Satire (Alfieri, 1903)/Satira decimaseconda. Il commercio
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SATIRA DECIMASECONDA.
IL COMMERCIO.
Perditus, ac vilis sacci mercator olentis. |
Giovenale, Sat. XIV, 269. |
Trafficator di sozze merci vile. |
E in te pur, d’ogni lucro Idolo ingordo,
Nume di questo secolo borsale,
Un pocolin la penna mia qui lordo:
Ch’ove oggi tanto, oltre il dover, prevale
Quest’acciecato culto onde ti bei,
Dritt’è elle ti saetti alcun mio strale.
Figlio di mezza libertade, il sei;
Nè il niego io già: ma in un, mostrarti padre
Vo’ di servaggio doppio e d’usi rei. —
Ecco, ingombri ha di prepotenti squadre
La magra Europa i mari tutti; e mille
Terre farà di pianto e di sangue adre.
Sian belligere genti, o sian tranquille;
Abbiano o no metalli indaco e pepe;
Di selve sieno o abitator di ville;
Stuzzicar tutti densi, ovunque repe
Quest’insetto tirannico Europeo,
Per impinguar le sue famelich’epe.
Stupidi e ingiusti noi sprezziam l’Ebreo,
che compra e vende, e vende e compra, e vende;
Ma siam ben noi popol più vile e reo:
Che, non contenti a quanto il suol ci rende,
Dell’altrui ladri ove il furar sia lieve,
Facciam pel Globo tutto a chi più prende.
Taccio del sangue American, cui beve
L’atroce Ispano; e il vitto agl’Indi tolto
Dall’Anglo, che il suo vitto agl’Indi deve.
Se in fasce orrende, al nascer suo, ravvolto
Mostrar volessi il rio Commercio; or fora
Il mio sermone (e invan) prolisso molto.
Basta ben sol che la sua infamia d’ora
Per me si illustri, appalesando il come
L’iniqua Europa sue laidezze indora.
Annichilate, impoverite, e dome
Per lei le genti di remote spiaggie;
Di alloro no, di Baccalà le chiome
Orniamle; poichè lustro ella pur tragge
Dai tanti navigati fetidumi,
Che a forza vende come a forza estragge.
Batavi ed Angli, di quest’arte i Numi
Fatti or ben son da lor natía scarsezza,
Ma inmercantati ci han troppo i costumi.
Arti, lettere, onor, tutto è stoltezza
In questa età dell’indorato sterco,
Che il subitaneo lucro unico apprezza.
Traccie d’amor di gloria invan qui cerco,
Nè di pietà religïosa l’orme. —
Chi sei, che fai? Son tutto: io cambio e merco. —
In mille, e inique tutte, vili forme
Tiranneggiar questo risibil Mostro
Veggio: e Virtù, non mercantessa, dorme.
Voi, Siculi e Polacchi, il grano vostro
Dateci tutto; o vi farem noi guerra:
Pascavi in vece il Salumajo nostro.
Ma il truffato granajo si disserra
Ampio a voi, Lusitani, a patto espresso
Che niun di voi più ardisca arar sua terra.
Tutto a viti piantar vi è pur concesso
Il vostro suol dal buon Britanno amico,
Che il vostro avere ha in cuor più che se stesso.
Ei, bell’e cotto il pan, perchè col fico
Voi vel mangiate in pieno ozio giocondo,
Mandavi; e chi sel cuoce, è a lui nemico.
Così, non che le scarpe anco il più immondo
Attrezzuccio, ei vel manda insino a casa;
E v’inibisce ogni pensiero al mondo,
Fuorchè di dargli quanto vin s’invasa,
Le vostre lane, e gemme, e argento ed oro,
E ogni altra cosa che vi sia rimasa.
Ma voi, Galli nemici e popol soro
Nella grand’arte nautica in cui vinti
Foste dall’Anglo, or siate in suo ristoro
A comprar per trattato a forza avvinti
Dall’Anglo sol del Canadà i cappelli,
E sproni e selle e freni e fruste e cinti.
Voi Suechi e Dani poi, da buon fratelli
Darete all’Anglo solo i vostri abeti,
E il ferro e il rame ond’ei sue navi abbelli.
E così tutti i Popoli discreti
Tutto dar denno, e ripigliarsi il poco
Di che vorrà il Britanno farli lieti.
Ma tra il Batavo e l’Anglo arde il gran fuoco
Perchè tra lor da barattar null’hanno,
Nè vuol l’un l’altro dar l’avaro loco.
Salano aringhe entrambi, entrambi fanno
Rei formaggi, e confettan lo Stocfisce,
E di Balene a pesca entrambi vanno.
Dunque forz’è che invidia tra lor strisce,
E si barattin, se non altro, il piombo:
Nè già tal guerra in lor soli finisce:
Che tutta Europa, mercè il gran Colombo,
Or si dà in capo pel real Tabacco
Or per l’acciughe ed or pel Tonno o il Rombo.
Ma in cotai sudiciumi omai mi stracco.
Io tronco il nodo, e dico in un sol motto
Che il Commercio è mestiero da vigliacco;
Ch’ogni virtude, ogni bontà tien sotto;
Ch’ei fa insolenti i pessimi; e i legami
Tutti tra l’uom più sacrosanti ha rotto.
Nei mercanteschi cuor, veri letami,
Non v’ha nè Dio nè onore nè parenti
Che bastin contro le ingordigie infami;
Nè patria v’ha; che abbiam gli esempi a centi
Di mercanti, che vendon di soppiatto
E palle e polve e viveri e stromenti
Micidïali a chi pur vuol disfatto
Lo Stato loro e in viva guerra uccide
I lor fratelli e figli a brando tratto.
Il vendi-sangue intanto imborsa, e ride;
Ch’ei, quanto vile, stupido, non scerne
Che avrà sua borsa chi il suo suol conquide.
Qui scatenarsi ascolto le moderne
Frasi dei nostri illuminati ingegni,
Che tengonsi astri e non son pur lucerne. —
In tue rimuccie a sragionar tu insegni,
Stolto; ignorando che il Commercio è il nerbo
Primo e sol di Repubbliche e di Regni. —
A voi che avete il fior del senno in serbo,
Fingendo io pur che m’è il connetter dato,
Risponderò incalzante e non acerbo.
Non s’impingua nè Popolo nè Stato
Mai pel Commercio, se dieci altri in pria
Vuoti ed ignudi non fan lui beato.
Ma breve è ognor beatitudin ria:
Dovizia e lusso e i vizj tutti in folla
Fan che a chi la furava amara sia.
Nè, perch’un Popol mille antenne estolla,
Cresce ei di gente in numero infinito;
Che il mar ne nutre assai, ma più ne ingolla.
Pur, poniam vero il favellar sì trito
Che duplicati e triplicati apporta
Gli uomini dove è il trafficar fiorito;
Al vero onor d’umanità che importa,
Che di tai bachi tanti ne sfarfalli,
Sol per moltiplicar la gente morta?
Molte le mosche son, più molti i Galli:
Ma non è il molto, è il buon quel che fa pregio:
Se no, varrían più i Ciuchi che i Cavalli.
Sempre molto è quel Popolo ch’è egregio:
E quanto è picciol più vieppiù destarmi
De’ maraviglia, s’ei d’alloro ha il fregio.
Religïone e leggi e aratro ed armi
Roma fean; cui Cartàgo mercantessa
Men che rivale, ancella, in tutto parmi.
Quand’anche or dunque differenza espressa
Il non-commercio faccia in men Borghesi,
Non fia poi cosa, che un gran danno intessa.
Liguria avría men muli e Genovesi;
Sarían men gli Olandesi e più i ranocchi
Nei ben nomati in ver Bassi Paesi:
Ma che perciò? Vi perderemmo gli occhi
Nel pianger noi lo scarso di tal razza,
Che decimata avvien che ancor trabocchi?
In qualche error, ma sempre vario, impazza
Ogni età. Cambiatori, e Finanzieri;
Gli Eroi son questi, ch’oggi fa la Piazza:
Questi, in cifre numeriche sì alteri,
Ad onta nostra dall’età future
Faran chiamarci i Popoli dei Zeri.
Ma morranno anco un dì queste imposture,
Come tant’altre ch’estirpò l’oblío:
E si vedrà basi mal ferme e impure
Aver gli Stati ove il Commercio è Dio;
E tornerassi svergognato all’Orco,
Donde uccisor d’ogni alto senso uscío,
Quest’obeso impudente Idolo sporco.