Satire (Alfieri, 1903)/Satira decimaterza. I debiti
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SATIRA DECIMATERZA.
I DEBITI.
E’ non v’ha soma a sopportar più grave, Che il dover dar, quando che dar non s’have |
Ariosto, Orl., XX, 20. |
Mercantuzzi politici, gli Stati
Della Europa, or sì dotta in aritmetica,
Tutti stan pur nei Debiti affogati.
Gonfia di giorno in giorno la ipotetica
Fraudulenta cartacea ricchezza,
Per cui l’idrope Europa al fin muor etica.
Niun più sua firma che il suo onore apprezza:
Mercanti e Regi e Senatorie Zucche
Firman dei Pagherò, ch’è una bellezza.
E intanto a noi pingui ed ottuse mucche
Tutto vien munto il sangue non che il latte,
E in iscambio ci dan le fanfalucche.
Trovato han vie più placide e più ratte
I Governi umanissimi presenti
Per isfogar le loro voglie matte.
Nuovi balzelli non v’ha più chi inventi:
La spogliante final sentenza stampa
Un Pagherò, per cui del mille hai venti.
L’iniquo esemplo della maggior Lampa
Sovra i privati tutti è poi diffuso,
Sì che di ladre firme ogni uom si campa.
Commercio, e Lusso, e Debiti in confuso;
Nonno, Babbo, Figliuoli, un fascio fanno,
Che tutto ha in sè l’uman fetore acchiuso:
Tal di falliti ampia catena danno,
Che ad uscita ciascun appon l’altrui,
E ad entrata il furar con forza o inganno.
Udiam quant’è il tuo debito ed a cui. —
Artigiani e Fornajo e Macellajo
Non han visto un mio soldo, or anni dui:
Non, ch’io pagar non voglia; ma ogni guajo
Nasce dal Prence, ch’or ben anni tre
Non m’ha dei frutti miei dato un danajo. —
Io non vorrei davvero essere in te:
Che, imprigionato pria dai creditori,
Sarai poscia o dai Cento o dall’un Re
Sgozzato; il che non fanno ai malfattori.
In oggi così saldan le partite
I non solventi Stati debitori.
Ogni Provincia, ogni Città sta in lite
Con sua entrata annüal; nè v’ha Borguzzo
Che nel spregar quel d’altri non le imíte.
Ogni pubblica Azienda o Spedaluzzo
Il Chirografo ottien, per cui consorte
Al Debitone ei fa suo Debituzzo.
E tutti poi, per vie più dritte o torte,
All’ombra fida del fallito Stato
Falliscon franchi, come s’usa in Corte.
Verbo non v’è il più tristo e il più lograto:
Tu Devi, perch’io Devo, e a me si Deve:
E il potrei tutto conjugar d’un fiato,
Ch’ogni suo Tempo l’adattar fia lieve;
Tranne il nobil vocabolo DOVERE,
Che di nome il valor da lui riceve:
Dico il sacro morale uman Dovere,
Che calpestato in questo secol brutto
Fa sì che lasciam l’Esser per l’Avere.
E ciascun, vile, e cupido, ed asciutto,
Per quanto e il succo e il sangue altrui si beva,
Cogliam con ladra man d’inopia il frutto.
E ognor più deve chi qua e là più leva;
E chi più deve, avvien che ognor più furi:
Ruota, che i buoni affonda, e i rei solleva.
Come impossibil è che a lungo duri
L’arco strateso, e temi ognor ch’ei rompa;
Così ai dominj indebitati e impuri
Sempre sovrasta la funerea pompa.