.

Di aspetto egli era assai attraente e somigliava ad una miniatura del suo bisavolo, il capitano, del quale portava il nome. Bruno olivastro, con una carnagione finissima che si coloriva delicatamente ad ogni movimento dell’animo, aveva occhi neri, profondi, di una espressione dolce, il profilo greco, la bocca ben fatta, velata appena dai giovani baffi. Di statura era meno alto di suo padre, ma assai più robusto, con le spalle larghe, il petto arcuato, il cranio possente. Come il prode soldato del quale portava il nome, la natura lo aveva creato capace di azioni eroiche, ma il destino lo voleva umile, depresso, quasi schiavo, ed egli gemeva sotto il peso della sua inutile forza.

La funzione religiosa, alla quale Riccardo Valmeroni assorto nei suoi pensieri aveva prestato poca attenzione, stava per finire.

Ora pro ea, Ora pro ea — ripeteva la folla, e le voci si spandevano col profumo dell’incenso sotto l’ampia volta del tempio.

Leonardo, sempre accasciato, il viso nascosto fra le palme delle mani, piangeva e pregava.

In un altro banco, nel lato opposto, si trovava la signora Elisa con sua sorella Ersilia ed altre signore. Più indietro era Eugenia, la maggiore dei sei figliuoli di Elisa e Leonardo, una bella [p. 18 modifica]ragazzona alta e ben fatta, dalla carnagione lattea, dai capelli biondi; essa discorreva tranquillamente con Flora Ermondi, la sua intima amica, e con Luciano, figlio del dottore Melchiorre Monti. Antonietta invece — la seconda delle ragazze, che per l’età stava tra Riccardo e l’Angelica — si era messa nel banco presso a suo padre e lo guardava continuamente. Ella somigliava al fratello nei lineamenti e nel carattere. Aveva come lui i lineamenti puri, i capelli neri, gli occhi neri e profondi, dalla espressione dolce e malinconica: non però la fibra sana e robusta del giovane.

In fondo alla chiesa, l’Angelica, col viso aggrondato, i grandi occhi azzurri pieni di lampi, nascondeva nell’angolo più buio il vecchio abito nero, mulinando pensieri di ribellione, mentre Giorgetto ed Erminia, i due piccoli indisciplinati che ella doveva custodire, chiamavano la mamma, si ficcavano tra i banchi, pestavano i piedi alle persone, facendo un chiasso molto sconveniente.

Per fortuna, i preti, ben pagati, cantavano l’ultimo salmo con voci alte e sonore, capaci di soffocare ogni altro strepito.

La funzione era finita; i necrofori portavano fuori la bara, allorchè un signore dall’aspetto rimarchevole, vestito con eleganza impeccabile, si accostò a Leonardo e gli die’ un piccolo colpo sulla spalla. [p. 19 modifica]

— Coraggio, amico! Coraggio, son qui, sono con te!

Leonardo alzò vivamente il capo, afferrò la mano amica e se la strinse al cuore, balbettando parole commosse, piene di affetto e di gratitudine.

— O Faustino! Oh! come sei buono! Grazie. Ti ringrazio di essere venuto... La tua presenza è un sollievo!

— Figurati!... Io non potevo mancare; immaginavo il tuo stato... Sbrigai in furia gli affari più urgenti... e son qui. E ora, vuoi andare fino al cimitero?

— Certo. Non potrei lasciarla così.

— Bene. Ti accompagno.

Alla porta della chiesa, il cavaliere Faustino Belli ricambiò qualche saluto, qualche stretta di mano con quella grazia squisita che egli metteva in ogni suo atto. La signora Valmeroni gli si avvicinò per ringraziarlo; ma egli non lo permise, dicendo:

— Crede forse che io potessi restare lontano da loro in un momento come questo?

Il convoglio funebre si rimise in moto, allungandosi sul Corso, svoltando in via Senato.

Leonardo camminava diritto, senza appoggiarsi al figliuolo, rinfrancato, quasi sostenuto dalla presenza dell’amico.

Antonietta si era messa al fianco di Maria Clementi che durante la funzione era rimasta [p. 20 modifica]celata nell’ombra di una cappella. Camminavano in silenzio, assorte entrambe in un profondo rimpianto; qualche volta i loro sguardi s’incontravano ed era come se parlassero.

Angelica aveva ripreso con sè i suoi due fratellini e per qualche tempo riuscì a tenerli tranquilli, facendoli camminare diritti nelle file. Ben presto però essi ricominciarono i capricci, le rincorse, le fughe lungo i marciapiedi. Poi la piccola Erminia si mise a piangere perchè era stanca e voleva esser presa in collo.

Andò avanti così fino a Porta Volta. A questo punto Giorgetto si mise a gridare che voleva del pane. Aiutata dal Pagliardi, Angelica fece entrare i due piccoli tormentatori in un carrozzone del tramway e andò via con loro, contenta di svignarsela.

Al cimitero monumentale, Leonardo ricominciò a singhiozzare. Faustino Belli gli disse:

— Non vuoi che pronunci qualche parola in onore della tua morta?

— Oh! te ne sarei tanto obbligato!

— Bene; io parlerò, purchè tu non pianga.

Avvertiti i necrofori, la bara fu lasciata sul carro, con i fiori che l’adornavano.

Faustino Belli si avvicinò con aria solenne. La folla si aggruppò intorno al feretro. Il sole irradiava il campo della morte; i marmi splendevano; i fiori esalavano le più intense fragranze; l’aria mite e i prati verdi annunziavano la vicina [p. 21 modifica]primavera. E il sole e le essenze acute dei fiori e il penetrante profumo dell’incenso che tutti avevano portato con sè dalla chiesa nelle pieghe degli abiti, e i soffi molli dell’aria tiepida sembravano ordinati a bella posta da un sapiente scenografo per intenerire gli animi e predisporli ad accogliere col più vivo entusiasmo il discorso dell’oratore.

Ma forse Faustino Belli non aveva bisogno di tutto ciò. Egli era uno di quegli uomini che sembrano nati con la missione di esaltare e di commuovere le più fervide e le più ottuse fantasie femminili, i cuori più teneri e i più vani. Perchè? Per quali meriti, con quali arti?... Nessuno lo sa. Sono generalmente uomini mediocri, egoisti induriti, cuori senza slancio, anime senza fede. Ma i loro occhi e la loro voce esprimono tutto ciò che essi pretendono di sentire; e vivendo in mezzo alla società, pensando sempre al proprio vantaggio hanno imparato a dominare gli uomini e specialmente le donne scrutandone le debolezze e le inclinazioni. Il lusso e l’esteriorità della distinzione, l’impudenza e l’originalità di maniera li mettono alla moda, e il giuoco è fatto. L’uomo ideale è proclamato, le donne gli aprono tutte le porte e il mondo s’inchina al decreto femminile.

Tale era colui che pronunciava l’elogio funebre di Olimpia Valmeroni, della tenera sposa, della tenera madre, della donna gentile, di colei [p. 22 modifica]che aveva consacrata tutta la sua vita all’amore di un morto, al culto delle memorie, alla religione di una famiglia. Ma come le diceva bene queste cose Faustino Belli! Come mostrava d’intendere la virtù, il sacrificio, l’eterno amore, la fede serbata a una tomba! La sua voce musicale aveva accenti strazianti; in certi punti sembrava che egli non potesse rattenere le lagrime; poscia, con uno slancio dello spirito lasciava le immagini dolorose per innalzarsi e salire alle alte regioni dell’ideale. Allora la sua parola alata sollevava i cuori che aveva poc’anzi lacerati con la pittura di scene patetiche, con accenti di profonda angoscia.

Elisa Valmeroni, Ersilia Pagliardi, Eugenia Valmeroni, Flora Ermondi, Maria Clementi e molte altre signore ascoltavano rapite quelle frasi poetiche, eloquenti, quella voce calda, morbida, affascinante. Quand’egli tacque un sommesso mormorio si esalò dai petti vibranti di commozione. Gl’impassibili ministri della morte sollevarono la bara e si avviarono con essa all’ultima mèta. Leonardo si accostò all’amico e lo ringraziò piangendo.

— Sono io che ti devo ringraziare — rispose umilmente il cavaliere. — E adesso? Vuoi che andiamo a casa? Hai fatto abbastanza: non abusare delle tue forze. Leonardo scrollò il capo. Non poteva, no, non poteva lasciarla ancora. Voleva starle vicino fino all’ultimo istante. [p. 23 modifica]

La salma scendeva nella fossa. Una pioggia di fiori la seguiva, mentre le ragazze della famiglia distribuivano il resto dei fiori agli astanti in memoria di quell’ora.

Molti cuori tremavano: molte anime assalite dalla tremenda visione si smarrivano. I forti, i freddi, dotati di poca immaginazione, incapaci di commoversi per il dolore che non li tocca direttamente, guardavano impassibili.

Faustino Belli aveva l’aria stanca; passato il punto culminante, raccolto quel largo tributo d’ammirazione che piaceva tanto al suo orgoglio, egli avrebbe voluto andarsene da quel luogo di tristezza, e l’ostinazione di Leonardo lo annoiava. Sapeva però dissimulare il proprio malcontento. Soltanto i suoi occhi, che egli dimenticava in quell’istante di lassitudine, i suoi occhi larghi e troppo distanti l’uno dall’altro davano a tutta la fisonomia una espressione feroce che era forse l’espressione sincera di una tendenza incoercibile della sua natura.

— Guarda il cavaliere — susurrò Antonietta Valmeroni a Maria Clementi. — Guardalo bene e indovinalo, se ne sei capace.

Penetrata dalla misteriosa suggestione della morte, ascoltando terrorizzata i ritmici colpi delle palate di terra gettate sopra la bara per ricolmare la fossa, Maria rimaneva assorta in una tetra contemplazione. Le parole dell’amica la fecero sussultare e tremò visibilmente. [p. 24 modifica]

— Di chi parli? — domandò sbalordita.

— Del cavalier Faustino Belli, di colui che vi ha tutti commossi con le sue belle parole, e più ancora colla musica della sua voce. Guardalo in questo momento di noia e di tedio. Vedi come sono cattivi i suoi occhi?

— Mi pare sconvolto — mormorò Maria, sconvolta ella stessa.

— Ah! si è accorto che tu lo guardavi e l’espressione è mutata. Non guardarlo più!... Andiamo. È finito. Povero babbo mio, come piange. E colui lo consola... è orribile!...

Ella singhiozzova.

— Orribile, sì, la morte è orribile. Povera nonnina, non la vedremo più...

— E ancora più orribile la vita — sentenziò Antonietta cessando dal piangere. — Vieni, andiamo via.

— Tu resti a Milano questa sera? — domandò Maria alla cugina.

— Sì, la mamma ha detto alla zia di lasciarmi qui alcuni giorni... Io ne farei a meno.

Maria la guardò rattristata.

— Ti dispiace di restare alcuni giorni in casa tua; e non è certo per la tristezza di questo momento.

— No, certo. Cosa vuoi, sono vecchia a venti anni. Non mi piace rompere le abitudini. E poi i miei zii ritornano a Pavia domani mattina e io so che non si troveranno bene senza di me, [p. 25 modifica]saranno tristi... Non che io sia allegra e capace di distrarli.

— Oh, questo no! Ma sei buona ed essi ti amano. Anch’io però ti amo e mi dispiace che tu abbia tanta furia di andartene.

Antonietta sospirò.

— Starei qui volentieri se potessi esser sola con te.

Camminavano verso l’uscita del cimitero insieme con gli altri, rimanendo un po’ in disparte.

La signora Valmeroni e i suoi figli maggiori, Eugenia e Riccardo, si erano fermati a pochi metri dal cancello per ringraziare e salutare tutti quelli che li avevano onorati della loro presenza. Le parole cortesi e convenzionali uscivano con molto garbo dalle labbra delle due signore; Riccardo si limitava a salutare con profondi inchini, tenendo sempre il cappello in mano. Non poteva parlare.

E i parenti, gli amici, i conoscenti sfilavano, con qualche fiore in mano ed una discreta compunzione, pronunciando parole vaghe di condoglianza e di conforto, e affrettando il passo perchè la cerimonia era stata lunga e tutti erano stanchi.

Faustino Belli aveva fatto entrare Leonardo in una carrozza e l’aveva menato via.

— Quella è una parte che toccava a me — diceva l’avvocato Pagliardi alla moglie. [p. 26 modifica]

— E perchè non ti sei fatto avanti? Noi siamo i parenti più stretti, mentre quello non è che un estraneo...

— Adagio: tua sorella li ha affratellati abbastanza — ghignò l’avvocato, con la solita amarezza.

L’Ersilia si rivoltò.

— Tu sai che non è vero: e ripeti una malignità per il gusto di ripeterla.

— Io non so niente.

La signora Elisa si accostò in quel momento alla sorella.

— Andiamo: è finita, se Dio vuole. Come sono stanca!

L’avvocato Amilcare Pagliardi fece avvicinare una vettura. Mentre le due signore vi si accomodavano, egli vide il dottor Monti e lo chiamò.

— C’è un posto anche per lei, dottore: salga.

Si accomodarono tutti e quattro e la carrozza partì. I giovani s’accontentarono del tramway che aspettava in capo al viale.

— Come tutto è volgare nella nostra vita, anche il dolore — mormorò l’Antonietta sedendo vicino a Maria. La stanchezza finisce sempre col trionfare su tutti i nostri sentimenti.

Maria scrollò il capo.

— Taci. Mi fai male. Tu osservi troppo le cose.

Non parlarono più. Intanto l’Eugenia, la bella [p. 27 modifica]ragazzona sana, dal busto fiorente, dal viso bianco e fresco con una monotona espressione di compiacenza, diceva alla sua amica Flora Ermondi:

— E così, per quest’anno io non ballo più. L’anno passato fu la malattia del babbo. Speravo di rifarmi quest’anno. E invece, niente. Non poteva aspettare a morire in quaresima quella benedetta vecchia?

— Oh! per conto suo non avrebbe avuto nulla in contrario — rispose Flora col suo sorriso insipido di ragazza comune.

— Tu hai un bel ridere — brontolò Eugenia contristata. — Se ti trovassi nei miei panni non rideresti.

Ciò voleva dire: «Tu puoi ridere, tu che hai appena diciannove anni, mentre io ne ho già ventiquattro compiuti; tu puoi ridere perchè hai un fratello che pensa a te sola, e sebbene povera come me ti credi sicura di maritarti, mentre io, che sono la maggiore di sei fratelli, non posso contare che sulle mie attrattive personali e ad ogni anno che passa tremo che sfumino; tu puoi ridere, tu che la tua poca bellezza la porti tutta sulla faccia; mentre io per mostrare quello che valgo ho bisogno dell’abito scollato e senza maniche, e quindi delle grandi feste, dei grandi balli, o spettacoli alla Scala».

Davanti ad un ritratto che rappresentava la sua bisavola in un magnifico costume empire, [p. 28 modifica]Eugenia aveva esclamato un giorno: «Erano poco fortunate queste vecchie? Portavano la grande scollatura e le braccie nude a tutte le ore e in tutte le stagioni!»

Flora a sua volta pensava: «Povera Eugenia; ha ragione di sognare sempre feste da ballo e abiti scollati; il colletto alto che la moda le impone è un vero disastro per il suo viso di luna».

Nonostante l’acerbità di questi piccoli giudizi intimi, le due ragazze si volevano un bene dell’anima e non potevano stare un giorno senza vedersi.

Quando il carrozzone fu giunto in piazza del Duomo, Riccardo Valmeroni con le sue due sorelle, e con Maria Clementi, Flora Ermondi e il fotografo suo fratello, un uomo che non diceva due parole in un’ora, proseguirono a piedi verso via Monforte, provando un vago senso di stupore in mezzo alla folla rumorosa. La luce elettrica e il gas brillavano di tutto il loro splendore in piazza e lungo il Corso e nelle sfarzose vetrine dei grandi negozi. La gente ciarlava e rideva. Erano tutti felici quegli uomini e quelle donne? Ignoravano la morte? Riccardo pensava al silenzio e alle tenebre della recente fossa e tutta quella luce, quel rumore, quella pienezza di vita lo ferivano crudelmente.