Capitolo ventesimoquarto - Processo, guerra, e trattato di pace

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Petronio Arbitro - Satire (I secolo)
Traduzione dal latino di Vincenzo Lancetti (1863)
Capitolo ventesimoquarto - Processo, guerra, e trattato di pace
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CAPITOLO VENTESIMOQUARTO

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processo, guerra, e trattato di pace.



Il dì seguente tostochè Eumolpione seppe che Trifena erasi alzata di letto entrò in camera di Lica, dove poi che ebbe parlato della felicissima navigazione, che la serenità del cielo promettea, Lica rivolgendosi a Trifena, parvemi, disse, mentr’io dormia che Priapo mi dicesse: Sappi che io ho condotto nella tua nave quell’Encolpo che tu ricerchi.

Inorridì Trifena, e rispose: Ei parrebbe che noi avessimo dormito insieme, perchè parve a me pure, che la statua di Nettuno che è a Baia, alla quale io feci tre incisioni, mi dicesse: Tu troverai Gitone nella nave di Lica.

Comprendi da ciò, soggiunse Eumolpione, essere stato uomo divino Epicuro, che condanna con tanta grazia siffatti fantasmi.


I sogni che di notte
    Ingannano le menti, opra di numi
    Non sono, e non gli invian gli Dei dal cielo.
    Falli ognun da per se. Quando il riposo
    5Regna su i membri nel sopor prostrati

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    Libera d’ogni peso
    Vaga l’anima intorno,
    E riproduce quanto avvenne il giorno.

Colui che nella guerra
    10Fa crollare la terra, e fiamme e foco
    Usa crudel nelle città meschine
    Sogna le frecce, e vede
    Rovesciate falangi,
    E le esequie de’ regi, ed inondati
    15Di sangue sparso i campi.
    Sognano gli Avvocati
    Il Pretorio e le leggi, e palpitanti
    Al chiuso tribunal credonsi avanti.

Altre ricchezze in suo pensier si crea
    20L’avaro, e dalla fossa
    Scava novi tesori. Il cacciatore
    Spigne i suoi cani, ed il nocchier vicino
    A l’estremo destino
    O più sommerge il riversato abete,
    25O lo salva dai flutti.
    Scrive al drudo la druda,
    L’adultera regala, e mentre sogna
    Il can latrando dietro il lepre agogna.
    De’ miseri mortali
    30La notte insomma prolungar fa i mali.


Del resto Lica quand’ebbe espiato il sogno1 di Trifena disse: Chi vieta di visitar la nave, onde non paia che noi trascuriamo le ispirazioni celesti?

Allora colui, che scoprì nella notte il segreto di noi disgraziati, il qual chiamavasi Eso, sclamò prontamente: Chi son dunque coloro, che stanotte radevansi al chiaror della luna? E fu per mia fede un pessimo esempio, perchè odo non esser lecito a chicchessia di [p. 132 modifica]tagliarsi nella nave le ugne o i capegli, fuorchè nel caso che il vento s’infurii col mare.

Lica da queste parole turbato montò in collera, e disse: alcun dunque si rase nella nave i capegli, e ciò in una notte sì placida? Traetemi tosto dinanzi codesti rei, onde io sappia con quali teste debbasi purgare il vascello.

Diedi io quest’ordine, rispose Eumolpione, non certamente per fare una fattucchieria alla nave, dov’io pure mi trovo: come coloro avean capegli orribilmente lunghi, acciò non sembrasse che della nave io facessi una galea, ordinai che si levasse tale squallore da quei birbanti, anche ad oggetto che i caratteri, non dal concorso delle chiome coperti, si affacciassero interi all’occhio de’ leggenti. Tra le altre cose essi consumarono il mio danaro con una druda loro comune, dalla quale nella notte passata li cacciai, tutti pieni di vino e di unguenti: insomma, costoro amoreggiano ancora il resto del mio patrimonio.

Dopo ciò per placare il nume tutelar della nave si ordinò che ci fossero date quaranta sferzate: nè vi fu tempo tra mezzo: i marinai furibondi ci assalirono colle corde, tentando di appagare il nume con sangue abborrito. Ed io pure tre sferzate mi digerii con una gravità spartana: ma Gitone al primo colpo gridò si forte, che la sua notissima voce ferì gli orecchi a Trifena. Non ella sola però conturbossi, ma eziandio tutte le ancelle mosse dalla conosciuta voce accorsero verso il paziente.

Di già colla sua mirabil bellezza Gitone disarmava i marinai, e ancor non parlando erasi posto a pregare que’ manigoldi, quando le ancelle sclamarono ad un tempo: egli è Gitone, Gitone, trattenete quelle barbare mani, egli è Gitone: padrona, soccorrilo.

Trifena tese le orecchie, già disposte a credere, e corse verso il fanciullo.

[p. 133 modifica] Lica, il qual mi conobbe benissimo, accorse egli pure come se avesse udita la voce mia: e non guardommi nè alle mani, nè al viso, ma tosto chinati gli occhi a’ miei lombi, distese galantemente la mano, e mi disse: buon giorno, Encolpo.

Ora chi più si maraviglierà che una balia dopo ventanni riconoscesse una cicatrice,2 di cui sapea la cagione, poichè quest’uomo sagacissimo, malgrado la confusione di tutti i delineamenti del corpo e della fisonomia arrivò sì abilmente a conoscere un fuggitivo con questo solo argomento? Trifena piangea, ingannata dall’apparenza del castigo, perchè veraci credea le incisioni impresse sulla faccia degli arrestati e diessi a interrogar sottovoce in qual prigione ci tenesse chiusi cammin facendo, e quali sì barbare mani infligger potessero sì gran supplicio? Ben però meritarsi alcuna pena cotai disertori che i di lei beneficj avean disprezzato.

Lica saltò su pien di collera dicendo: sciocca femminella tu sei! come se queste lettere fossero ben addentro stampate in quei tagli! Così avesser costoro questa infamia scolpita sulla fronte! noi ne avremmo un piacer sommo. Ma noi siam delusi con artificj da scena, e ingannati da mentita bollatura.

Trifena, la qual non erasi affatto dimenticata degli avutisi godimenti volea, che si perdonasse, ma Lica ancor sovvenendosi della moglie sedotta e delle ingiurie ricevute sotto i portici di Ercole, con volto burbero impetuosamente gridò: io credo, o Trifena che tu debba esserti avveduta che gl’Iddii immortali si danno pensiero delle cose di quaggiù, dappoichè hanno indotto nella nostra nave questi spensierati monelli, e della loro sceleraggine ci avvertirono con sogni conformi. Vedi ora se giovi che a costoro si perdoni, i quali Giove stesso ha trascinati al castigo. Rispetto a me io non sono un crudele, ma temerei che sopra di me ricadesse la pena ad essi risparmiata.

[p. 134 modifica] A questo superstizioso discorso Trifena cambiando favella negò di aver voluto risparmiare il castigo, anzi concorrere ella pure ad una ben dovuta vendetta, ed essa non trovarsi men di Lica adirata, per essere stato in pubblico vilipeso l’onore della sua verecondia.

Quando Lica vide Trifena uniforme, ed inclinata a vendicarsi volle che ulterior pena ci fosse ingiunta, il che sentendo Eumolpione tentò con queste parole di mitigarlo.

Questi sciagurati, diss’egli, la cui morte dipende dalla tua vendetta, implorano, o Lica, la tua misericordia e me a quest’ufficio hanno scelto, come persona qui nota; pregandomi di conciliarli coi loro antichi amici. Voi tenete per certo che questi ragazzi sieno caduti a caso ne’ presenti lacci: laddove ogni navigatore di nulla primamente s’informa che di colui, alla cui diligenza si affida. Raddolcite adunque gli animi già da tal penitenza soddisfatti, e permettete ad uomini liberi di andarsene senza oltraggio ove si vogliono. Anche i più crudeli ed implacabili padroni frenano la lor sevizie, quando il pentimento riconduce i disertati; e noi perdoniam pure ai nimici, che spontaneamente si danno.3 Che pretendete di più? che più bramate? supplichevoli al nostro cospetto si giacciono, giovani, nobili, galantuomini, e quel che è più a voi per familiar nodo in altro tempo congiunti. Se essi vi avesser per dio carpito il danaro, se tradita la fede, di questa pena che pur avete sott’occhi dovreste esser paghi. Osservate sulla lor fronte le marche della schiavitù, osservate quei liberi volti per la volontaria applicazione delle leggi penali infamati e proscritti.

Interruppe Lica la difesa dell’avvocato, dicendogli: non imbrogliar la causa, ma tutto esponi con ordine.

E prima di tutto, se costoro son venuti di lor volontà, a che tagliarsi i capegli? E chi si trasforma la faccia è più disposto ad ingannar che a dar soddisfazione.

[p. 135 modifica] Dipoi se voleano ottener grazia per via di un intercessore, perchè hai tu fatto tante cose per nasconder coloro che tu assistevi? Dal che si deduce che a caso que’ tristi son caduti ne’ lacci, e che tu hai usato astuzie onde eluder la forza del nostro risentimento.

Perchè, rispetto al rimprovero che ci fai, gridando che liberi sono e galantuomini, pon mente che con questo argomento tu non renda peggior la tua causa. Che devon fare gli offesi, quando i rei si presentano al castigo? Ma essi ci furono amici; tanto maggiore perciò ne dev’esser la pena; perchè chi offende gli ignoti si chiama ladrone, e chi gli amici, chiamasi poco meno che parricida.

Eumolpione distrusse questa non equa declamazione, dicendo: Io capisco che ciò che più nuoce a questi sgraziati fanciulli si è l’aversi tagliati i capegli di notte, e sembra da ciò che non siano venuti da se nella nave, ma capitativi. Io vorrei spiegarvi la cosa tanto schiettamente, quanto semplicemente fu fatta. Essi voleano pria d’imbarcarsi alleggerirsi la testa d’un peso molesto e superfluo; ma il vento assai propizio sospese la proposta acconciatura, nè poterono immaginarsi che fosse il pregio dell’opera studiar il luogo dove eseguire ciò che voleano, nulla sapendo essi nè di augurj, nè di leggi marinaresche.

A che serviva soggiunse Lica, che venendo per pregar si radessero? forse perchè le teste pelate muovon più compassione? Ma che giova cercar di saperne il vero dall’avvocato? Che ne dì tu, o ladrone? Con qual salamandra ti sei bruciate le sopracciglia?4 A qual Dio hai appeso in voto la capigliatura? Rispondi, o tossico.

Io spaventato dal timor della pena stavami tutto stordito, nè sapeva che dirmi in cosa sì manifesta; oltracciò io era mesto, e difforme, non solo per vergogna della testa pelata, ma anche della nudità delle [p. 136 modifica]sopracciglia pari a quella del capo, sicchè io nulla osava nè far nè dire. Quando poi con umida spugna ci fu lavata la faccia lagrimosa, e che l’inchiostro si distese su tutto il viso, e tutti i lineamenti quasi da un nembo di caligine rimaser confusi, l’ira diventò furore. Eumolpione si dichiarò che non avrebbe sofferto che alcun ci offendesse contra i diritti e le leggi, e si oppose alle minacce di que’ manigoldi non solo con la voce, ma ancor colle mani. Il suo garzone si unì a lui, poi un marinaio, ed un altro, deboli però, e più buoni a far maggiore la quistione, che ad aiutar colle forze.

Io non pregai altrimenti in favor mio, ma alzando le unghie agli occhi di Trifena, gridai fuor dei denti e ad alta voce, che mi sarei servito delle mie forze se quella rea donna, che sola in tutta la nave era da castigarsi, non si fosse distaccata da Gitone, e ch’io l’avrei insultata.

Lica per questa mia insolenza più iratamente s’inviperì, sdegnato che io tanto gridassi per un altro, abbandonando la mia causa.

Nè fu meno istizzita delle ingiurie Trifena; sicchè tutta la turba del vascello si divise in fazioni.

Di quà il barbier mercenario distribuì a noi i ferri del suo mestiere, armandosene egli stesso: di là la famiglia di Trifena si dispone colle mani vote. E nè lo schiamazzo delle ancelle dissipò gli accampati, nè l’avvisar del piloto, il quale nient’altro dicea che di volersi torne dal governo del naviglio, se non cessava un tumulto cagionato dalla libidine di alcuni malvagi.

Ciò non pertanto il furore de’ combattenti continuò, quelli per vendicarsi, noi per salvar la pelle. Molti quindi cadean semivivi da una parte e dall’altra, molti sozzi del sangue delle ferite ritiravansi come da una battaglia; nè ancora indebolivasi in veruna parte lo sdegno.

Allora il valoroso Gitone accostando il fatal rasoio [p. 137 modifica]alla sua virilità minacciò di voler troncare la causa di tanti guai, ma impedì Trifena un delitto sì grande, promettendogli perdono. Più volte io pure mi posi alla gola un coltello da barbiere, con tanto pensier di uccidermi, quanto ne avea Gitone di far quello ch’ei minacciava. Ma egli rappresentava più francamente la parte sua, perchè vedeva di aver quel rasoio, col quale già erasi tagliata la gola.


Erano i due partiti in faccia un dell’altro, nè parea che il combattimento avesse a rallentarsi, tanto che il piloto stimolò bruscamente Trifena, acciò a guisa di parlamentario provocasse una tregua. Data dunque e ricevuta la vicendevol promessa, giusta l’antica usanza, ella distese un ramoscello di ulivo preso dalla immagine della divinità protettrice del legno, ed entrata arditamente a parlare, così disse:


Qual di guerra furor pace a noi toglie?
Or che fecimo noi? non qui trasporta
Il nemico troian la dolce moglie,
De l’ingannato Atride,
5Nè Medea furibonda
Col sangue del fratel tra noi combatte;
Ma un disprezzato amore
Qui spiega il suo furore.
Deh chi l’arme incalzando infra quest’ire
10Chi affretta la mia sorte?
V’ha cui non basti la mia sola morte?
    Ah non vogliate vincere
        Il mare in crudeltà!
        Ah non scavate il vortice
        15Che poi c’inghiottirà.


Come la donna si fu con questo appassionato gridore manifestata, la zuffa rimase alquanto sospesa, [p. 138 modifica]indi dateci pacificamente le mani, tutta la guerra ebbe fine. Di questo istante di pentimento valendosi Eumolpione nostro capitano, diè prima di tutto una solenne lavata di testa a Lica, poi firmò il trattato di pace, di cui questo era il tenore.

Che tu, o Trifena, per tua propria risoluzione non ti debba lagnare dell’insulto avuto da Gitone, nè che tu abbi a rimproverarlo o a vendicarti, o in qual siasi altro modo a perseguitarlo, per quanto può essere sin qui avvenuto: e che nulla tu debba comandargli contro sua voglia, nè abbracciamenti, nè baci, nè copula venerea, fuorchè pagando per ciascuna di queste cose cento denari moneta corrente.

Così pure che tu, Lica, di tua propria risoluzione, non abbi ad ingiuriare Encolpo con parole minacciose, o con bruscheria, nè a cercarlo dove dorma la notte: e in caso che lo cerchi, pagherai per ciascuna ingiuria dugento danari moneta corrente.

Stabiliti i patti in questi termini, deponemmo le armi, e perchè anche dopo il giuramento non rimanesse nell’animo alcun resto di collera, ci baciammo, per distruggere la memoria del passato.

Sparvero gli odj per comune disposizione, e vivande recate nel luogo della zuffa ci unirono in allegro convito. Tutta quindi risuona la nave di canti, e siccome una calma improvvisa ritardava il cammino, chi i pesci guizzanti cacciava col forchetto, chi cogli ami lusinghieri seduceva la preda mal volenterosa. Venivan pure a posar su per gli alberi degli augelli marini, che l’accostumato nocchiero sapea ingannare con sue cannimede coperte, sicchè allacciandosi sopra il vischio, prendeansi con le mani; l’aria portavasi a volo le piume, e la leggiera schiuma ne attortigliava pei flutti le penne.



Note

  1. [p. 305 modifica]Soleano espiarsi i sogni lavandosi il capo e le mani con vino misto ad acqua, od immergendosi interamente in un fiume, al che allude quel passo di Persio nella seconda Satira, et noctem flumine purgas.
  2. [p. 305 modifica]Allude a ciò che Omero narra di Euriclea nodrice di Ulisse, la quale dopo vent’anni di assenza lo riconobbe ad una cicatrice che avea in una gamba.
  3. [p. 305 modifica]Notisi in questo passo, che il far prigionieri i nimici, allorchè cedeano le armi, e non trucidarli, come più anticamente si usava, era già ai tempi di Nerone tenuto per massima inalterabile, nel gius delle genti. Locchè non tutti vogliono accordare.
  4. [p. 305 modifica]Il sangue della Salamandra, dice Dioscoride, fa cader i peli, ove tocca. Il tutto sta a trovare una Salamandra, checchè dicansi alcuni Naturalisti, e comunque assicuri quello strano cervello di Benvenuto Cellini di averla veduta una volta nel fuoco della sua cucina.