Sermoni giovanili inediti/Sermone XX

Sermone XX. Il Ricordo

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SERMONE VENTESIMO.


IL RICORDO.




Due doti sono, che di rado unite
     Vanno nel mondo, il palpito soave
     Del core e della mente il guardo acuto;
     Ma che disgiunte fan contraria prova
     5Spesso all’indole loro, onde si piange
     La speranza che tronca in erba more.
Dell’intelletto se la vista è corta
     Inferma o losca, un languido barlume,
     Un infido bagliore, una confusa
     10E stravolta d’immagini congerie
     Gli balena dinanzi, e in cento parti
     Repugnanti dal ver si trasfigura.
     La mobil fantasia, cui scalda l’ali
     Il mal temprato affetto, incauta spinge
     15Ad abbracciare come cosa viva
     Di leggiadro vapor nube vestita;
     Mentre del raggio fervido, che scocca
     Direttamente, dal fulgore offesa
     Giace la pigra e timida pupilla.
20Ma se l’ingegno di superna vampa
     Splenda, e nel petto alla gentil pietade
     Chiuso si taccia il battito secreto;
     Oh quali versa d’infeconda luce
     Sull’arida, deserta e morta arena
     25Inutili torrenti, e qual sinistro
     Lampo dardeggia a suscitar dal fondo

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     Di malèfici influssi impuro nembo!
Il senno alla bontade, il sentimento
     Alla ragion si attempri, e di sincero
     30Gaudio paga sarà l’interna voglia,
     Che mai pace non ha finchè discordi
     Son nostre facultadi, onde il verace
     Apprender certo e il ben amar n’è dato.
     Di loro armonizzar maestra è l’arte,
     35Che il fanciullino per la mano piglia
     Dapprima allor che mal secure stampa
     L’orme con piede incerto, e dai soavi
     Labbri pendendo della dolce madre
     I cari vezzi e i cari baci alterna;
     40E poi che legge nel paterno volto
     Pronta degli atti suoi lode o rampogna
     Scosso al severo balenar d’un guardo,
     E confortato del benigno riso,
     Che misto a reverenza affetto ispira.
45Indi lo guida grandicello o tenta
     La compagna fedele entro le porte,
     O cedevoli troppo o troppo dure,
     De’ garruli licei guidarlo; e spesso
     N’esce intronata, intimorita e vinta,
     50Per qual colpa e di cui non dico, quando
     Pur non le fosse dell’entrar negato
     L’assenso dove della sferza al fischio,
     Rumoreggiando del polmone il mantice,
     Si travaglia a gonfiar di poco vento
     55I palloncini, che lo scarso vano
     Apprestano d’intorno e tumidetti
     Poi lanciansi a scherzare all’aure in preda.
Ma, varcato degli anni il più ridente
     Cerchio, l’amica e vigile custode
     60O attenda fuor delle loquaci scuole

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     Mal di ciance pasciuto, o fuor conduca
     Dai taciti recessi ove la fonte
     Di limpida dottrina si disserri,
     Sempre l’alunno suo già fatto adulto
     65Lascia; ma prima che il ritroso passo
     Da lui rimova: ecco, gli dice, è tempo
     Ch’io di te stesso a te piena confidi
     Cura sagace. Al libero governo
     Dell’alma intendi sì, che di superbe
     70Voglie codarde mai schiava non sia;
     Nè per oscuro carcere, travolta
     Da moltiforme errore, ebbra si aggiri;
     Nè per baldanza d’ogni freno schiva
     I nodi rompa, che in giustizia e pace
     75E fede e carità legan le genti.
Deh! il vano lusingar non ti seduca
     Di scorretta beltade, e non ti adeschi,
     O ti sgomenti della turba insana
     Il volubile plauso, o il fischio e l’ira.
     80E più che il plauso, a sfolgoranti colpe
     Talor serbato, il placido riposo
     T’alletti, onde si allegra la pudica
     E modesta virtù che dello sprezzo
     E dell’odio trionfa. Oh della vita
     85Non pianger no la fuggitiva larva
     Mentre dell’ore in cui si parte accusi
     La noiosa pigrezza, e di sbadigli
     O di frivoli giochi il vuoto n’empi.
     Pensa che quanto più breve è la prova,
     90Tanto più incalza a renderla compiuta
     E feconda di ben la fuggitiva
     E scarsa larva della vita nostra.
Nè la tua prova rassomigli a quella
     Di famelici cani, allor che getti

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     95Fra loro un arid’osso, a cui s’avventa
     L’uno e poi l’altro furïoso; e l’uno
     Lo strappa all’altro, che digrigna i denti,
     I peli arruffa, e ringhia, e assanna rabido
     Ora l’un capo della magra preda,
     100Ora del prevalente emulo il dorso;
     E dopo lunga pugna, sollevato
     Di polve un nembo e il suol di sangue intriso,
     Lascian digiuni laceri anelanti,
     Schiuma grondando dalla bocca e fuoco
     105Dai torvi occhi spirando, il fiero campo
     E l’arid’osso e la deserta arena.
Veglia e fatica col pensiero e l’opra:
     E il senno e la quïete a veglie nove
     Ed a nove fatiche le prostrate
     110Forze richiami. Se l’invidia bieca
     Ti guarda, non curar, ma il corso affretta;
     Nè lei mirando perderai l’istante,
     Che invan più tardi piangeresti. Ingrata
     Di villane repulse e di bugiarde
     115Blandizie e di volpine arti farai
     Diuturna esperienza. Il capo scoti;
     E se la lingua snodi, un dardo scocchi
     Che le proterve fronti agghiacci e passi.
     Di ogni opra al fin, rispetto ad essa, attendi;
     120E più rispetto al fin cui l’opre tutte
     Si convergon con noi, come ne détta
     II decreto immutabile d’Iddio.
     Te medesmo conosci, e reggi e vinci;
     Degna vittoria, e reggimento certo,
     125È rara conoscenza, a cui di mille
     Alteri vanti non s’agguaglia il pregio.