Satire (Giovenale)/Satira II

Satira II
I bagascioni ipocriti e sfacciati

../Satira I ../Satira III IncludiIntestazione 28 dicembre 2012 75% Poesia

Decimo Giunio Giovenale - Satire (I secolo)
Traduzione dal latino di Raffaello Vescovi (1875)
Satira II
I bagascioni ipocriti e sfacciati
Satira I Satira III
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SATIRA II


I bagascioni ipocriti e sfacciati.


Fuggir di là dai Sarmati e dal mare
Gelato io sì vorrei, qualor s’impanca
A parlar di costumi certa gente,
Che mentre i Curi1 a scimmiottar si sforza,
Vive nei baccanali. In primo luogo,
Fior d’ignoranza, avvegnachè tu trovi
In casa lor dei busti di Crisippo
Da per tutto: poichè per una cima
D’uomo è tenuto fra costor, chi puote
Comperar d’Aristotile o di Pittaco
Il ritratto, e mostrar sugli scaffali
La statua di Cleante in sentinella.2

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   Non credere all’aspetto: ogni vicuzzo
È pien di bagascioni che si danno
L’aria di gravità. Tu gridi contro
Le laidezze altrui, tu fra i cinedi
Socrateggianti il più famoso e sozzo?
L’ispide membra, è ver, le dure e folte
Setole delle braccia, un cor feroce
Promettono di te; ma delle tue
Prodezze il sol chirurgo ha in man la prova,
Quando mena il coltello, e se la ride.
    Più di tacer che di parlare amanti,
Misuran le parole:3 hanno i capelli,
Come le ciglia, corti.4 È mille volte
Più sincero e più schietto Peribomio,
Che la sua pecca al volto e all’andatura
Rivela; ond’io ne do la colpa agli astri.
L’ingenua e pazza foja di siffatti
Merta pietà non che perdono: e peggio
Son quelli assai, che come tanti Alcidi
Si scaglian contro simili brutture;
E mentre han sempre la virtute in bocca,

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Si tuffano nel brago. «O Sesto, o mostro
Di libidin nefanda, aver poss’io
Suggezione di te?» grida Varillo
Infame, «ove son io di te più vile?»
Chi è dritto, dia la baja allo sbilenco,5
E il bianco al moro; ma si può sentire
Della sedizïon sparlare i Gracchi?
Chi non impreca il mondo alla rovescia,
Se Verre ha in uggia i ladri, e gli assassini
Milone? se gli adulteri condanna
Un Clodio, ed i Cetegi un Catilina?
E se di Silla contro il fiero editto
Alzan la voce i tre scolari suoi?6
Tale, pochi anni addietro, era il contegno
Dell’adultero Prence, che polluto
D’incestuosi abbracciamenti, allora
Richiamava in vigor le più severe
Leggi da spaventar Venere e Marte,
Non che gli uomini tutti, quando appunto
Giulia nipote il fianco, sì fecondo
Di tanti aborti, apriva, e fuor buttava

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Strappi di carne simili allo zio.7
Non è dunque il dover se fin la feccia
Del lupanare i finti Scauri sprezza,
E con i morsi ai frizzi lor risponde?
    Un di costor, che con fiero cipiglio
Urlava ogni momento: «or dove sei
O legge giulia?8 dormi?» a Lauronia9
Fe scappar la pazienza; e sogghignando
Ella gli disse: «o tempi fortunati,
Che un sì forte puntello dei costumi
Trovano in te! la pudicizia in Roma
Omai rifiorirà, poichè dal cielo
Piovve il terzo Caton. Ma le pomate,
Onde ti sa l’irsuto collo, dove,
Dimmi, le compri tu? senza arrossire
Mostrami la bottega e il bottegajo.
Che del resto, se gli ordini e le leggi
Debbonsi rinfruscar, prima a citarsi
Sia la legge Scantinia.10 Osserva e scruta
Gli uomini prima: essi di noi fan peggio;
Ma stretti insieme come una falange.

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Del numero si fanno e schermo e scudo.
I lascivi tra lor son carne e unghia.
Il nostro sesso così brutti esempi
Non darà mai: non si trastulla insieme
Vedia con Cluvia, e Flora con Catulla.
Ma Ispon va sotto ai giovani, e si smunge
Per doppia foja. Discutiam noi forse
Le cause? abbiam noi conoscenza alcuna
Del diritto civile; e il vostro fôro
Coi clamori assordiam? Poche di noi
Fanno la lotta; e il pane degli atleti11
Mangiano poche. Voi però la lana
Traete ed annaspate, ed il filato
Riportate in panieri; voi d’Aracne,
Più destri e di Penelope, trillate
Il fuso pregno di sottile stame;
Come fa la baldracca scarruffata
E seduta sul toppo.12 A tutti è noto
Perchè nel testamento Istro chiamasse
Unico e solo erede il suo liberto;
E perchè in vita così largo fosse

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Colla moglie di lui. Quella fia ricca
Donna, che giace terza in ampio letto.
Perciò prendi marito, e acqua in bocca;
Frutta il silenzio gemme e diamanti.
E dopo ciò così dura sentenza
Si dà di noi: questo si chiama, ai corvi
Far grazia, e dare addosso alle colombe».
    A queste verità chiare e lampanti,
Col cor tremante scapolaron via
Le nostre stoichesse; indizio certo
Che Lauronia li avea colti sul vivo.
    Che non faranno gli altri, se tu, o Cretico,
D’ermisino13 ti vesti; e mentre il popolo
Di tanta audacia sbalordisce e mormora,
Sali in bigoncia, e di tua lingua i fulmini
Sulle Pollitte scagli e sulle Procule?14
Fabulla è condannata per adultera,
E Carfinia, se vuoi, merita il simile:
Ma nessuna, sebbene in tal discredito,
In questa veste vorria farsi scorgere.
― «Ma luglio scotta; io brucio». ― E tu piuttosto

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Perora ignudo: è la pazzìa men turpe.15
Oh sì! che in cotest’abito t’avrebbe
Udito promulgar leggi e diritti
Quel popol vincitor grondante ancora
D’aspre ferite, e quell’alpestre volgo
Tornato or or da maneggiar l’aratro!
Che non diresti tu, se in tale arnese
Un giudice vedessi? E non disdice
Perfino a un testimon così sottile
Abbigliamento? In questa foggia, o Cretico,
Traluci quell’indomito e feroce
Mastro di libertà, che tutti sanno.
Le pratiche t’han dato questa tigna;
E a molti la daran, come di pecore
O di porci in un branco un sol comunica
A tutti gli altri la scabbia e la forfora;
E basta un chicco per guastare un grappolo.
Da questa moda a più brutte faccende
Adagio adagio passerai: la scala
Dei vizi non discendesi d’un salto.
In breve ti faranno uno dei loro
Quelli che in casa cingonsi la fronte

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Di lunghe bende, e di molte collane
Ornansi il collo; e offrendo la pancetta
D’una porcella primajola e vino,
Placan lor Bona Dea.16 Contraria usanza
Le femmine allontana, e quelle soglie
Non passa alcuna: ai soli maschi aperta
È l’ara della Dea. «Fuori», si grida,
«Fuori, o profane: qui non s’ode femmina
Sparger di tibia o corno il flebil suono».
    Segretamente al lume delle tede
Celebravano i Batti orgie siffatte,
E stancavano l’attica Cotitto.17
Questi con nerofumo inumidito
E con un ago obliquamente allunga,
E tinge i sopraccigli e le palpebre
Con occhi imbambolati; in un priapo
Di vetro beve un altro, e porta in dosso
Finissima gamurra cilestrina
A rotelle dipinta; e il folto e lungo
Crine raccoglie in una reticella
A fili d’oro: e quando il servo giura,

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Del suo signore la Giunone invoca.18
Un terzo di costoro in man lo specchio
Tiene, armatura del passivo Ottone,19
Ch’egli portava con più boria e fasto
Che Turno l’asta d’Attore d’Aurunca;20
E in quello si mirava, quando in campo
Levar faceva li stendardi. È cosa
Degna che i nuovi annali e la moderna
Storia tramandi ai posteri, uno specchio
Di civil guerra fra i bagagli. Oh! certo
È da gran capitano uccider Galba,21
E lisciarsi la pelle; è gran costanza
Di sommo cittadin spinger l’ingorde
Brame del Palatino ai ricchi arredi
Dal campo di Bebriaco,22 e d’inzuppato
Pane coi diti inzavardarsi il muso!23
Tanto non fece mai nel suolo Assiro
Semiramide armata, ovver la mesta
Cleopatra sugli Aziaci navigli.
    Qui niun pudore in conversar, nessuna

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Creanza al desco; qui gl’infami riti
Di Cibele sfacciata; e la licenza
Sfrenandosi cinguetta oscenamente.
E più d’ogni altro in fanatismo eccede
«Un vecchio bianco per antico pelo»,24
Pontefice del culto: esempio raro
E memorando di smodata gola;
Maestro da pagarsi a peso d’oro.
Che fan dunque costor? ben fòra il tempo
Di pigliare un rasojo, e a mo’ de’ Frigi
Smembrarsi dell’inutile brincello.
    A un sonator di corno o di trombetta
Recava in dote quattrocentomila
Sesterzi Gracco: firmossi la scritta:
Fur dati i mirallegri: s’imbandisce
Un lauto pranzo; e la novella sposa
Si giacque col marito.25 O maggiorenti,
Bisogna qui l’Auruspice o il Censore?26
Avresti, se è permesso, più ribrezzo,
E maggior mostro ti parrebbe mai,
Se una donna un vitello, od una vacca

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Figliasse un agnellino? Aureo monile,
E lunga gonna, e il vel nuziale indossa
Chi dianzi andava in volta sotto il peso
Degli ancili fatali al collo appesi,
Tutto grondante di sudore.27 O Padre
Di Roma, donde mai tanta vergogna
Ai pastori latini? e donde mai
Questo infame prudor che i tuoi nipoti
Fruga, o Gradivo? Ad un altr’uom si dona
Uom per natali chiaro e per fortuna.
E tu l’elmo non squassi, e colla lancia
Non subissi la terra; o almen col padre
Non ti risenti? Fuori dunque, e sfratta
Da questo campo, che ti fu sì caro,
Ed or non curi più. ― «Domani a bruzzolo
Un dover mi richiama nella valle
Di Quirino». ― «E sarebbe?» ― «Oh tu nol sai?
Si fa sposa un amico; ma non vuole
Che vi sia molta gente». ― Se si campa,
Senza dubbio vedrem simili nozze
Farsi in palese; e scriver si vorranno

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Allo stato civil. Se non che a queste
Spose una grande spina in cor sta fitta.
Che partorir non ponno, e colla prole
Ritenere i mariti. Ma fa bene
Natura di non cedere ai capricci
Dell’uom le leggi, onde governa i corpi.
Sterili si morranno; e lor non giova
La medichessa e ben paffuta Lide
Coi barattoli suoi; nè l’aver porto
Ambe le mani all’agile Luperco.28
29 (Ma si coperse di maggior vergogna
Un altro Gracco, quando col tridente
In mano e scamiciato in mezzo al circo
A correre si diè coi gladiatori:
Ei de’ Capitolini e dei Marcelli
Per nascita più chiaro, e dei nipoti
Di Catulo e di Paolo e dei Fabi,
E di quanti altri siedono al teatro
Nei primi posti; non escluso quello,
Pel cui favore egli gettò la rete).30
    Che sonvi i Mani e un sotterraneo regno,

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E negre rane nella stigia gora,
E un navalestro, e un’unica barchetta,
Che l’anime trasporta a mille a mille;
Più nol credono i bimbi, se ne scarti
Quelli che van senza pagare al bagno.31
Ma poni che sia vero: or che diranno
Curio, Fabrizio, ed ambo li Scipioni,
E Camillo, e di Cremera lo stuolo,
E tanta gioventù perita a Canne,
E gli altri prodi; allorchè quindi giunge
Un’ombra di tal gente a lor dinanzi?
Purificarsi essi vorrian, se il fuoco,
Lo zolfo, l’acqua e il lauro avesser pronti.
Ahi miseri! laggiù tutti travolti
Noi siam pur troppo! Oltre l’Ibernia, l’armi
Spingemmo, e le pur dianzi Orcadi vinte,
E la Bretagna, ove la notte è breve:
Ma quelle cose che or si fanno in Roma
Dal popol vincitor, no, non si fanno
Da quei popoli vinti. ― «Eppur si narra,

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Che l’armeno Zalace, più bardassa
Di tutte le bardasse, fu contento
Di darsi in braccio ad un tribun». ― Li esempi
Vedi che cosa fanno! egli era ostaggio
Venuto in Roma: qui si fanno gli uomini.
Sol che la gioventù qualche dimora
Vi faccia, non le mancano amatori.
Brache, coltelli, freni, sferze, tutto
In abbandono.32 Così sull’Arasse33
Riportano di Roma i bei costumi.

Note

  1. [p. 147 modifica]Curio Dentato, tre volte console, fu di costumi severissimi: vinse i Sanniti, i Sabini, i Lucani e Pirro; e ai primi, che avean cercato di corromperlo coi doni, rispose che amava meglio di comandare a chi possedeva l’oro, che possedere l’oro stesso.
  2. [p. 147 modifica]Crisippo, Pittaco, Cleonte, tre filosofi stoici.
  3. [p. 147 modifica]Il parlar rado e poco è da persone autorevoli. Parlavan rado, con voci soavi: dice Dante, volendoci ritrarre la filosofica famiglia del Maestro di color che sanno.
  4. [p. 147 modifica]Portare i capelli lunghi era, come si direbbe oggi, da coglie: però li stoici si tosavano rasente la cotenna.
  5. [p. 147 modifica]Un nostro proverbio dice: Chi burla lo zoppo, guardi di esser diritto.
  6. [p. 147 modifica]I triunviri Ottaviano, Lepido e Antonio.
  7. [p. 147 modifica]Questo principe era Domiziano, il quale richiamava in vigore le leggi più severe d’Augusto contro il mal costume, nel mentre che teneva una pratica scandalosa con Giulia figlia di suo fratello Tito e maritata a Flavio Sabino, al quale la rapì. Essa più volte ingravidò, e sconciossi, sicchè finalmente ne morì. Così racconta Svetonio. Dom. c. 22.
  8. Satire (Giovenale).djvu/147
  9. [p. 147 modifica]Per bocca di questa Lauronia, donna impudica e linguacciuta, mostra il poeta come gli uomini erano più scostumati e dissoluti delle donne; le quali non usurpavano almeno i diritti e gli uffici maschili, mentre gli uomini s’infemminavano in tutto e per tutto.
  10. [p. 148 modifica]Legge contro i bagascioni che si prostituivano e corrompevano gli altri.
  11. [p. 148 modifica]Era una specie di pane azzimo cotto sotto la cenere, il quale credevasi che desse vigore alle membra, e chiamavasi coliphium.
  12. [p. 148 modifica]Le parole del testo son queste: horrida quale facit residens in codice pellex. Pellex a pelliciendo era propriamente la donna che tirava alle sue voglie il marito altrui; e qui pare che Giovenale voglia accennare all’uso che quando una moglie coglieva una schiava in peccato col suo marito, la legava ad un tronco d’albero chiamato codex e l’obbligava a lavorare continuamente.
  13. [p. 148 modifica]Il testo ha multicia, che il Calepino spiega: indumenta, minutissimis filis contextaì; e lo scoliaste: vestes molliori textas sub stamine, quibus solent uti puellae. Tali vestiti dunque dovevano essere di un drappo di finissimo telaggio e trasparente; che io, in mancanza di altro termine più proprio, ho creduto poter tradurre ermisino.
  14. [p. 148 modifica]Due donne di mala vita.
  15. [p. 148 modifica]Seneca, parlando di queste vesti licenziose, dice: Si modo vestes vocandae sunt. in quibus nihil est, quo defendi corpus aut denique pudor possit. De Ben. lib. 7.
  16. [p. 148 modifica]Chi fossero costoro non apparisce chiaro dal testo, ma è opinione dei più, che parlisi di quel collegio di sacerdoti che Domiziano aveva istituito in onor di Minerva, che qui per similitudine, e in aria di canzonatura, sarebbe detta la Bona Dea. Tutti sanno con quanta religiosità e rispetto si celebravano dapprima in Roma i misteri della Dea Bona dalle sole donne; e come non pure n’erano esclusi gli uomini, ma si velavano financo le statue, che animali maschi rappresentassero; sebbene poi tali feste doventarono sotto gl’imperatori non altro che orgie femminili, come il Nostro le descrive nella satira sesta. Or sembra dunque che questi nuovi sacerdoti di Minerva, nella celebrazione delle feste di questa Dea, facessero, come si direbbe, una parodia dei misteri della Dea Bona, allontanandone le donne, e commettendo tra loro gli atti più bestiali.
  17. [p. 148 modifica]Questa Dea Cotitto era la luna, e i Batti n’erano i sacerdoti. Fu molto in venerazione fra i Traci , dai quali la presero gli Attici, e però qui è detta attica. Si sa che Eupoli avea scritto una commedia contro le effeminatezze di questi sacerdoti.
  18. [p. 148 modifica]Giuravano per Giunone soltanto le donne; come gli uomini per Giove.
  19. [p. 149 modifica]Ottone, settimo imperatore romano. Da giovane si era acquistato la grazia di Nerone per le sue mollezze e dissolutezze.
  20. [p. 149 modifica]Allude a questo passo dell’Eneide di Virgilio: validam vi corripit hastam, Actoris aurunci spolium. Lib. xii. 94.
  21. [p. 149 modifica]Ottone per giungere all’impero avea fatto assassinar Galba già molto vecchio e impotente per la gotta.
  22. [p. 149 modifica]Castello di Lombardia, ove i seguaci di Ottone furono vinti dai partigiani di Vitellio.
  23. [p. 149 modifica]Quin et faciem quotidie rasitare, ac pane madido linere consuetum; idque instituisse a prima lanugine, ne barbatus unquam esset. Svet. Oth. xii.
  24. [p. 149 modifica]È una tirata contro Domiziano, che era Pontefice del collegio dei Sacerdoti di Minerva creati da lui, e dei quali il poeta seguita a narrare le belle imprese.
  25. [p. 149 modifica]Per togliere a Giovenale ogni taccia di esagerazione, basti rammentare che Nerone strinse con tutte le formalità della legge un simile matrimonio con Sporo, come ne fanno testimonianza Tacito, Ann. xv. 37; Svetonio, Nero; Dione Cassio, lxiii. 13.
  26. [p. 149 modifica]Il primo per espiare, il secondo per punire simili infamie.
  27. [p. 149 modifica]Questo Gracco era stato uno dei Sali, sacerdoti di Marte, che in un giorno dell’anno andavano per Roma in processione, portando appesi al collo i dodici ancili o scudi, a uno dei quali si credeva che fosse legata la sorte di Roma.
  28. [p. 149 modifica]I Luperchi erano sacerdoti del Dio Pane, i quali nelle feste lupercali scorrevano per la città, percotendo con uno staffile le mani delle donne, che loro le porgevano, sperandone la fecondità.
  29. [p. 149 modifica]Credo anch’io col Ribbeck che questo brano, dove si fa colpa a un altro Gracco d’essere sceso nel circo a combattere coi gladiatori, sia una insensata interpolazione; e che dopo il verso, Ambe le palme all’agile Luperco, debba unirsi subito l’altro, Che sonvi i Mani e un sotterraneo regno. Non è credibile che Giovenale pensasse che un nobile, facendosi gladiatore, avea commesso un’azione più indegna dell’altro, che si era infemminato nel modo detto di sopra.
  30. [p. 149 modifica]Parlasi qui di una specie di lotta che si faceva tra due gladiatori, detti Retiarius l’uno, e Secutor l’altro. Il primo retiarius era armato di una gran rete e di un tridente, fuscina, e tutta la sua destrezza consisteva nel lanciare questa rete sulla testa dell’avversario Secutor in modo da invilupparvelo[p. 150 modifica]dentro; e se il tiro gli riusciva, assaltava il medesimo col tridente; ma se falliva il colpo, essendo egli sprovvisto d’ogni armatura difensiva, si dava subito alla fuga, sforzandosi di raccogliere la rete per tirarla un’altra volta all’avversario prima di essere da lui raggiunto. Per intender poi l’ultimo verso, è a sapersi che d’ordinario era il Pretore, che dava a sue spese siffatti spettacoli al popolo, che n’era ghiottissimo.
  31. [p. 150 modifica]I piccoli ragazzi erano ammessi ai pubblici bagni senza pagar nulla.
  32. [p. 150 modifica]Cioè le foggie del vestire e le armi proprie de’ loro paesi.
  33. [p. 150 modifica]Arasse, fiume dell’Armenia, presso il quale era la città di Artassata registrata nel testo.