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La salma scendeva nella fossa. Una pioggia di fiori la seguiva, mentre le ragazze della famiglia distribuivano il resto dei fiori agli astanti in memoria di quell’ora.

Molti cuori tremavano: molte anime assalite dalla tremenda visione si smarrivano. I forti, i freddi, dotati di poca immaginazione, incapaci di commoversi per il dolore che non li tocca direttamente, guardavano impassibili.

Faustino Belli aveva l’aria stanca; passato il punto culminante, raccolto quel largo tributo d’ammirazione che piaceva tanto al suo orgoglio, egli avrebbe voluto andarsene da quel luogo di tristezza, e l’ostinazione di Leonardo lo annoiava. Sapeva però dissimulare il proprio malcontento. Soltanto i suoi occhi, che egli dimenticava in quell’istante di lassitudine, i suoi occhi larghi e troppo distanti l’uno dall’altro davano a tutta la fisonomia una espressione feroce che era forse l’espressione sincera di una tendenza incoercibile della sua natura.

— Guarda il cavaliere — susurrò Antonietta Valmeroni a Maria Clementi. — Guardalo bene e indovinalo, se ne sei capace.

Penetrata dalla misteriosa suggestione della morte, ascoltando terrorizzata i ritmici colpi delle palate di terra gettate sopra la bara per ricolmare la fossa, Maria rimaneva assorta in una tetra contemplazione. Le parole dell’amica la fecero sussultare e tremò visibilmente.