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vano. Tra l’altre cose si notava un grande organo, coperto da una tela greggia. In quel momento lo stanzone era quasi affollato e da quella folla usciva un ronzìo confuso, composto di bisbiglii, di preghiere, di fruscii.
— Chi prega così? — domandò ad un suo vicino l’elegantissima signora Angeri mentre si alzava lo strascico per non sfregarlo sull’ammattonato.
— Sono i lontani parenti venuti da Lecco, o meglio, da Malgrate, culla dei Valmeroni — rispose una di quelle vecchie che in dati momenti escono non si sa da dove e sanno la storia di tutti.
I necrofori scendevano faticosamente le scale con la pesante bara. Olimpia Gritti vedova Valmeroni, la forte e nobile donna, usciva per l’ultima volta dalla casa dove aveva tanto amato, lavorato e sofferto.
— Oh! mamma mia, non lasciarmi! — gridò Leonardo Valmeroni buttandosi sulla cassa, cercando d’impedirne il trasporto.
I necrofori si fermarono; vi fu un momento di scompiglio.
— È svenuto? — domandò il dottor Monti, che era il medico della casa, facendosi largo tra i curiosi. — O impazzito? — mormorò egli tra sè.
E la signora Elisa, quasi ad alta voce:
— Povera me! Mio marito diventa matto!...
Leonardo era semisvenuto tra le braccia di Riccardo, il suo figlio maggiore.