Sermoni giovanili inediti/Sermone XXI
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SERMONE VENTESIMOPRIMO.
LA CARITÀ EDUCATRICE.
Finchè alla plebe misera, che langue
E piange e freme, e dall’error sospinta
Va brancolando per la notte oscura
Che le cresce d’intorno, un tozzo io getto
5Di amaro pane, nè di lei pietade
Altra mi vince; io dell’ingrata plebe,
Invida e bieca e alle mal’opre vôlta
A che mi lagno? Di pallor le gote
A che mi tingo, e un brivido per l’ossa
10Tutte mi corre, se del lezzo impuro
In cui s’adagia con ferina usanza,
Vedo fuori sbucar quasi un armento,
Che intorno propagandosi, di nove
Belve selvagge, indomite e proterve
15Popolando la terra, a’ danni nostri
Con rabbia irresistibile prorompa?
Forse i padri peccâr; ma se ne’ figli
Ancor l’ignavia e la baldanza dura
E il gelido sospetto, e ciechi e stolti
20Non pensan qual della semenza ria,
Sparsa per lunga e tenebrosa etade,
Frutto si colga di malvagia pianta;
Nè curano fidar con mano industre
E amoroso pensiero eletti semi
25A vergine terreno, onde felici
Sorgan rampolli ed arbori fecondi;
Oh quali ad essi pendono sul capo,
O penderanno in breve alla delusa
E vana inconsapevole progenie
30Per essi nata, orribili sciagure!
Finchè i lontani e del lor meglio accorti
Nipoti non emendino degli avi
Le involontarie colpe; e al santo vero,
In cui la innamorata alma si specchia
35E pace trova e libera sorvola
Oltre la cerchia degli umani inganni,
Traggan le genti affaticate e stanche.
L’aure assordar di flebili lamenti
Dimmi che giova, se l’ingegno e il nerbo
40Manchino all’opra? e di più bella etade
Fantasticando ignote meraviglie,
Del noto strale ricalcar la punta
Verace in petto alle dolenti turbe?
Alle dolenti turbe, inferme ed ebre,
45Che a torbide e corrotte acque beendo,
Stupidamente aggiransi d’intorno
Con sitibondo labbro a cui si nega
Il ristoro di limpida sorgente.
Mal abbiasi colui, che dell’umana
50Schiatta in armento stupido conversa
Tanto si duole meno o più si piace,
Quanto si affida più col lieve cenno
Della verga trattare un gregge muto.
Che indocile talora ogni ritegno
55Spezza e i ripari abbatte, e guasta e schianta,
E dove il lusingar oda fallace
Con cieco istinto ribellando corre;
Sì che la terra d’uman sangue rossa
Agli atterriti popoli, per lunga
60Infelice stagion, degli empi voti
Con fumanti macerie il fin ricordi.
Chi al lume di ragion si riconsiglia
All’occulta del mal prima radice
Intento bada, ed al soccorso pronta
65Reca la mano; e prevenir gli giova
Accortamente e con benigno viso,
Più che cessar con dolorosi e tardi
Importuni rimedi, i nuovi danni
E le certe rovine e i fati acerbi.
70Acceso il petto di verace zelo
E di care speranze avvalorato
Porge la destra all’umile caduto,
E fuor lo traggo del fangoso letto
Ove quasi sepolto e morto giace;
75Col corpo no che ancor vegeta e sente,
Ma colla mente torpida ed offesa,
Da lungo sonno e da mendaci e bieche
Larve travolta, del suo bene ignara
Ed a se stessa ignota. E pure in quella
80Torpida mente del divino fiato
Il soffio dorme; o s’agita tra fosche
Nebbie confuso. Se dal reo letargo
Altri nol desti, e alla serena tempra
Nol riconduca, e temerario sprezzi
85L’opra di Dio, più non ardisca il nome
Dell’eterno invocar Padre, a cui figlio,
Figlio non è chi il fratel suo rinnega.
Ma le cresciute piante, in cui serpeggia
Un velenoso umore, il mal piegato
90Tronco indurando, e con tenaci barbe
Addentro profondandosi, una tetra
Ombra micidïal spargono intorno;
Nè un ramo schianti, che di cento e cento
Altri non sorga più maligna fronda.
95Dunque che fare? I tralignati succhi
Corregge in tempo con felice innesto
L’accorto agricoltore, e le paterne
Cure volgendo ai teneri virgulti,
Con provvidi sostegni il mal securo
100Fusto sorregge delle annose piante.
Tale, e sia lode al ver, m’offre gradita
Immagine la schiera avventurata,
Ch’alla negletta povera e derisa
Plebe dispensa il pan dello intelletto;
105Sia che dall’ozio vile o dalla turpe
Mendicitade ad operose e belle
Usanze confortevoli la tragga;
O il gelato sudor dall’egra fronte
Le terga a lato all’umile giaciglio;
110O nell’oscuro carcere scendendo
Le antiche colpe ad emendar le insegni
Là donde un tempo a nove colpe instrutta
Uscía più fiera a minacciare il mondo.
Di fanciulletti laceri e digiuni
115Qual turba è questa, che di porta in porta
Batte chiedendo pane; e se le amare
Pur non soffra repulse, a poco a poco
Perde le grazie timide e pudiche
Onde infiora le guance, e più gentile
120Si rende agli atti, al guardo, alle parole
In quella prima età che è tanto cara?
Forse padre non han, non han la madre
Questi orfanelli miseri che vanno
Qua e là vagando, a perigliare esposti,
125E cogli occhi beendo e cogli orecchi
Un rio velen che lento lento uccide
L’anima semplicetta? O forse tutti
Ad ogni senso di pietà siam muti?
No, che la fede ancora e la pietade
130Nei petti più che nelle bocche è viva;
Come l’opra d’amor fa manifesto,
Che i derelitti parvoli raccoglie,
Ed alla legge del Signor gli affida.
Lasciate a me venir questi fanciulli,
135Il Signor disse, ed abbracciolli, e loro
Benedicendo le sue mani impose.