Scritti politici e autobiografici/Risposta a Mussolini
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RISPOSTA A MUSSOLINI1
Venerdì 16 maggio (si vedrà più avanti perché importi precisare la data) veniva posto in vendita a Parigi il numero di G. L. dedicato all’impero che Mussolini aveva dichiarato il 9.
In prima pagina, su sei colonne, un grande titolo: «Contro l’impero, per la nazione». Quel titolo reggeva cinque articoli, due pagine di contrattacco politico, storico, economico. Era più che un programma: una contrapposizione di ideali e di destini.
A voi, fascisti, l’impero; a noi, la nazione. A voi la Roma della decadenza; a noi l’Italia repubblicana, comunale, risorgimentale, protesa verso il nuovo umanesimo proletario. A voi lo stato tirannico totalitario, da misurarsi a chilometri quadri e a sagre, lenzuolo funebre della società italiana; a noi le speranze di rinascita di questa società, rimbarbarita e impoverita, ma ricca di tutte le vitalità dell’avvenire e dei fermenti accumulati in quindici anni di lotte cui un genio precoce, Piero Gobetti, morto in esilio, aveva indicato le vie del riscatto con gli ideali dell’autonomia e della rivoluzione liberale operaia.
La terza pagina si apriva con l’editoriale: «Realismo ancora», bilancio freddo dell’oppositore che non vacilla. In esso si riconosceva il fatto della vittoria militare e della conseguente probabile vittoria diplomatica; si prevedeva una svolta nelle cose e nelle coscienze deboli, un periodo difficile nella lotta; si constatava la fine del vecchio antifascismo polemico, negativo, ombra del fascismo, trascinantesi nella speranza del miracolo capovolgitore; si riaffermava la funzione storica di una nuova opposizione che assumendo il fascismo a punto di partenza ed esperienza del secolo, si definisce in nome di principii autonomi e positivi, ossia di ideali, e guarda unicamente al futuro.
Per noi giellisti cotesti sono latinetti vecchi. Difatti il titolo recava: «Realismo ancora». Ma per certi zelanti fascisti convertiti, rimasti, quanto a opposizione, all’Aventino, tanta spregiudicatezza ha fatto impressione. Il 15 usciva il giornale. E il 15 pomeriggio l’articolo era telefonato a Roma.
Il «primo giornalista d’Italia» getta un’occhiata rapida sul testo. Il frenetico bisogno di estorcere consensi dovunque e comunque, lo induce a staccare, mutilandoli, due periodi del nostro articolo: il periodo in cui si dichiara che la vittoria consoliderà provvisoriamente il regime, riducendo i contraccolpi economici; e il periodo in cui si dice che il vecchio antifascismo è morto. Incollati i brani su un pezzo di carta, scrive lui stesso, con la ben nota perizia, i titoli. In alto: «Ironie della storia». Sotto, più in grande: la «Resa a discrezione» politica dell’antifascismo italiano all’estero. Poi ancora: «Il vecchio antifascismo è morto!»
Poche righe di presentazione precedono le citazioni: «Giustizia e Libertà, organo dei fuorusciti italiani, nel suo numero odierno pubblica un articolo editoriale che contiene i seguenti significativi passaggi».
La nota, telefonata la stessa sera del 15 a Milano, appare su due colonne inquadrate sul «Popolo d’Italia» del 16 mattina. Il duce si frega le mani. Il colpetto giornalistico è fatto. Il 9, fondazione dell’impero. Il 16, liquidazione dell’antifascismo. Gli antifascisti ridotti a vivere di iniezioni di canfora, svengono.
Senonché il 16 sera arriva sul tavolo del duce un esemplare di G. L.
Ma dove è la resa a discrezione? I giellisti attaccano l’impero, mi sbattono in faccia non uno ma cinque articoli d’attacco. Altro che resa, imbecille di un corrispondente parigino.
Ordine è dato ai giornali di astenersi dal riprodurre la nota del «Popolo d’Italia». Difatti il silenzio, dopo la stamburata del 16, è, ad eccezione della «Stampa», generale. L’antifascismo morto il 16, è più vivo che mai il 17. La speculazione è abortita. Il duce ha fatto una gaffe. Naturalmente il duce conta sulla censura, conta sulla impossibilità in cui ci troviamo di opporgli in patria una smentita pubblica. Il giornale fuoruscito è la pulce in cospetto al Ministero della Propaganda elefante.
Altro che resa!
La favola della nostra «resa a discrezione politica (!)» farà dunque il giro d’Italia. Chi ci conosce alzerà le spalle. Chi non ci conosce ci riterrà provvisoriamente suicidati.
Ma poi? Poi la verità verrà a galla. Si saprà che G. L. continua come giornale a Parigi e come movimento rivoluzionario in Italia. L’annunziata resa si rivelerà come una ennesima truffa mussoliniana.
— Perché ha truffato? — si domanderà la gente. Evidentemente perché questa G. L. dà noia; perché si annette importanza ai suoi giudizi, alle sue ammissioni. L’opposizione esiste, l’opposizione conta. Un preteso riconoscimento dell’opposizione vale agli occhi del duce più di un omaggio di folla o di un indirizzo dell’Accademia d’Italia.
Il «Popolo d’Italia» ha infiniti abbonati e inserzionisti d’obbligo, ma pochissimi lettori. Ogni ditta, ogni società capitalista è abbonata a dieci, a cento, cinquecento copie che passa al macero, lieta di garantire così, assieme al bilancio della famiglia Mussolini, il proprio bilancio.
Tuttavia tra i lettori ci saranno pure dei giovani fascisti, delle anime candide e ignare, allevate in una visione stereotipa dell’antifascismo. A leggere quei periodi asciutti di G. L., dove è detto pane al pane e vino al vino e si parla di ideali e si afferma l’esistenza di una nuova opposizione, che avranno quei giovani pensato?
Avranno pensato:
— Ci sono dunque, qui o per il vasto mondo, degli italiani che non sono fascisti, che non sono neppure antifascisti vecchio stampo, italiani refrattari all’epidemia imperiale, che credono a un ideale di emancipazione umana, che per questo ideale sono stati capaci di andare in galera, o di troncare vita e carriera facendo la fame in esilio. Chi sono? Che fanno? Che pensano? Quanti anni hanno?
Trenta, venti anni.
Si può dunque aver venti anni e non essere fascisti?
Sì. Ed è l’unico modo di avere venti anni. Mussolini a venti anni era sovversivo.
Esisteva prima del fascismo, questa «Giustizia e Libertà»?
No. È nata dopo. È il frutto della rivolta. È l’anima della rivolta. Vuole essere l’anima della rivoluzione liberatrice di domani.
Perché è sorta? Perché continua?
Guardati intorno, giovane italiano. Vedi la miseria, l’avvilimento, l’ipocrisia regnanti; il vuoto di ideali della società italiana; questa indifferenza fonda, questo scetticismo straripante; l’una gente che impera mentre l’altra langue; il posto che occupa a parole e il posto che non occupa a fatti, nella produzione, nella politica, nella vita civile, l’operaio, il contadino, l’intellettuale libero; il posto tuo, se ti arrischi ad agire o pensare con la tua testa, l’orizzonte che ti si apre in Italia e anche in colonia, se non hai la fortuna di trovarti a capotavola. Scandaglia la tua coscienza. Non c’è letizia; non fermento né speranza. Vegeti come una pianta artificiale senza radici. Sei un giovane tragicamente vecchio cui in nome della giovinezza è commesso di tenere in piedi le cose più vecchie di tutti i tempi: la chiesa, il monarcato, il padronato, il culto di Roma - e una vecchia classe di speculatori del combattentismo che non cederanno il posto ai nuovi combattenti d’Africa.
Scuoti le catene di dosso, giovane italiano. Conoscerai la bellezza del non conformismo e di una lotta autentica. La dignità di una vita libera e responsabile, l’ansia dell’esplorazione nel misterioso futuro. Perderai un impero di cartapesta, ma, come il proletario del «Manifesto dei comunisti», avrai tutto un mondo da conquistare, il mondo dei giusti, degli eguali, il mondo del comunismo liberale, del socialismo umanista, il mondo della coscienza, il mondo per cui lotta «Giustizia e Libertà», movimento rivoluzionario antifascista.
L’Italia del duce.
Ci rivolgiamo ora a lui, al duce. Non è retorico il dialogo. Da lunga pezza sapevamo che ci seguiva con curiosità non scevra di preoccupazione. Ora ce ne fornisce una prova piccola ma significativa.
Che cosa sperava il duce di ricavare dalla nostra morte politica?
Nulla potrebbe ottenere. Nell’ipotesi assurda che noi cadessimo, altri prenderebbe il nostro posto.
Non sente il duce la volgarità estrema di quel suo titolo interpretativo: «Resa a discrezione», che implica resa di italiani ad altri italiani?
L’ideale del duce, nell’ora della vittoria africana e del delirio unanimistico, sarebbe di poter dire che neppure un gruppo di italiani serbò fede nei principii che sospinsero l’umanità nella sua storia: l’Italia a farsi nazione, il proletariato a lottare per emanciparsi, lui stesso a ribellarsi nei suoi giovani anni: fede nella libertà, nella giustizia, nella possibilità per il nostro popolo di riscattarsi e di vivere autonomo e dignitoso, senza duci né tiranni, senza tribunali speciali né grandi feudali dell’industria e della terra, senza censura, senza lustrascarpe accademici e suburra che invade il Palatino.
Quanto pagherebbe il duce per avere anche noi dietro il suo carro, a dire che ci sbagliammo, che i principii per i quali lottammo erano falsi e che ora non resta che liquidare a buon mercato, con la promessa di un posto nell’ovile, come Bombacci, come Labriola.
Finché noi restiamo, finché noi lottiamo, resta il rimorso, resta la vergogna. Noi siamo la rivincita esterna della sua coscienza, l’interrogativo dell’avvenire.
Che Italia lurida e vile ha in mente il duce, dove il tradimento assurge a imperativo categorico! Il sillogismo ufficiale è questo: «Il duce ha tradito. Ma il duce ha sempre ragione. Dunque tutti possono e debbono tradire impunemente». Ché dove tutti tradiscono, nessuno tradisce.
Se anche pochi, invece, rifiutano, l’unanimità è rotta. La coscienza riprende i suoi diritti. La morale anche. E con la morale la storia. E con la storia la lotta politica.
Il totalitarismo fascista, estremo tentativo di salvezza di una classe finita, si rivela sul terreno morale come alibi di coscienza.
No. Noi non tradiremo. Né ci arrenderemo a discrezione.
Un periodo finisce. Un altro se ne apre. Ma la lotta continua.
Il problema dell’emigrazione politica.
All’uomo che aspira a riassumere in sé l’Italia non difetta solo la grandezza autentica; difetta perfino la capacità di adeguare lo stile al suo effimero successo.
Mentre noi ci sforziamo di dare una serietà e perfino di scoprire una ragione teorica al fascismo, rifiutandoci ai motteggi e alle ironie delle quali si compiacque per anni la piccola opposizione, il duce del fascismo non riesce a vedere nei suoi oppositori che male copie sue e dei suoi servi, Fracassa e Stenterelli, gente di baccano e di forchetta, che corron dietro il vento e la corrente.
Volete grande il fascismo? Auguratevi una grande opposizione. Rimpicciolendo noi, rimpicciolite voi stessi.
Affermate di possedere ormai non solo la forza, ma l’entusiastico consenso delle moltitudini. Animo, dunque. Questa è l’ora, per il vecchio sovversivo, dopo quattordici anni di potere assoluto, di fornire le prove decisive.
Non è con l’amnistia che ci riavrete. La liberazione dei prigionieri è una conseguenza elementare. Chi per la nascita di una femminuccia regale spalancò alcune celle, per la fondazione dell’impero avrebbe già dovuto spalancarle tutte.
Il problema dell’emigrazione politica può essere risolto in un modo solo: col ritorno alla libertà, o almeno a una possibilità di effettiva lotta politica. Ma non siete abbastanza forte, né abbastanza coraggioso per tentarlo. Il totalitarismo fascista scaturisce da una insopprimibile necessità di difesa.
Si spalanchino le prigioni, si sgombrino le isole, si sopprima il Tribunale Speciale, si cancellino i decreti di eccezione travasati nel codice Rocco, si ammetta un’opposizione indipendente e libera che sia in grado di proporre agli italiani, in uno stato non più totalitario, altri ideali e altre organizzazioni da quelli ufficiali. Molti allora rientrerebbero, non già per arrendersi, bensì per combattere a viso aperto, con nuovi rischi, se occorre, di rappresaglie e di galera, quella lotta che altrimenti noi siamo decisi a proseguire fino alla morte nell’illegalità e nell’esilio.
Non è la nostalgia della terra dove nascemmo che ci fa soffrire. È la nostalgia della lotta. Soffriamo di questa lontananza, di queste lotte a distanza, di questa ineguaglianza tremenda. Il massimo delitto del fascismo apparirà un giorno quello di avere costretto al silenzio e all’inazione, oppure alla ribellione suprema, le energie più maschie e libere, gli uomini che di ogni paese costituiscono il lievito, il fermento attivo e progressivo. Per dieci che lottano in Italia, mille piegano e si rassegnano. In zone immense non cresce né grano né gramigna: terre incolte, desertiche.
Pure, questo è il destino e noi lo accettiamo con serenità e con sicura fede nel domani.
Sappiamo che la libertà non si dona: si conquista. Da dentro: non da fuori. Fuori si può aiutare un popolo, non sostituirsi ad esso.
A conquistare la nuova libertà italiana dovrà essere il popolo italiano, la nuova generazione che presto scoprirà la contraddizione mortale di questo impero composto non di cittadini ma di servi.
La nostra missione è quella di tener duro quando tutti cedono: di alzare la fiaccola dell’ideale nella notte che circonda; di anticipare con l’intelligenza e l’azione l’immancabile futuro.
Sfidiamo il duce a riprodurre sui suoi giornali questa ultima breve frase di «Giustizia e Libertà».
Se non la riproduce, resterà confermata la speculazione indegna.
Note
- ↑ Da «Giustizia e Libertà»: 21 maggio 1936.