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discorsi, sono una testimonianza superiore ad ogni eccezione le antichissime ancor vive credenze dei Copti, dei Giacobini, degli Armeni, identiche in questo alle romane. Si potranno trovare delle differenze nella nomenclatura, ma non nelle cose. Il signor De Sanctis direbbe più vero, se affermasse, che le dottrine più si va indietro e meno sono scolpite e fissate nelle definizioni scolastiche e nelle denominazioni scientifiche della teologia. Ma allora non sarebbe più questione di innovazioni, ma bensì di progresso e di sviluppo, che ha luogo nella religione e nella chiesa, come in tutte le cose umane. Quanto a S. Bonaventura e a Giovanni Scoto, dico che nei loro scritti (1) non vi è nulla che non si accordi con quanto definisce il concilio di Trento, nel canone VI della XIV sessione, che la confessione fu istituita jure divino, e che la confessione auricolare non è aliena ab institutione et mandato Christi. Circa S. Tommaso poi ripetiamo solo quanto abbiamo detto nelle Osservazioni, che il concilio di Firenze nel dichiarare la fede della confessione, si è servito delle stesse sue parole: tanto è lungi dal vero, che siano enigmatiche, come afferma il nostro vecchio teologo. Divergenze tra gli scolastici ce ne sono state, come ce ne ha anche adesso fra i teologi; ma che non decidono niente; poichè versano il più delle volte sopra quelle astruserie metafisiche, che essi avevano il vizio di voler mescolare colle dottrine positive.

Perchè al signor De Sanctis non venga la tentazione di volermi ribattere neanche una parola di ciò che qui dico, lo avverto che questi scolastici io li ho avuti fra le mani e li ho studiati più che un poco. Rifletta a questo e si regoli.

Io, secondo il De Sanctis, sono un giuocoliere da bettola, un barattiere, e fondo i miei argomenti sopra un

  1. Vedi p. e. D. Bonaventurae, in lib. 4 sent., dist. 17, quaest. 3. E Ioannis Duns Scoti. Quaest. in sent., dist. 18, Venetiis 1597 p. 43.