Satire di Tito Petronio Arbitro/25
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CAPITOLO VENTESIMOQUINTO
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allegria. novella della matrona d’efeso.
Intanto Lica incominciava a ravvicinarmisi, e già Trifena gittava addosso a Gitone le ultime goccie1 del suo bicchiero, allorchè Eumolpione, che era assai provvisto di vino, volle recitare alcuni suoi motti contro i calvi ed i bollati; tantochè fatte mille insipide smancerie venne a’ suoi versi, e si mise a raccontarci questa elegietta sui capegli.
Cadder le chiome, ed ahi!
Primo onor di beltà sono le chiome;
Il tristo inverno le rapì; dogliose
Stanno le tempia or che di fregio prive
5Mostran lucida chierca,
De l’onorato pel spogliata e rasa.
O natura ingannevol degl’Iddii,
Che de’ nostri begli anni il piacer primo
Prima pur sciogli! ahi lassa!
10Tu poc’anzi splendevi
Pel tuo bel crin, cui non eguaglia Apollo,
Nè di Apollo la suora,
Or con la testa più del bronzo liscia
E più del fungo oval, che in mezzo agli orti
15Sorge figlio dell’acqua
Fuggi gli scherni, e le fanciulle schivi.
Or perchè ti convinca
Che a te morte sollecita s’appressa,
Vedi che in parte già il tuo capo è morto.2
Più altre cose volea recitare, e peggiori credo io delle prime, quando una damigella di Trifena condotto Gitone sul fondo della nave adornògli la testa con una parrucca della padrona. Cavò pur da una scatola de’ sopraccigli, e destramente coprendo le tracce del rasoio, gli restituì la sua intera bellezza.
Allor conobbe Trifena il vero Gitone, e lagrimando e commossa allor primamente diè un bacio di cuore al fanciullo.
Io benchè lieto che il volto del ragazzo fosse tornato alla sua prima avvenenza, pure spesso copriami la faccia, ben comprendendo di essere mostruosamente deforme, poichè nè Lica persino mi tenea degno di parlar seco. Ma a questo affanno la stessa damigella provvide, la qual chiamatomi a parte mi ornò di capigliatura non meno bella, anzi parvi più vezzoso perchè la mia parrucca era bionda.
Intanto Eumolpione stato protettor ne’ pericoli, e di questa riconciliazione autore, acciò non cessasse l’allegria per mancanza di barzellette, si mise a declamar mille cose contro la leggerezza delle donne, come facilmente s’innamorino, come anche presto si dimentichino degli amanti; e non esservi sì casta femmina, la quale non si riscaldi sino al furore per ingordigia di altr’uomo. Aggiunse che se volevano ascoltarlo ei ci racconterebbe non fatti di antiche tragedie, o nomi in ogni secolo celebrati, ma avventura occorsa a’ tempi suoi. Ciascuno adunque gli occhi e le orecchie a lui rivolgendo, così egli parlò.
Fu già in Efeso una matrona di sì celebre castità,3 che le donne de’ paesi vicini correvano a vederla per maraviglia. Avendo essa perduto il marito, non solo, giusta l’usanza comune, ne seguitò il funerale co’ capegli rabbuffati, e battendosi ad ogni tratto in presenza di tutti il nudo seno, ma volle seguirne il cadavere sino al cimitero, e custodirlo anche dopo che era, secondo si pratica in Grecia, riposto nel monumento, ed ivi abbandonarsi alle lagrime i giorni interi e le notti; nè i parenti poterono, nè gli amici, lei così desolata, e di morire desiderosa, di là distaccare: i magistrati stessi ne partirono senza frutto; di modo che l’esemplar donna da tutti compianta già il quinto giorno toccava senza aver preso cibo nessuno.
Una fedelissima cameriera teneva compagnia all’afflitta, le proprie alle di lui lagrime mescolando, e riaccendeva la lucerna posta nel monumento ogni volta che si spegnea. D’altro non parlavasi in tutto il paese, e gli uomini d’ogni qualità convenivano essere questo un luminosissimo ed unico esempio di pudicizia e di amore.
In questo mezzo il comandante della provincia fe’ crocifiggere alcuni ladri in vicinanza al sepolcro medesimo, dove la matrona piagnea sul cadavere. La notte vegnente il soldato che facea guardia alle croci, onde nessuno ne staccasse i morti per seppellirli, avendo abbadato sì alla lucerna risplendente tra quelle tombe, come ai gemiti della piangente gli venne curiosità, come suol accadere, di sapere chi, e cosa fosse. Discese perciò nel cimitero, e vista quella bellissima faccia, soprastette al primo colpo quasi spaventato da non so qual fantasima o larva infernale; dipoi osservato il giacente cadavere, e scorte le lagrime, e il viso lacerato dall’ugne, s’accorse bentosto di quel che era, e non potere la donna il dolore dell’estinto superare; allora ei portò nel sepolcro la sua cenetta, e cominciò ad esortar la piagnente a non ostinarsi in una inutile afflizione, e guastarsi i polmoni con gemiti che a nulla giovavano: tale essere il comune destino, e il domicilio comune; e dirle insomma tutto ciò che vale a restituire la calma negli animi esacerbati. Ma ella offesa da questo inaspettato conforto tornò a graffiarsi il petto con maggiore trasporto ed a spargere le strappatesi chiome sul disteso cadavere.
Non ristette perciò il soldato; ma con egual premura tentò di somministrare alcun cibo alla poverina, fino a che la damigella, allettata senz’altro dall’odor grato del vino, fu la prima che persuasa tese la mano al pietoso sollecitatore, e di poi, rifocillata della bevanda e del vitto, cominciò a combattere l’ostinazione della sua padrona, e così le disse: che ti avrà giovato questo lutto, se poi resterai morta di fame? se qui viva rimarrai sepolta? se l’anima renderai non ancora chiamata, e pria che il destino l’esiga.
. . . Una gran cura certo
Han di ciò l’ombre, e il cener de’ sepolti!4
Vuoi tu contra il volere del fato risuscitare un estinto? nè vuoi, finchè ti lice, abbandonando la femminile ignoranza, godere del piacer della vita? a ciò deve pure esortarti questo stesso cadavere.
Come non havvi alcuno che di mala voglia ubbidisca, quando si tratti di prender cibo, e di vivere; così la donna indebolita per sì lunga astinenza, piegossi a vincere la sua caparbietà, e il ventre si ristorò non meno avidamente della sua damigella, che prima ne diè l’esempio. Ora voi ben sapete quali stimoli sogliono sopravvenire quand’uno è ben pasciuto. Con questa gentilezza medesima che il soldato avea messo in opera, onde madonna vivesse, con quella si fece ad assaltare la di lei pudicizia. Nè già parve alla buona donna che il giovine fosse nè brutto nè zotico; tanto più che la damigella il mettea in grazia, e andavale dicendo
Ma poi ch’ami, ad amor sarai rubella,
E ritrosa a te stessa? Ah non sovvienti
Qual cinga il tuo reame assedio intorno?5
Ma a che tenervi più a bada? La donna dal vincitor soldato persuasa non seppe nemmanco per l’altra parte restar digiuna; laonde giacquero insieme non quella notte soltanto, in che fecer le nozze, ma quella appresso, e la terza ancora, e intendi colle porte del cimitero sì ben chiuse, che chiunque o straniero o dimestico vi fosse venuto avrebbe stimato che la castissima donna avesse l’anima sul corpo del marito esalata. Di modo che il soldato invaghitosi e della beltà della donna, e di quella solitudine, comperava quant’ei poteva secondo le sue forze, e ne faceva scorta nel cimitero sul principiar della notte.
Infrattanto i congiunti di uno de’ crocifissi, accortisi della negligenza della guardia, distaccarono di notte tempo l’appeso, e gli resero gli estremi ufficj. Quando il soldato, altrove occupato, osservò il dì vegnente una delle croci senza il cadavere, spaventatosi del castigo andò a narrar la cosa alla donna, e ch’ei non era per aspettar sentenza di giudice, ma del suo fallo volersi col proprio ferro punire, e ch’ella disponesse a lui pure uno spazio, sì che il fatal sepolcro all’amico suo ed al marito avesse accomodato.
Madonna tanto pietosa quant’era casta: Deh, disse, ciò non permettan gl’Iddii, ch’io debba a un tempo stesso essere spettatrice della morte di due uomini a me carissimi: io vo’ che si appicchi l’estinto, pria che il vivo si scanni. Fatto questo proposito, ordinò che il corpo di suo marito fosse levato dall'arca, ed attaccato alla vota croce. Il soldato approfittossi del ripiego della prudentissima femmina, e il dì seguente il popolo rimase attonito come fosse il morto sulla croce tornato.
Ascoltavan ridendo i marinai questa novella, e Trifena arrossitasi in volto nascondevalo gentilmente in seno a Gitone. Ma Lica non rise, anzi crollando iratamente la testa disse: se il comandante volea usar giustizia, doveva rimettere nel sepolcro il corpo del marito, e far impiccare la donna. Costui ricordossi al certo i tradimenti della amica, e la derubata sua nave, da cui pe’ miei lascivi diporti dovetti fuggire. Ma non era permesso il parlarne sì per lo disposto dal trattato di pace, come per l’allegria di cui tutti eran colmi, la quale non dava adito a nuovi sdegni.
Note
- ↑ [p. 306 modifica]Segno di amore.
- ↑ [p. 306 modifica]Tra le superstizioni della religione de’ gentili quella vi era, che Proserpina venisse a radere un po’ di ciuffo a colui, che poco tempo dopo dovea morire. Nell’Alceste di Euripide questo ufficio è assegnato a Mercurio. Virgilio dice di Didone che penava a morire perchè
- Nondum illi flavum Proserpina vertice crinem abstulerat...
- ↑ [p. 306 modifica]Petronio non fu il primo a scrivere questa novella, ma ben fu il primo che sì leggiadramente la scrivesse. Apuleio ne fa cenno nel primo libro dell’Asino d’oro, e v’è chi pretende che sia vera storia.
- ↑ [p. 306 modifica]Eneid. lib. 4. v. 34. traduzione di Annib. Caro.
- ↑ [p. 306 modifica]Eneid. v. 38. lib. 4. traduzione di Annib. Caro.