Signorine/Rosetta è morta benchè sia viva

Rosetta è morta benchè sia viva

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Rosetta è morta benchè sia viva
Signorine Il tramonto della virtù

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ROSETTA È MORTA

BENCHÈ SIA VIVA

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Rosetta è morta, benchè sia viva ancora.

Ella è lontana, benchè tanto vicina (abita in via del Melograno, N. 826, III piano). Io non la vedrò mai più, benchè spesso io la veda.

Non è un gioco di parole questo, è la verità. Rosetta mangia, beve, e veste panni, ma essa è nella bara, come la dolce damigella di Escalot nella storia famosa di Lancialotto del Lac.

Ed io piango Rosetta.

Fu lei che amò me di smisurato amore.

Ella era appena uscita dall’adolescenza e portava le sottanine corte, quando vide lo spettacolo della mia persona, che andavo a scuola; e tanto io le piacqui che ella [p. 12 modifica]non tralasciava alcuna occasione per contemplarmi.

Questa cosa era facile, perchè abitavamo nella stessa casa e le nostre famiglie erano conoscenti.

La sua prima lettera d’amore Rosetta me la mandò non per la posta, benchè suo padre fosse direttore delle poste, (uomo assai burbero), ma la trovai sotto il capezzale, andando a letto una sera; e credo che fosse scritta su di un foglio di carta ricamata. È probabile che Rosetta ignorasse che si chiamasse lettera d’amore.

Non la ho conservata, ma ricordo che conteneva quelle espressioni sterminate che si trovano nelle preghiere. La divinità ero io, e Rosetta mi domandava il permesso di adorarmi.

Questa cosa lusingò molto la mia vanità, e mi guardai nello specchio: ma rimasi turbatissimo.

Come fare? Io amavo allora Leonora, e [p. 13 modifica]Leonora amava me. Questo amore era noto a tutto il mondo, cioè a noi giovani, che costituivamo tutto il mondo.

Un giuramento solenne era stato scambiato fra me e Leonora. Dunque eravamo fidanzati!

Il nostro amore avrebbe camminato per anni ed anni, come l’ebreo errante, ma sarebbe arrivato certamente sino alla consacrazione del matrimonio, come usava allora.

Come? Ciò non importa. Per sposarsi, occorre una casa, un corredo, le pentole, i fornelli, i vasi, il pane, il vino, l’olio: ma di queste necessità non ci accorgevamo. Eravamo re e regine.

Quando ci accorgiamo di queste necessità, siamo già detronizzati dalla nostra giovinezza.

Questo matrimonio non avvenne; ma ciò non ha importanza.


Ora Rosetta sapeva che io appartenevo a Leonora. Leonora, inoltre, era una [p. 14 modifica]giovanetta bruna di notevole bellezza, suonava l’arpa, e già usciva di casa con belle sottanine lunghe, che allora (come i calzoni lunghi per noi uomini), indicavano che era già nata la donna.

Rosetta non era così bella come Leonora; ma aveva una sua pallida biondezza, e le sue guance erano di una finezza impalpabile.

I suoi occhi erano azzurri e stavano aperti verso di me, come il fiore verso il sole.

Ma quella mattina, dopo quella lettera, che io l’avvicinai per dirle... che cosa? non so, ella fuggì, e i suoi occhi lagrimavano.

Oltre a queste inferiorità rispetto a Leonora, Rosetta nel vestire era un poco sgraziata. Non avevano serva in casa, e doveva far lei. Suo padre, poi, usciva sempre di casa, rigido, con la cravatta bianca e con le scarpe lucide che mi par di vederlo. Forse Rosetta doveva lucidare anche le scarpe.

Ma se per queste ragioni Rosetta era [p. 15 modifica]inferiore a Leonora, essa superava Leonora e tutte le altre fanciulle della piccola città per il suo ingegno. Essa era vivace come un brillante. Affrontava con me quei tremendi problemi della morte e del mistero, di cui soltanto noi uomini ci crediamo capaci; ma allora la nostra salute non ne soffriva. Forse è probabile che noi credessimo di parlare della morte, ma in realtà parlavamo dell’amore, e nominavamo la morte soltanto per sentire più deliziosamente la vita. Era tanto lontana allora la morte!

Così due farfalle possono ben volare sopra un abisso.

A me allora la Parca filava appena il quarto lustro, e perciò mi interessavo della ricostruzione della società. Rosetta era — si capisce! — delle mie stesse opinioni.

Ella inoltre, per essere la madre sua alsaziana e per avere grande memoria, parlava le lingue straniere, e ciò destava un po’ la mia invidia.

Se io le avessi chiesto di aprirsi le vene per amor mio, oh, questo sì! Se le sarebbe [p. 16 modifica]aperte; ma di aprirsi il busto a lei non venne in mente, nè io la richiesi. Già allora le mamme mandavano le figliuole così coperte di vestine che la cosa non era troppo facile.

Io potrò essere accusato di una certa goffaggine, ma credo che anche lei, Rosetta, ignorasse di possedere — come dire? — nel sottosuolo delle sue sottanine le miniere della sua ricchezza specifica. No! io non feci nessuna esplorazione, nè Rosetta le provocò in alcun modo. Forse qualche bacio, ma così, per accostare le anime, perchè si dice che le anime escano col fiato, e il fiato esce dalla bocca; dunque noi accostammo la bocca l’una su l’altra per sentire il sapore delle nostre anime.

Molte vicende sono passate, molti anni sono trascorsi; e i capelli, che erano fiorenti, sono morti; finchè — or non è molti mesi — ci incontrammo con reciproca [p. 17 modifica]sorpresa; perchè, Rosetta abita in via del Melograno, N. 826, III piano, ed il mio ufficio è lì presso.

Ci guardammo a lungo. Purtroppo eravamo noi!

Come tutti sanno, fra la via del Melograno e il mio ufficio c’è una piazzuola dove si vende verdura, frutta; e sono i banchetti del formaggio, dei gallinacci morti, del pesce.

Lì spesso incontro Rosetta con una rete pesante da cui spuntano le silìque dei piselli, delle fave, e si vedono le patate. Tiene ella nell’altra mano il borsellino, e la grossa chiave di casa.

Rosetta mi ha detto che ha preso marito, e ha figlioli. Eccoli qui. Tre bambini. Rosetta li ha con sè, ed essi mi guardano con gli occhi in su. Li accompagna a scuola. Poi torna a casa a rassettare le stanze. Poi prepara il desinare per quando il marito [p. 18 modifica]ritorna; poi va a riprendere i bambini alla scuola.

Ha preso marito tardi e perciò ha bambini ancora piccini. Io non conosco il marito; ma ciò non ha interesse. È una brava persona, circa della sua età; un uomo regolare, che viene a casa a ore regolari.

Di più Rosetta non mi volle dire, e ciò le fa onore.

Ma qualcosa capii. Fra i trenta e i quarant’anni, una donna può aver sete, e in tale caso può cascare in qualche pozza d’acqua e imbrattarsi; e allora si prende la bibita che si presenta: una granatina, una limonata, un tamarindo, una birra, o un semplice bicchiere di acqua di fonte.

Le ho domandato se suo marito era una granatina, una birra, un tamarindo, una limonata, o acqua di fonte.

Rosetta trovò che la mia domanda era indiscreta, e non mi rispose. Una donna elegante avrebbe trovato, invece, piacevole questo spunto di conversazione. [p. 19 modifica]

— E non avete mai cambiato bibita, Rosetta?

Rosetta trovò la domanda sconvenevole.

– Scusate, Rosetta, e quando avete preso marito, eravate ancora come quando ci siamo conosciuti?

Allora Rosetta mi dice «addio», e se ne va con la sua rete della spesa, con i suoi tre bimbi, meravigliati di quel rapido ordine di partenza.

No! Ella non è elegante. Il suo cappellino è sgualcito e la sua veste ha un colore verdolino che conobbe molte vicende.

Io credo senza difficoltà che Rosetta abbia sopportata la sete sino ai trenta e più anni, e che poi non abbia mai cambiato bibita. Essa è sincera. Anzi in questi ultimi tempi io sono entrato nella bizzarra convinzione che la donna sia molto sincera, e che tutte quelle storie della menzogna femminile non siano che un effetto della nostra insufficenza maschile di interpretazione. [p. 20 modifica]

Dunque se avessi sposato Rosetta, io possederei una moglie massaia, pacata, non vanagloriosa, che va a far la spesa con la rete: una moglie che non muta bibite.

Ma io dirò di Rosetta cose ben più meravigliose.

Ella conserva ancora certi antichi pezzettini di carta; e li traeva giorni fa da quel suo grosso borsellino a cerniera con cui va a fare la spesa.

— Riconoscete? — mi domandò.

— Chi è costui?

— Siete voi.

Era un rettangoletto di latta dove si vedeva un ritrattino.

In esso dovetti riconoscere la mia persona.

Rosetta ricordava il giorno e l’ora che ci facemmo quel ritrattino da un fotografo ambulante: e costò quattro soldi.

Conserva ella in una scatola una specie di polvere nera, che assicurò essere viole, [p. 21 modifica]raccolte insieme, il giorno venti aprile, sul colle dei Cappuccini.

— E infine riconoscete? — Erano pezzi di carta ingiallita e corrosa nelle piegature.

Ohimè! in quegli sgualciti pezzetti di carta dovetti ravvisare la mia scrittura, con espressioni così fantastiche, che io quasi arrossii.

Così dicendo Rosetta si allontanò con i suoi tre attoniti bambini e il borsellino con dentro i cimeli della mia giovinezza.

Io la seguii con lo sguardo.

Oh, Rosetta, saltellante a sedici anni come una passera, dove sei più?

Morta!

E quando gli occhi non la seguirono più, si sostituirono gli occhi del pensiero, così come, tramontato il sole, si vede un’altra luce diffusa: è la luna che, già grande nel cielo, aspettava che il sole sparisse, per essa apparire.

Rosetta non cammina, si trascina! Ella va, o povera Rosetta; ella va sino al [p. 22 modifica]mercato, va sino alla scuola lontana ad accompagnare i bimbi; ma non cammina.

Va!

E allora mi parve di scoprire una differenza tra l’uomo e la donna. L’uomo incede anche con i capelli bianchi; ma la donna, quando non può più saltellare, si trascina.

Perciò un giorno fui io ad attenderla per dirle: — Ma io sono ben giovane!

Ed ella sorrise, come solo può sorridere una donna, e se ne andò.

— Io credo — le dissi, non so come, un giorno che Rosetta rinnovò l’esposizione del museo preistorico del suo borsellino — che noi non ci siamo mai baciati.

Una specie di rossore risalì ancora a galla sopra il suo volto, e a lungo mi guardò come dire: «Ah, smemorato!»

— Ma dove, ma quando, signora!

— Qui la prima volta.

E indicò la guancia.

— Voi ricordate anche la località? Quale prodigiosa memoria!

Allora guardai la sua guancia. Oh, [p. 23 modifica]povera guancia! così impalpabile una volta come la corolla di un fiore, come l’ala di una farfalla! Essa pendeva oramai come se i legamenti si fossero distaccati.

E vi fioriva un grosso cece con duri peli.

Ma non è per questo che io piango Rosetta, che è morta.

Certo io mi sono domandato per quale legge crudele quei dentini che erano come tante zappettine bianche, fitte fitte, ora sono come tanti colonnini di vecchio tempio, coperti di muschio.

Perchè i suoi piedini hanno due grossi nodi?

Oh, che vale mutare le leggi, se questa legge rimane?

Ma non per questo rimpiango Rosetta.

Queste cose che dico di Rosetta, sarebbero accadute a Leonora (se la avessi sposata), a Gerosolima, a Violetta, a Noemi.

Non è per questo che io piango Rosetta. [p. 24 modifica]

Io la piango perchè il suo spirito è svanito. Io sono sorpreso, e la faccio parlare a lungo. Mi pare morta anche l’intelligenza. Si sente il vuoto di una bara.

Rimane soltanto la memoria, così come rimangono le intravature di un edificio rovinato.

Accanto a Rosetta che si trascina, vedo andare a passo a passo sul carro funebre la piccola Rosetta dei sedici anni, con le sue guance impalpabili, con i suoi piccoli denti.

— Cosa guardate? — ella mi domandò.

Io guardavo dietro di lei il carro funebre di Rosetta: dietro seguivano le cose impalpabili e meravigliose: i sogni, la musica, i poeti.

Non so quale risposta stravagante io diedi.

Ma ella disse: — Siete sempre uno stravagante.

Io volevo risponderle così: «A sedici anni, voi di questa, che oggi chiamate mia [p. 25 modifica]stravaganza, non vi accorgevate. Era intonata con voi, anzi voi la ammiravate. Forse voi mi amaste allora per quella mia stravaganza. Ora non siamo più intonati, e io strido per voi, come voi stridete per me.

Quale scherzo la natura ci gioca, o Rosetta.

Forse alcuno può intendere qui che io voglia dire: Rosetta è imbecillita. No! Ella anzi è una assennata, ordinata, brava donna. In lei non è avvenuto quello che avviene in molti uomini, i quali realmente imbecilliscono, perdono la memoria, non escono più dalla vecchia rotaia del loro pensiero. Rosetta ragiona benissimo di tutte le piccole cose della vita. Ma l’orizzonte le si è rinserrato d’attorno, le grazie del pensiero sono morte, lo slancio è morto; nel modo stesso che il suo piede si trascina, ed è nato quel cece, con quel cespuglio.

I sogni sono diventati cenere, come le [p. 26 modifica]violette sono la polvere del suo scatolino.

Ma forse non è questo il dramma di Rosetta soltanto; ma io credo che sia anche di Noemi, di Violante, di Gerosolima, di Leonora, e anche di certe donne illustri, che, vecchie, paiono donne da ricovero; e non rimane loro che un affannoso balbettìo.

Oh, povera Rosetta, coi tuoi tre bimbi dietro, forse tu in essi rivivrai, ma tu sei morta.

E da quel giorno io non cercai più Rosetta, nè ella cercò me.

Non so perchè allora ho pensato a te, errabonda Corinna.

Tu hai quasi l’età di Rosetta, ma tu non vuoi morire!

Ogni volta che io ti rivedo, nei tuoi strani pellegrinaggi, non è: «come state, come va il mondo, come sta la politica, la storia, come sta la letteratura, come si comporta la morale». Oh, no! La ansiosa tua [p. 27 modifica]domanda è quest’altra: «mi trovate ancor bella?»

Se l’ossigeno ricopre le vostri chiome, o Corinna; se un dente d’oro adempie al necessario ufficio di sorridere, se un po’ di impalpabile cipria sostituisce l’incarnato della giovinezza, se dissipate il vostro borsellino nei più rari profumi, nelle scarpette più saltellanti, voi avete ben ragione Corinna! e lasciate che gli stolti uomini sorridano.

È che voi, Corinna, non volete morire, benchè voi ogni volta che vi incontro dichiariate di voler morire. Voi non volete morire. Oh, almeno voi volete morire eretta, sorridente, con la chioma tutta bionda, con le carni tutte profumate; ma dispiegato, ma svolazzante incontro al fato — come conviene a buona guerriera — il gonfalone della giovanezza.