Scritti vari (Ardigò)/Polemiche/La confessione/V

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Risposta del prete professore R. Ardigò alla lettera del sig. Luigi De Sanctis inserita nel n. 217 della Favilla.
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V.

Risposta del prete professore R. Ardigò alla lettera del sig. Luigi De Sanctis inserita nel n. 217 della Favilla.


Nella prelazione dell’opuscolo sulla Confessione del sig. Luigi De Sanctis, colla data di Malta 1851, si leggono queste parole: «Nella estimazione degli uomini probi, le ingiurie fanno torto soltanto a chi le proferisce. Le ingiurie non sono mai state ragioni, anzi sono il segno che il torto è dalla parte di colui che si appiglia a sì vile sostegno per non sembrare vinto».

Queste parole, tanto dimenticate da chi le ha scritte, queste belle parole soltanto rispondo e risponderò sempre alle invettive, agli oltraggi, alle false accuse dirette a sconcertarmi e intimorirmi. Si vedrà che non resterò nè sconcertato nè intimorito per siffatte ignobili arti. Non farò scandali; questo no. Ma do parola agli amici ed ai nemici, che non tralascerò di dire, quando occorre, ciò che ho da dire; nemmeno colla certezza che ci sarà poi chi avrà la vile sfacciataggine di mettermi in bocca, pe’ suoi fini, delle parole che non ho mai pronunciato. Ma basti di questo argomento e veniamo alla nostra polemica.

Il signor Pettoello, che sfidava tutti quanti i teologi romani, con un piglio da far paura, al primo avversario che gli si è presentato, si è visto perduto; e venne nella savia determinazione di dichiararsi insufficiente in materie teologiche.

Gli venne in ajuto un vecchio teologo, che da 32 anni a questa parte insegna teologia, storia ecclesiastica ed antichità cristiane, cioè il sig. Luigi De Sanctis, direttore del giornale di Firenze l’Eco della Verità. Al quale quanto doveva esser facile il castigare il temerario prete di provincia, che non è neanche teologo, e il liberare [p. 66 modifica]il povero articolo pettoelliano dia quelle Osservazioni, che lo tengono schiacciato col loro peso!

Ma pare, che il sig, De Sanctis si sia avveduto che l’articolo del suo pupillo non è difendibile in nessuna parte, in nessuna riga. Fatto sta che l’ha abbandonato al suo destino. La sua difesa non è una difesa diretta. Le mie Osservazioni le lascia stare tutte, dalla prima fino all’ultima: e non le tocca nemmeno. Solo indirettamente cerca di nuocere alle stesse; studiandosi di sviarne l’attenzione dei lettori; di tirarla sopra un altro campo, e quivi di colorire le cose in modo, da far credere ai poco avveduti, che io sia un ignorante, un uomo di mala fede, capace di qualunque più malizioso inganno, e quindi non meritevole mai, che si dia peso alle mie ragioni, per quanto apparentemente vere e fondate.

Il campo dunque è restato tutto mio, e ho da fare con un avversario che combatte fuggendo. Potrei lasciarlo andare: anche secondo ciò che aveva detto nella fine delle mie Osservazioni. Ma poichè il campione che si è presentato è il sig. Luigi De Sanctis, autore di molti conosciutissimi opuscoli contro i cattolici, direttore di un giornale protestante, luminare maggiore dei nuovi credenti d’Italia, non voglio perdere l’occasione di far conoscere a’ miei concittadini, a quale meschinità si riduca molte volte una grandezza creata dalla passione e dal partito. Risponderò, e questa e ogni altra volta, che piacesse al signor De Sanctis aver briga con me per cose religiose.

A quelli che non trovano bello che portiamo le questioni teologiche sui giornali, diremo che non siamo stati noi i primi a farlo, e che quello che è permesso agli altri, per offenderci, deve essere permesso anche a noi, per difenderci. A quelli che vorrebbero le questioni trattate più filosoficamente, diremo che siamo pronti a farlo quando occorrerà. Adesso le facciamo erudite, perchè crediamo che i fatti non si provino con delle chiacchiere. Quelli che trovano che le citazioni sono il pregio maggiore degli [p. 67 modifica]articoli degli avversarii, perchè non le potranno soffrire nei nostri?

Esaminiamo dunque la lettera del sig. De Sanctis in difesa del sig. E. P., inserita nel N. 217 del 4 agosto 1867, della Favilla.

In essa, circa alla metà, è citato il capo 35 del libro 9 della storia ecclesiastica di Sozomeno, per un fatto correlativo alla decretale di Leone I, che è dell’anno 459. Ora sappiano i lettori, che il libro 9, ultimo della storia di Sozomeno, non ha che 17 capi; e che quindi il capo 35, citato dal signor De Sanctis, non esiste. Sappiamo inoltre che la storia medesima finisce un trentacinque anni almeno prima dell’epoca, per la quale lo stesso signore ne invoca la testimonianza.

Dopo ciò domando ai lettori. Vi pare che sia poco questo per un vecchio teologo, che da 32 anni a questa parte insegna teologia, storia ecclesiastica ed antichità cristiane; e che si compiace di regalare agli altri i titoli di ignoranti, di uomini di mala fede, di barattieri e di giuocolieri da bettola? Che direbbe il signor De Sanctis di me, se in qualche mio scritto scoprisse degli spropositi come questi che ha stampato lui?

Più avanti sono rimproverato di cavare le citazioni dei Padri dai corsi dei teologi confessionalisti, e di non prenderle dal loro originale, in buone edizioni. Tutte le citazioni dei Padri che si trovano nelle mie Osservazioni, tutte, nessuna eccettuata, le ho tolte, non dai corsi dei teologi, ma dagli originali. In prova di questo, a ciascuna ho apposto, oltre il titolo del libro da cui è tratta, anche il luogo e l’anno della edizione, e la pagina o colonna secondo il caso, e perfino la lettera majuscola, che nei formati grandi indica la divisione delle pagine. Dirò di più. La massima parte di queste citazioni si riferisce alla Patrologia del Migne, che è stata stampata da poco tempo, e quindi non può essere ricordata nei corsi teologici, che sono tutti più antichi di questa edizione. [p. 68 modifica]Io cito una raccolta, che è la ristampa più completa che esista delle migliori edizioni conosciute di tutti i Padri, nella loro interezza, e il signor De Sanctis mi fa quel rimprovero? Che non se ne sia accorto? Che abbia creduto che la denominazione Patrologia del Migne significasse una qualche antologia o raccoltina di passi di padri, ad un uso speciale, ad uso per esempio dei teologi confessionalisti, come egli li chiama? Sarebbe troppo per un vecchio insegnante di storia ecclesiastica e di antichità cristiane.

Ma il più bello si è che dà agli altri, che non ne hanno bisogno, i consigli che egli poi non segue per sè: anche trattandosi di casi, nei quali il più semplice buon senso non permette di fare diversamente. Come dove, per mostrare che io falso, altero e mutilo i passi dei padri, e li applico male, riporta la decretale sopra menzionata di S. Leone dal Corpus Iuris; da un libro cioè, nel quale per l’indole sua stessa i passi quasi sempre sono inseriti in sunto e smozzicati. Come? Uno che da lungo tempo esercita la professione teologica non ha alla mano, per riferire un testo di un padre, e per fondarvi sopra delle gravi accuse contro un avversario, se non il Corpus Iuris? Questa è la cosa più amena che io abbia mai sentito. In questo caso il signor teologo doveva almeno avere la prudenza di non istituire il confronto colla mia citazione.

Io ho citato la decretale di S. Leone dal Baronio, perchè ero sicuro del fatto mio, avendola prima confrontata coll’originale. La mia citazione poi nè è falsata, nè può dirsi mutilata. Mutilata e falsata è piuttosto quella del signor De Sanctis. La cosa è tanto chiara, che non avrà bisogno di un lungo discorso, per esser capita anche dai più tardi. Mutilare un passo vuol dire toglierne le parole che gli danno un senso non conforme alla idea di chi lo riporta. Ora io domando. Le parole che seguono la mia citazione che nell’originale sono queste: qui pro delictis poenitentium precator accedit, impediscono esse, [p. 69 modifica]che il passo provi quello che io voleva provare, cioè che la decretale di S. Leone, invece di tendere ad introdurre la confessione pubblica, mira a diminuirne l’uso e a raccomandare la confessione segreta? No, certamente; ed io che, oltre essere leale, doveva anche essere breve, tralasciandole, ho fatto una cosa ragionevole e giusta. Ond’è che tutti quelli che, avendo un po’ d’intelligenza, hanno letto la lettera del signor De Sanctis, hanno dovuto fare le meraviglie che l’unica prova, che egli si era compiaciuto di addurre della mia mala fede, fosse così inconcludente.

Assai più concludente ritengo che sarò io, ritorcendogli l’accusa di falsare e di mutilare. Di falsare, perchè, oltre interpretare con poca precisione il latino non timeant pubblicare, colle parole si vergognino che siano pubblicati, ed introdurre arbitrariamente nella traduzione la proposizione, quindi tale caso deve essere rimosso, che non si trova nel testo, il che è più un alterare che un falsare, traduce poi, qui precator accedit, colle parole, il quale riunisce a pregare, mentre il verbo accedere è lontanissimo dall’avere il significato di riunire. E traduce così proprio nell’intendimento di mettere nella espressione una qualche allusione ad un’idea, che potrebbe fare per lui; ma che ad ogni modo è esclusa dalle espressioni che nell’originale, anche come è riportato nei Corpus Juris da lui citato, vengono appresso; espressioni che egli per ciò, vero mutilatore di passi, ha creduto bene di tralasciare.

Come ha tralasciato anche il periodo che precede il passo da lui ricordato; perchè quel periodo dice in sostanza, che la confessione segreta dei peccati occulti non è già una trasformazione di una confessione o esomologesi pubblica, prima in uso, come dice la lettera del nostro vecchio teologo, ma la precede storicamente (1). [p. 70 modifica]Da tutto questo si raccoglie che nell’unico argomento addotto in tutta la lettera dal signor De Sanctis, per mostrare che non cito i padri nel loro originale, che li falso, che li altero nella traduzione e li mutilo, si ha invece la prova più manifesta che lo stesso signor De Sanctis non cita i padri nell’originale, altera e falsa i passi nella tradizione e li mutila, affinchè possano meglio servire al suo intento.

Il signor De Sanctis mi domanda perchè non parlo nelle mie Osservazioni, dei diversi significati attribuiti alla parola Sacramento da Dionigi Areopagita, da S. Agostino, da S. Bernardo. Questa domanda mi sembra così priva di senso e fuori di luogo, che mi ha confermato in un dubbio concepito nel leggere la sua lettera: dubbio che non voglio celare ai lettori. Le idee, le notizie contenute in questa lettera sono state suggerite al vecchio teologo dalle speciali esigenze della polemica contro le mie Osservazioni, o sono invece i soliti vecchi ferri di bottega, già preparati da un pezzo, per essere adoperati tutte le volte che occorre di lavorare a danno della confessione, siano o non siano adattati al caso? Inclino ad abbracciare questo secondo supposto.

Nelle mie Osservazioni ho provato, con tutta la evidenza possibile, dalla idea stessa che annettono i cattolici alla parola Sacramento, dall’essere stata sempre computata nel novero dei sacramenti propriamente detti anche la penitenza e quindi la confessione, dal trovarsi le regole di amministrarla negli antichi sacramentari, dalle definizioni di Pietro Lombardo, identiche a quelle del catechismo, [p. 71 modifica]dalle espressioni di S. Pier Damiani, che non ammettono altra interpretazione per quelli che hanno letto l’intero suo sermone 58 da cui sono tratte, dico, per tutti questi argomenti, che non patiscono eccezione, che anche prima del concilio di Firenze la confessione era creduta un sacramento, nel senso proprio della parola. E dopo tutto questo, che era più che abbastanza, perchè non restasse dubbio alcuno sulla verità della mia asserzione, viene fuori a domandarmi, perchè non ho parlato di tutti i significati della parola Sacramento; come se fossi dietro, non a correggere una riga del signor Pettoello, ma a fare un trattato ampio e completo De Sacramentis? No, no: non mi sbaglio. Tanto per riempire la lettera ci ha messo anche questo: la solita roba.

Viene poi un discorso, il quale, oltre essere ozioso come il precedente, è anche un capolavoro di logica confusionaria. È come se dicesse così: — Gli scolastici citati nelle Osservazioni non erano d’accordo tra loro sulla questione, se la confessione è un sacramento. Dunque anteriormente su ciò nulla di certo. Di fatti gli scolastici S. Bonaventura, S. Tommaso e Scoto dissentivano, non su questa, ma su altre questioni relative alla confessione. C’è senso in questo discorso? Sfido a trovarcelo.

E sono anche false le asserzioni che vi si contengono. È falso, che degli scolastici, che io ho citato, altri abbiano creduto la confessione un sacramento, altri lo abbiano negato, altri ne abbiano dubitato. Io non ho citato che due scolastici soli, Pietro Lombardo e S. Tommaso. E questi, tutti e due, hanno creduto la confessione un sacramento, precisamente come lo crediamo noi adesso. E come loro l’hanno creduto anche tutti quanti gli altri scolastici. Uno scolastico, che non credesse la confessione un sacramento, io non lo conosco. Il signor De Sanctis che dice di conoscerne diversi, perchè non ne menziona nemmeno uno? È falso che su ciò fino agli scolastici nulla vi fosse di certo. Gli scolastici dicono, che quello che insegnano è tradizione. Della quale, per non fare tanti [p. 72 modifica]scorsi, sono una testimonianza superiore ad ogni eccezione le antichissime ancor vive credenze dei Copti, dei Giacobini, degli Armeni, identiche in questo alle romane. Si potranno trovare delle differenze nella nomenclatura, ma non nelle cose. Il signor De Sanctis direbbe più vero, se affermasse, che le dottrine più si va indietro e meno sono scolpite e fissate nelle definizioni scolastiche e nelle denominazioni scientifiche della teologia. Ma allora non sarebbe più questione di innovazioni, ma bensì di progresso e di sviluppo, che ha luogo nella religione e nella chiesa, come in tutte le cose umane. Quanto a S. Bonaventura e a Giovanni Scoto, dico che nei loro scritti (2) non vi è nulla che non si accordi con quanto definisce il concilio di Trento, nel canone VI della XIV sessione, che la confessione fu istituita jure divino, e che la confessione auricolare non è aliena ab institutione et mandato Christi. Circa S. Tommaso poi ripetiamo solo quanto abbiamo detto nelle Osservazioni, che il concilio di Firenze nel dichiarare la fede della confessione, si è servito delle stesse sue parole: tanto è lungi dal vero, che siano enigmatiche, come afferma il nostro vecchio teologo. Divergenze tra gli scolastici ce ne sono state, come ce ne ha anche adesso fra i teologi; ma che non decidono niente; poichè versano il più delle volte sopra quelle astruserie metafisiche, che essi avevano il vizio di voler mescolare colle dottrine positive.

Perchè al signor De Sanctis non venga la tentazione di volermi ribattere neanche una parola di ciò che qui dico, lo avverto che questi scolastici io li ho avuti fra le mani e li ho studiati più che un poco. Rifletta a questo e si regoli.

Io, secondo il De Sanctis, sono un giuocoliere da bettola, un barattiere, e fondo i miei argomenti sopra un [p. 73 modifica]equivoco malizioso. Davvero? Perchè? Perchè, per combattere la tesi che la confessione sia stata ordinata da Innocenzo III, poscia proclamata sacramento da papa Eugenio IV, e finalmente fatta domma di fede nel concilio di Trento, che è la tesi del signor Pettoello e del suo vecchio maestro, io abbandono, dice il De Sanctis, la confessione quale è adesso nella chiesa romana, e parlo della confessione in generale.

Questo io faccio? Ma quali sono stati gli argomenti, i soli argomenti coi quali, proprio nel bel principio delle mie Osservazioni, ho annientato quella sciocca tesi? Forse degli argomenti in cui non si tratta che della confessione in generale? Oh! tutt’altro, signor De Sanctis: tutt’altro.

I miei argomenti sono stati la tradizione e l’uso delle vecchie comunità scismatiche orientali e le memorie riferite dal Lingard, che attestano la istituzione del precetto della confessione in Inghilterra all’epoca della introduzione del cristianesimo fra gli Anglosassoni. Ai quali argomenti, come per sovrappiù, ho aggiunto l’osservazione, che le dottrine di Pietro Lombardo, al suo tempo di molto anteriore al pontificato di Innocenzo III, erano così conformi alla credenza universale della chiesa, che i suoi libri erano il testo delle scuole di teologia.

Questi argomenti, e solo questi, ho creduto bene allora di addurre contro la tesi da me combattuta. Domando dunque: crede il signor De Sanctis che in questi argomenti non si tratti della confessione come è attualmente? Oh! Egli si guarderà bene dall’affermarlo. La forza della prova, presa dalla tradizione e dall’uso delle vecchie comunità scismatiche orientali, sta appunto in questo, che si sa e si può verificare quando si vuole, che la confessione attualmente e prima in vigore fra quelle, certo non introdotta ed ordinata nè da Innocenzo III nè da Eugenio IV, nè dal concilio di Trento, è quella stessa che si osserva nella chiesa romana di oggi. Il Lingard, trattando della introduzione della confessione in Inghilterra, parla della confessione come l’hanno anche adesso i cattolici. Quanto [p. 74 modifica]poi a Pietro Lombardo ne ho riferito dei passi; e ciascuno può, se vuole, riscontrarli col catechismo.

Dunque è falso che io confonda a bello studio le questioni, e che, quando non mi torna conto di parlare di una cosa, porti maliziosamente il discorso sopra un’altra.

Si potrebbe anzi chiedere al signor De Sanctis: Per qual ragione non ha Ella mai parlato nella sua lettera di quegli argomenti? Ha parlato di tante cose, che non importano niente; e di quegli argomenti che erano, si può dire, il nerbo delle mie Osservazioni, nemmeno una sillaba. Ah! perchè scottavano. Il valentuomo, che se n’era accorto, ha girato alla larga, e ha finto di non averli osservati. E, per colorir meglio la finzione, ha incolpato me di quel povero artifizio, e mi ha regalato quei titoli che sappiamo. Signor De Sanctis, faccia a mio modo. Li tiri indietro quei titoli; prima che venga qualcheduno a raccoglierli e a farsene un arma per offender lei, che non potrebbe, l’assicuro, in nessun modo difendersene. Neanche con quella famosa sua lezioncina sulla interpretazione dei passi dei Padri relativi alla confessione.

Dei Padri, nelle mie Osservazioni, io non aveva parlato se non incidentalmente; ne aveva parlato soltanto, perchè doveva rispondere al signor E. P., che li aveva tirati fuori. Le mie argomentazioni, nelle quali le citazioni dei Padri non entrano se non come accessorio, possono reggersi da sè, anche senza di queste. E tuttavia, affinchè il lettore perdesse di vista il forte del ragionamento, il signor De Sanctis ha cercato di trascinare il discorso sui Padri, a proposito dei quali dice di credersi in diritto, anzi in dovere di darmi una lezioncina di storia e di antichità ecclesiastica sulla confessione, sembrandogli che io ne abbia gran bisogno.

Domando scusa al vecchio teologo. Ma devo cominciare dal dichiarargli che io non ho punto bisogno di quella lezioncina. Sono quindici anni almeno che la conosco: come sono quindici anni che so che non ha nessun valore, [p. 75 modifica]che è una supposizione, se volete anche ingegnosa, ma troppo apertamente contraddetta dai fatti.

Il signor De Sanctis fa qui ciò che son soliti a fare quelli che, essendo stati preti, sono passati nelle file dei nemici della chiesa, cioè stampano in brevi opuscoletti ed in articoli di giornale le obbiezioni apprese nelle scuole e sui libri di teologia, quando erano in Seminario. E le stampano senza le risposte relative, imparate nello stesso tempo. La gente che non sa nulla di queste cose, o ne sa troppo poco, leggendo quelle obbiezioni, senza le risposte, se ne impressiona, le prende per cose nuove e crede che siano un parto dell’ingegno di chi le fa stampare. E s’inganna.

Il sistema, per esempio, dei diversi generi di confessione, immaginato per aver modo di sfuggire alle argomentazioni fondate sulle testimonianze dei Padri, ed esposto nella lezioncina in discorso, fu pensato dal discepolo di Melantone, Martino Chemnitz, teologo protestante del XVI secolo, che lo espose nel suo Examen concilii tridentini, stampato a Francoforte nel 1585. Ecco le cose nuove del signor De Sanctis. E al Chemnitz hanno risposto da un pezzo, da più che due secoli e mezzo, scrittori celebri con grande sfoggio di erudizione, di scienza, di logica, di brio: e quelle risposte sono riuscite trionfali, tanto che la questione è da considerarsi finita e da non ammettere replica.

Il signor De Sanctis poi, recando compendiato il sistema chemnitziano, non è neanche in grado di adottarlo al suo caso. Per farne la prova contro di me, doveva applicarlo ai passi dei Padri che avevo citato io. Ma niente di tutto questo. Io, per esempio, aveva accennato nelle Osservazioni ad una quindicina di luoghi del Grisostomo. Di questi il De Sanctis non ne ricorda nemmeno uno. I sei passi del Grisostomo, come i molti di altri Padri che adduce, sono quelli stessi riferiti dal Chemnitz. Poteva dare una prova maggiore della sua imperizia, e di ciò che sopra ho mostrato di credere, che la materia della sua [p. 76 modifica]lettera è la solita roba vecchia di bottega, che si vuole esitare come nuova e fatta apposta?

II sistema chemnitziano, prescindendo dalle prime tre maniere della confessione di cui non trattano solo i Padri antichi, ma anche nello stesso modo i predicatori e gli ascetici moderni, senza per questo contrariare la confessione auricolare al sacerdote; e parlando solo di quelle altre che avrebbero, secondo il medesimo sistema, preparato il terreno per l’uso attuale dei cattolici, è basato sopra i due falsi supposti che nella chiesa primitiva la confessione fosse considerata come cosa meramente disciplinare e che non vi fosse in uso se non la pubblica, sicchè la segreta sia una arbitraria innovazione dei tempi posteriori.

Questi supposti, come dico, sono tutti e due falsi. I padri dichiarano espressamente che la rivelazione al sacerdote dei peccati gravi, anche occulti, commessi dopo il battesimo, è, per disposizione divina, assolutamente necessaria per ottenere il perdono; tanto che, fino dai primi tempi, la confessione è da essi chiamata la seconda tavola dopo il naufragio. Lo stesso Chemnitz ha dovuto convenirne. Se non che, invece di cavarne la conseguenza di essere dalla parte del torto, è ricorso al povero spediente di sostenere che sono i padri, non lui, che si contraddicono. Proprio come se un fisico, trovando dei fatti che smentiscono una sua ipotesi, per non essere costretto ad abbandonarla, dicesse che è la natura che è in contraddizione con se stessa.

A chiarir poi falso il secondo supposto, si hanno testimonianze più del bisogno di confessioni pubbliche relativamente recenti, e di confessioni private assai più antiche di quelle. Il Chemnitz si è trovato bene imbarazzato, quando, a provare storicamente il suo sistema, fu invitato a fissare delle epoche. Ne fissava una un po’ antica per la cessazione della confessione pubblica? Ecco che gli mostravano subito delle pubbliche confessioni, anche in epoche più recenti: ed egli era costretto a portare l’epoca [p. 77 modifica]più in qua. Ne fissava una recente? Ecco subito trovate, in contraddizione col suo sistema, confessioni segrete più antiche; e l’epoca bisognava tornare a portarla indietro. La cosa è semplice: l’ipotesi chemnitziana è un’ipotesi storica, che ha contro di sè le date. Nient’altro.

Se non fossi riuscito già troppo lungo per un’appendice di giornale, quanto mi sarebbe facile sviluppare e mettere in tutta la sua luce questo argomento! Ma a che? Quello che ho detto è più che abbastanza, mi pare, per dimostrare che valore abbiano le lezioncine del signor De Sanctis, e che lo stesso è ben lontano dall’essere riuscito nella sua difesa, condotta più colle ingiurie che colle ragioni. Le ragioni sono povere, false, inconcludenti. Le ingiurie hanno giovato soltanto a dimostrare che il torto è dalla parte di colui che si appigliò a sì vile sostegno per non sembrare vinto, per usare delle stesse sue parole.

Tutto questo il signor De Sanctis non vorrà confessarlo, poichè è contrario alla confessione: ma lo sentirà vivamente, ne sono certo, dentro di sè. E del clero di Mantova, internamente, avrà concepito una idea diversa da quella che, scrivendo, dice di averne.

Quanto poi al signor Pettoello, col quale faccio le mie congratulazioni perchè non dissimula di essersi cavata la voglia di questionare con me su questa materia, devo ricordare ancora una volta, che gli inganni contenuti nel suo articolo sulla confessione, messi a nudo dalle mie Osservazioni, restano ancora tutti, nessuno eccettuato, per quelli che intendono e sono in buona fede, a suo carico. E ci restassero solo quelli! Poichè quanti altri ne ha ammannito ai suoi poveri lettori, e prima e dopo, anche di più massicci, come quello dell’articolo sulla notte di S. Bartolomeo, nel quale a S. Pio V, morto nel 1. maggio 1572, si fanno fare tante cose dopo il 6 settembre di quell’anno, cioè quattro mesi dopo che era stato sotterrato. È certo però, che nessuno vorrà maravigliarsi che lo scolaro Pettoello faccia, per esempio, andare in processione i morti, [p. 78 modifica]se il maestro De Sanctis cita i capitoli che non esistono, e fa contare i fatti del 459 alle storie che finiscono la loro narrazione trentacinque anni prima.

(Mantova, giovedì, 15 agosto 1867).


Note

  1. Illam etiam contra apostolicam regulam praesumptionem, quam super agnovi a quibusdam illicita usurpatione committi, modis omnibus
  2. Vedi p. e. D. Bonaventurae, in lib. 4 sent., dist. 17, quaest. 3. E Ioannis Duns Scoti. Quaest. in sent., dist. 18, Venetiis 1597 p. 43.