Satire di Tito Petronio Arbitro/26
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CAPITOLO VENTESIMOSESTO
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violazione de’ trattati. naufragio.
Trifena stavasi intanto in grembo a Gitone, or mille baci sul petto imprimendogli, ora accomodandogli sulla calva fronte i capegli.
Io malinconico e indispettito di questa rinnovata amicizia, nè di cibi nè di bevande curavami, ma all’uno ed all’altra volgea di traverso occhiate torve e feroci. Tutti que’ baci, tutti que’ vezzi, e ogni altra mollezza che l’oscena femmina a lui facea, erano tante ferite al mio cuore; nè ancora conosceva io stesso, se più del fanciullo sentissi dispetto, perchè mi rubava l’amica, o più dell’amica, che il fanciullo mi seducea. L’una e l’altra cosa era orribile agli occhi miei, e più affliggente della schiavitù passata. Aggiugni che nè Trifena parlavami come confidente e già suo ben accetto adoratore, nè Gitone giudicavami degno di finire il suo bicchiero, nè, ciò che è peggio, il discorso mi rivolgeva forse temendo, per quel ch’io credo, di non riaprire la piaga ancor fresca di Trifena, sul bel principio che riacquistava la di lei grazia. Lagrime figlie del mio dolore innondavanmi il seno, e gemiti dal singhiozzo interrotti, quasi mi uccidevano.
Trovandomi così afflitto, ma reso più vago dalla bionda mia zazzera, Lica acceso esso pure di nuovo amore, drizzavami obliqui sguardi, e tentava di rimettermi a parte de’ suoi piaceri: nè sosteneva altrimenti la serietà di un padrone, ma pregava con l’affabilità di un amico, e stette un pezzo, ma sempre invano, istigandomi: infine, costantemente rispinto cangiò l’amore in furore; e usò ogni modo per ottener colla forza il suo capriccio; ma in quel punto entrata inaspettatamente Trìfena vide il disordine di lui, ond’egli turbatosene si raffazzonò presto presto, e scappò fuora.
Dall’altra parte Trifena vieppiù riscaldatasi chiese a che tendea quella sfacciata aggressione di Lica, e mi obbligò d’informarnela; ella fatta pel mio discorso più ardente, e le antiche dimestichezze ricordando, procurò di ricondurmi alle primitive delizie; ma stanco io di tanti incitamenti, mi schermii da’ suoi vezzi. Per il che fatta ella furibonda d’amore mi cinse con larghissimo abbraccio e mi serrò sì stretto che io gettai un grido. Accorse al rumore una delle damigelle, e naturalmente pensò, che io tentassi rapire a Madonna la grazia che io a lei rifiutava, sicchè scagliandosi tra mezzo ci distaccò. Trifena per tal modo schernita, e non appagata nel suo libidinoso furore mi si rivolse con fierezza, e minacciandomi, corse a Lica a fine di vieppiù stimolarlo contro di me, e di opprimermi con reciproca vendetta.
Bisogna però sapere che io fui altre volte carissimo a questa damigella, quand’io era il drudo di Madonna, onde mal sostenne l’avermi sorpreso in quel modo con Trifena, e mandava grandissimi sospiri, de’ quali chiestale io istantemente la causa, ella dopo alquanto di ripugnanza così proruppe: se alcuna gentilezza pur ti rimane non far più conto di colei quanto di una bagascia; e se ti senti d’esser uomo, bada, non appressarti a quella chiavica.
Queste cose mi affliggevano, e ciò che più m’inquietava si era che Eumolpione venisse a sapere il fatto: perchè codesto intemperatissimo verseggiatore potea volermi vendicare contro la creduta rea, e tale indiscreta premura mi avrebbe senza dubbio messo in ridicolo, ciò che mi teneva in maggiore agitazione.
Ma intanto che io studiava tra me come fare che Eumolpione nulla sapesse, ecco che egli entra improvvisamente, informato di tutto, perchè Trifena ogni cosa avea riferito a Gitone, a di lui carico tentò avere un compenso del mio rifiuto: laonde Eumolpione era in grandissima stizza, tanto più che siffatte insolenze violavano dirittamente la contratta alleanza.
Quando il vecchio mi ebbe veduto dolermi del mio destino, volle, ch’io gli narrassi come la faccenda era ita. Io adunque a lui, che già ben lo sapea, dissi ingenuamente tanto l’arroganza sfacciata di Lica, quanto i trasporti lascivi di Trifena: locchè udendo Eumolpione giurò con termini chiarissimi ch’egli ci avrebbe assolutamente vendicati, e che gli Iddii erano assai giusti per non lasciare impunite tante scelleraggini.
Intanto che in queste parole e discorsi si occupavano il mare erasi fatto brutto, e le nuvole sparse dintorno aveano oscurato il giorno. Spaventati i marinai accorsero all’opera loro, procurando a forza di vele sottrarsi alla procella, ma nè il vento spignea i flutti direttamente, nè il piloto sapea ove drizzare il cammino: talvolta il soffio cacciavaci verso Sicilia, e più spesso aquilone, che domina i lidi d’Italia, volgea da questo e da quel lato la combattuta nave, e ciò che divenne più pericoloso di ogni bufera, improvvise e dense tenebre nascosero in modo la luce, che il piloto non arrivava a veder tutta la prora. Laonde, vista apertamente ogni speranza perduta, Lica il prepotente Lica, tremando alzò supplichevole le mani a me, dicendomi: O Encolpo: Aiutaci tu pure in questo periglio, col restituire al vascello quella sacra veste, e quel sistro. Abbici, per dio, compassione siccome è tuo costume. Ei parlava tuttavia quando un colpo di vento lo scagliò in mare, ove tornatosi a galla, la tempesta con un fatal gorgo lo involse, e lo inghiottì.
Quanto a Trifena alcuni schiavi fedelissimi la presero rapidamente, e postala nel palischermo colla maggior parte de’ suoi arnesi, la liberarono da una morte sicura.
Io abbracciatomi a Gitone gridava piangendo: questo almeno meritavam dagli Iddii, che in una egual morte ci avviticchiassero: ma la crudel fortuna non vuole: le onde omai rovesceranno la nave: il mare sdegnato omai dividerà i nostri teneri amplessi. Ah! se tu amasti Encolpo di vero cuore, baciami finchè vi è tempo, e ruba quest’ultimo piacere al destino che ci sovrasta.
A queste parole Gitone si levò la sua veste, e della mia coprendosi accostommi la faccia ai labbri, e perchè i flutti invidiosi non ci dividessero, ci legò dintorno ambedue con una cintura, dicendo: il mar, se non altro, assai più lungo tempo ci porterà congiunti: che se di noi pietoso ci spignesse ad un lido medesimo, o alcun passaggiero per naturale misericordia ci darà sepolcro, o alla fin fine ce lo darà l’inerte sabbia portatavi da nuova ira di mare. Io questo estremo nodo soffersi, e come giacente sul letto dell’agonia aspettavami la morte, che più oramai non mi affliggea.
La procella intanto compì il volere del fato, e gli ultimi avanzi della nave distrusse. Più non rimanea nè albero, nè governo, nè cordaggi, nè remi, e come rozza ed informe materia andavasene a seconda de’ flutti.
Sui piccoli legni accorsero speditamente alcuni pescatori pensando di far bottino, ma come videro persone disposte a difendere le cose sue, così mutarono il loro crudel consiglio e vennero ad aiutarci.
Allora standocene tutti insieme, udimmo un gridare insolito, che sortia di sotto dalla camera del piloto, ed un gemito simile a quel di una bestia, che cerchi di liberarsi. Tenendo noi dunque dietro a quel chiasso trovammo Eumolpione seduto, che schiccherava versi sopra un grandissimo foglio. Maravigliandoci noi che costui sull’orlo della morte si occupasse a scriver poemi, lo trassimo di colà in mezzo ai suoi gridi, e gli dicemmo che facesse cervello. Egli però così frastornato andò in collera e gridò: lasciatemi far la chiusa: la difficoltà della poesia stà nella fine. Ma io messe le mani addosso a codesto pazzo, accennai a Gitone che accorresse, onde strascinare a terra quello schiamazzante.