Satira e antisatira/Satira menippea contro 'l lusso donnesco
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SATIRA
MENIPPEA
CONTRO ’L LUSSO
DONNESCO
DEL BUONINSEGNI.
Per Dio non date a quest’historia orecchia
disse con iscusa mendicata alla sua maledicenza il Poeta Ferrarese per ischivar l’odio delle donne che contro si concitava per l’historia, che sapete. Io, condennato alla pena di biasimare i superflui ornamenti delle donne, per sottrarmi all’odio de’ lor cuori, ed a gli strali delle lor lingue, varromi per mia scusa de’ medesimi versi,
- Donne, e voi che le donne havete in pregio,
- Per Dio non date à quest’historia orecchia.
Un sogno d’infermo, un delirio accademico, una lamentatione d’ammogliati, stimate, che sia questo discorso conceputo, e partorito fra i bollori del mosto, alla cui nascita ha fatto l’offitio di raccoglitrice, non Lucina, che aiuta a partorire le donne, ma Bacco, che aiuta a sconciare gl’ingegni. Il peso di questo biasimo è stato accettato da me, non eletto, ma tralasciato da tutti; potendo un solo con pochissimo danno, e con leggerissimo pericolo contro le donne favellare. Poco importa, che un ingegno disutile al pericolo dell’iracondia donnesca si sottoponga. Per hoggi hò da esser’io la vittima consacrata allo sdegno di queste Dame. E pure (ben lo sapete) non è sdegno che pareggi lo sdegno delle donne. Lo disse il gran Savio, che impazzito per amore, per le donne idolatrò. Pure per loro servitio l’hò volentieri accettato. Qualsivoglia altro a questo carico eletto, havendo l’intendimento di me più grande, haveria detto, e fatto peggio. Io, che hò picciolo l’ingegno, non farò molto male, e se pure le ferirò, sappiano, che le mie armi sono innocenti, sono come l’hasta d’Achille, feriscono, e risanano in un punto; perche i ferri degli Accademici, che eternano con i loro detti i nomi altrui, riprendendo giovano, e nell’atto medesimo che feriscono portano seco le chiare per ristagnare il sangue delle piaghe, che fanno.
Quelle donne che, per isperienza de’ proprij mali, compassionevoli dell’altrui, s’impiegano nelle honorate Ambascierie d’amore, non hanno membro più gagliardo, machina più violenta per piegare il cuore delle giovani, che le gemme, l’oro, e le vesti. La favola di Cefalo, e di Procri appresso Ovidio; la novella del vaso nell’Ariosto; e finalmente la nostra Rafaella non mi lassan mentire. Questa, ch’è stata la Sibilla de gli amanti; i cui oracoli al pari di quelli della dea Themide, sono anco dalle donne stimati, ammaestrando un giorno la sua Margherita alle piacevolezze d’amore, non seppe con argomento più efficace invaghire il cuore di quella giovane che col persuaderle la vanità del vestire. Questa fù la prima lettione, con la quale quella saggia maestra addottrinò l’animo in esperto di quella donna. Sotto le belle vesti le pose il dardo d’Amore, e dentro questo calice d’oro le porse a bere le prime stille del suo veleno.
Io non dico, che il Lusso sia lussuria; hà bene osservato un sottil Grammatico, facendo i latini per i participij, che la parola Lusso è la metà della parola Lussuria. Pure se il Lusso non è rio, non è lussuria. Taccia la Raffaella, taccia il Grammatico. Questi, goffo pedante di Minerva, e quella sciocca pedantessa di Venere, non se n’intendono. Amore vuol sodezza; la vanità è sua nemica capitale. L’otio è padre d’Amore.
- Ei nacque d’otio, e di lassivia humana,
disse colui. E ’l maestro degli amori non disse anch’egli
- Se togli l’otio è senza strale Amore.
Mala nuova per gli amanti: le donne occupate un’anno intero dietro una acconciatura di testa, non hanno otio di far l’amore.
Mà è vanità il credere di dissuadere alle donne la vanità del vestire, se prima non le spogliamo dell’ignoranza. S’adornano elleno le membra di questi lor superbissimi paludamenti, quasi tanti Soli alla porta dell’Oriente,
Per accrescer adorne
Di celesti splendori
Lume al Sol, gioia al Mondo, e fiamme a’ cori
e non conoscono quale oscura nuvola d’ignoranza loro adombra l’intelletto.
Che pensate voi (leggiadrissime Dame) sieno queste vesti pompose, che tanto affascinandovi l’alma, vi lusingano gli occhi? Altro non sono, che illustre testimonianza della vostra schiavitudine, e meritata pena dell’antico peccato.
La colpa, che spogliò i nostri primi parenti della veste dell’innocenza, aprì loro ancora gli occhi alla nudità delle membra. L’aria avvelenata dal fiato del Dragone infernale incrudelì contro i trasgrassori del divino comandamento.
Quindi la vergogna della propria nudità, e l’inclemenza del Cielo indussero la necessità del vestire. Hoggi il fasto femminile ha cangiata la necessità in superbia, e la donna gloriandosi nell’insegne del suo servaggio doppiamente colpevole, ha convertito in trionfo del suo Lusso il gastigo del suo delitto.
Queste vesti sono intessute di seta, che altro al fin non è, che vomito, e sepolcro d’un verme. Lo disse il nostro Poeta nel sonetto sopra il verme da seta.
- Questo del fasto altrui gravido seme,
- Animato tesoro, atomo vivo,
- Di donzella gentil nel sen lascivo,
- Dove folle altrui muor, nascer non teme.
- Pasce al par se di foglie, e l’uom di speme,
- Dorme, e veglia talhor de gli occhi privo,
- Fabbrica la sua tomba, e semivivo.
- Arricchisce l’essequie a l’hore estreme.
- Pargoletta Fenice al fin rinasce;
- Quindi de le sue spoglie industre mano
- Tesse serici ammanti, e regie fasce.
- Hor perche tanto insuperbisce in vano
- Ambitioso il cor se solo nasce
- Dal sepolcro d’un verme il fasto humano?
- Questo del fasto altrui gravido seme,
Quindi la donna altro non è, che un verme, che rode il cuore a gli Amanti, un vomito delicato della natura, ed un sepolcro indorato de’ cuori humani.
Queste sete tinte col sangue innocente de gli animali, sono tutte avvelenate. Sono la spoglia ricamata di Deianira, avvelenata col sangue del Centauro. Questa sola è la differenza fra queste, e quella, che quella avvelenava solamente chi con essa si copriva, e questo non uccidono le donne che le portano (che saria manco male) ma i mariti, che le fanno, e gli amanti che le mirano.
Quanti fulminati più dallo splendore de’ panni che da’ raggi de gli occhi, si invaghiscono più delle vesti, che del volto delle lor Dame? Le adorano nelle Chiese, le seguitano per le strade, le corteggiano nelle piazze, le servono ne’ festini, fanno loro tutto il dì innanzi, e indietro la carrozza il Palafreniere, e poi quando se n’entrano in casa per ispogliarsi le vesti (che pure all’hora il servirle fino in camera sarebbe il compimento della lor servitù), alla soglia della porta, scortesissimi l’abbandonano.
Querela spiegata heroicamente da una Poetessa sdegnata in un suo leggiadrissimo Madrigalone che dice
- Contro gli huomini ogn’una armi lo sdegno,
- Che loro solo bramano
- Veder le belle vesti, e noi non amano:
- Ad ispogliarne il guscio
- Di queste belle vesti,
- A la soglia de l’uscio
- Fermati in un cantone,
- Ci fanno un bel piantone.
- Quest’è pur chiaro segno
- Che, se sono così pronti à lasciarne,
- Amano in noi le vesti, e non la carne.
- Contro gli huomini ogn’una armi lo sdegno,
Hor, che diremo della varietà di tanti colori? veramente in questo le donne tradiscono lor medesime, e la propria bellezza. Dice il proverbio
- Il liscio de le donne è il color nero.
Come? Il simbolo della morte sarà la vita della bellezza? Signor sì, percioche il nero, che è congregativo della vista, abborrendo l’occhio di riguardare in quell’oggetto funesto, tutta l’unisce in rimirare il volto solo: dove che disgregandosi la vista nella varietà degli altri colori, scapita il volto, che non ha tutto il tributo degli altrui sguardi. Se dunque la donna è più bella vestita a bruno, che di colore, saranno gli acquisti delle sue bellezze le perdite dell’altrui vita.
Ma si conceda alla donna, creata per ristoro de’ travagli dell’huomo, l’adornarsi lei sola da capo a piedi. A che conto con una donna di carne vestire ancora una mezza donna di legno? Io non biasimo la grandezza delle pianelle: questo non è carico mio: faccianle tanto grandi che sijno Principesse, e meritino dell’Altezza: poco importa. Ma non istà bene con tanta spesa vestire un legno insensato, che la metà meno di broccato vorrebbe il Sarto se non vestisse se non la carne. Fate, fate, che la coda delle vesti arrivi, ma non passi giù il capo delle pianelle, e poi fatele alte quanto una picca.
- Sarà pure un spettacolo divino
- Vedervi, alzate à meza gamba un giorno,
- Far, con le vesti di broccato intorno,
- A due gambe di legno il baldachino.
Hor quì sì, signori, che io dubito, che la nave del mio ingegno non sia per rompersi, e far naufragio, non nello stretto di Messina fra Scilla, e Cariddi,
- Mà nel mar de lo sdegno
- Frà due scogli di legno.
Eh! che le donne sono piacevoli, non ci è pericolo di rottura. E poi, la mia è la Nave d’Ulisse, passerà sicura frà lo stretto di questo Faro. Dubito però, che se io navigo nella Nave, queste signore non abbino alle orecchie la cera d’Ulisse. Hanno le orecchie di mercatante; sturiamogliele meglio, già che i gravissimi pendenti che portano non fanno a bastanza l’offitio loro, tirandogliele giù col peso, di tenergliele aperte. Delle pianellate io son sicuro, ne temo di provare come sien sode, sapendo come son grandi; perche sono sì gravi che hanno più vigore nelle gambe per istrascinarle che forza nelle braccia per avventarle.
Senz’altro che le donne si trasformeranno una volta tutte in alberi, e ci sarà bisogno d’un nuovo Ovidio Nasone che le serva con una buona gionta alle Metamorfosi. Già il terzo del lor corpo è di legno. Tutte le Metamorfosi di coloro, che si sono in alberi trasformati, hanno cominciato non dal capo, ma dai piedi. Sentite frà l’altre la trasformatione di Driope:
- E nel girar del capo, e de la testa
- Sente, che una radice il piè gli arresta.
- D’alzar pur ella il piè si prova, e sforza,
- Ma comportar nol vuol l’avida terra:
- Già il nuovo legno, e l’importuna scorza
- Le gambe in un troncon nasconde, e serra.
Essendo a poco a poco cresciuta, ed arrivata fin’alla bocca la natura del legno, disse:
- Dolce Consorte mio, Madre, e Sorella,
- Da me prendete l’ultimo saluto,
- Che già mancar mi sento la favella
- Per l’arbore, che troppo è in me cresciuto.
- Dolce Consorte mio, Madre, e Sorella,
Se hora avanti gli occhi vostri una di queste Signore si trasformasse in albero con tante belle vesti, con tante collane, non parrebbe appunto il Platano della Lidia co’l manto reale, e co’l diadema d’oro pazzamente incoronato da Xerse? Se veramente hora si scorgesse una di queste Metamorfosi, crediam noi che tutti i capelli, che hanno in capo si cangiassero in frondi? Io per me non lo credo. Quante chiome posticcie che non participarebbero dell’anima vegetativa? Venga in iscena il Satiro del Pastorfido con la chioma in mano, non di Corisca, ma d’un cadavero spogliato nel sepolcro, ed à chi non lo crede ne faccia fede.
Ma il mio discorso a guisa di uccello è saltato tanto lestamente da’ piedi al capo, di palo in frasca sù le cime degli alberi, che senza avvedermene gli hò lasciati con le pianelle scoperte. Si ricoprino pure, si circondino con un baluardo d’oro, e di seta questa fortezza di legno, che andando a spasso per le strade, dove si giuoca alla palla, non intervenga a qualcheduna di queste Signore la disgratia del Colosso di Nabucodonosor Re di Babilonia. Se bene essendo queste pianelle d’oro, e d’argento, si potria dire, che le donne fussero quella statua a rovescio con i piedi d’oro, e col capo di legno. Come col capo di legno; Quel mento d’avorio lavorato al tornio di Minerva; Quella bocca, trono del riso, che ne’ detti è un’armoniadi Paradiso; quel naso, che è la torre, non di Davide ma di Babel, nelle cui lodi si confondono le lingue de’ più lodati Oratori; quelle guancie di rose colorite, più che dal piede di Venere, dal sangue di mille cuori; quell’orecchie, che sono due laberinti d’Amore, ove si perdano le preghiere degli amanti; quegli occhi, che sono un’Epilogo, una quinta essenza delle stelle distillate da Esculapio; quelle ciglia, che sono due Idri vestite a bruno per la morte della maraviglia lor madre? Quella chioma, che è la sfera del Sole filato per le mani delle gratie; e finalmente quel volto tutto, che è una linea, e una pennellata della Divinità; queste cose di legno?
Queste cose di legno, signori, nò: il capo della donna, Signori sì. Non è il capo della donna quello che se gli scorge sopra il collo. Il capo della donna è l’huomo: capo veramente di legno à comportare, che l’oro, e l’argento, scavato co’l dispendio di tante vite dall’humana avaritia fin dalle viscere dell’inferno, sia condannato sotto i piedi di una donna, sottoposto all’infortunio miserabile de’ vasi d’oro di quella gentildonna Romana de’ quali chi havesse curiosità di saper la disgratia, la dimandi a Martiale, che glela dirà in quel facetissimo Distico che dice
- Ventris onus misero (nec te pudet) excipis auro,
- Bassa . . . . . . . . . . . . .
Mi sono scordato dell’altro. Se alcuno di questi signori, che mi ascoltano lo sà, faccia gratia di dirlo: ricompri per vita sua l’honore della mia memoria, ed avanti queste Signore, che volentieri l’ascolteranno, reciti di quel bellissimo Distico il verso Pentametro. Hora scostiamoci da queste statue co’ piedi d’oro, che se rovinano, non ci caschino adosso, e ritorniamo a riposarci sotto i nostri alberi. Se bene faranno poc’ombra per la scarsità delle frondi, nelle quali hò detto, che non si sarebbero trasformati tutti i capelli. Hiermattina un gentiluomo mio amico, chiamando la Cameriera, gli disse la moglie, lassatela stare, è in camera, che assetta il mio capo: son’invitata per Domenica all’Accademia; voglio andarci con una acconciatura di testa nuova, e bizzarra. Andate pure, disse il marito, almeno quegli Accademici ve la lavassero. Di questo (replicò ella) non ci è pericolo, perche quegli Accademici non san dire, se non bene. In questo genere del dir male, i loro parti sono sconciature; lassano questo offitio a’ cortigiani, che hanno la maledicenza per lor quinto elemento. È vero (disse il marito) ma voi, Signora Consorte, ditemi per vita vostra, quanti capi havete voi? O voi siete la Idra d’Hercole, .ò stando meco, havete il capo altrove». Ed in questo dire, entrato in camera, trovò la Cameriera che con una attrecciolatura di perle orientali stava fasciando alcuni cenci ed un legolo di canape.
Attonito a quella vista, il marito, come se havesse veduto il capo di Medusa, veramente questo (disse) ci mancava, che il prezzo di cento moggia di grano, che per mantenere le vostre vanità hò preso quest’anno a Checchi, e a Marchi (che poi volendolo vendere frà il mio bisogno, e l’abbondanza della Città l’habbiamo venduto a due miserabili carlini lo staio) che il prezzo (dico) di tanto grano sia malamente condotto a vestire quattro palmi di cenci.
Catone, quel gran Censore delle pompe Romane, allhora stimò, che Roma fusse vicina all’ultima rovina; quando intese, che tanto si era venduto un pesce, quanto un Bue. O povero Catone! e che diresti, se venissi in questi tempi, e vedessi, non una triglia, che pur si mangia, ma un’anguilla di cenci in testa della mia moglie, valere il prezzo di cento Bovi? in vero, che cotesto legolo di canape farebbe meglio l’offitio impostogli dalla natura, che quello, al quale voi l’astringete con l’arte, se servisse non per ornamento, ma per rimedio del vostro poco cervello.
Le perle, e ’l sale nascono d’un medesimo padre: ambedue son figli del Mare. Sta bene. Chi non ci hà sale, ci mette perle;, e chi non hà nel cervello cosa alcuna pretiosa, và rimediando di fuori al mancamento di dentro. Disse bene il nostro poeta a questo proposito:
- I corpi delle donne.
- Che corrono alla festa
- Con così ricche gonne,
- Con tante gioie in testa,
- Son cappanne di fieno,
- Coperte con pazzissimo lavoro
- Di tegole, di perle, e docci d’oro.
Il capo delle donne con tante belle figure mi sembra appunto un mazzo di carte da giuocare. Parallelo aggiustatissimo. Domandatene à questi signori, che giuocano, e vi diranno (massime quando perdono) che le carte (vi aggiungo io) e le donne hanno il cervello di cenci. Ed il vostro imparticolare non sarà una di quelle figure, che chiamano il Mondo, e le Trombe; ma quella che si chiama il Matto da Tarocchi. Volete forse in questo mazzo di carte i quattro semi? I danari ci sono, ma spesi malamente in tante gioie. Le spade non ci mancano; ogni donna per somigliarsi a Pallade, Dea della sapienza, che è armata, ci vuole la sua spadina d’argento. I Bastoni li portano nascosti sotto i ciuffi; ma, se non gli veggono gli occhi, li provano le casse bastonate dalle lor vanità. Onde disse il poeta piacevole:
- La donna muor se non hà sempre tutto
- Del suo marito addosso il capitale,
- Ond’è che questo, e quello è mal condutto.
- La donna muor se non hà sempre tutto
Cioè dalle bastonate che dà loro il capo duro delle mogli. Delle coppe poi alle donne non ne mancano. Altro non fanno che attaccar coppe alle borse de’ mariti, per succhiar loro quel poco di sangue, che ci hanno. E chi giuocasse con le carte Francesi, miri in testa di queste Dame quanti fiori, ma toccati dalle mani del Re Mida. I cuori ci stanno imprigionati a dozzine: ogni capello tiene impiccato il suo. Le picche ci sono, e lunghe bene. Quanti Amanti se ne piccano e, perche sono le picche lunghe, non ci arrivano mai? De’ mattoni alle donne non ne mancano: tutte danno il mattone al marito.
Le mosche, e le donne non entravano a’ sacrifici nel tempio d’Hercole. Le mosche per istinto di natura; le donne per legge del Cielo. La cagione delle mosche non fa a nostro proposito, se non in quanto la natura medesima, e ’l Cielo ci avvertiscono, che è poca differenza fra le mosche, e le donne, e che il proverbio di pigliar le mosche per aria, è proprio loro. La cagione delle donne è questa.
Il simolacro di Hercole, giunto alla vista del Chio, non potè con tutte le funi dell’Isola esser condotto nel porto. Interrogato di questa sua resistenza; rispose, che voleva esser tirato con una fune tessuta di capelli di donne. Non havendo elleno l’usanza di queste chiome posticce, andando per le strade scapigliate per leggiadria, non glieli vollero dare. Così per mantenere la bellezza, ricorsero all’impietà, e stimarono più un capello, che un dio. Ne furono fuor di ragione; il più bello ornamento delle donne è ’l capello. Le ninfe, le dee non si pregiavan d’altro.
- Erano i bei crin d’oro à l’aura sparsi
disse colui. A che adulterarlo con tanti cenci, con tante ciance, benche pretiose?
Carilao bellissimo giovine Ateniese, interrogato perche nutrisse la chioma? (sentite, ed imparate risposta da huomo, vano sì, ma di vanità giuditiosa) perche (disse) questo è ornamento mio proprio, che non mi costa. E voi, Signore Dame, havete gli ornamenti vostri proprij, che non vi costano, e li guastate con la spesa?
Hor, che diremo di quelle, che essendo vecchie, ed havendoli bianchi li tingono? Queste ingiuriano la vecchiezza, che almeno nel fin degli anni spiega loro nel crine l’insegne dell’innocenza. Pure queste candide insegne, facendo l’officio di quegli stracci, che si mettono nelle ficaie per spauracchio agli uccelli, scombuiano gli amanti
- Ed à canuto, e lucido sembiante
- Può ben tornar Amor, ma non amante.
Oracolo di Corisca. E ’l nostro Poeta, vedendo una mattina la sua Dama, che per la fretta d’uscir di casa, non si era tinta al suo solito i capelli, non la lassò dicendole:
- Già sovra l’alpi del tuo bianco crine
- De’ più fredd’anni incanutisce il Verno;
- Già spario Primavera, e già discerno
- Languir le rose, e inrigidir le spine.
- Già sovra l’alpi del tuo bianco crine
- Fà ’l tempo di tue glorie alte rapine,
- Copre il mio grave incendio un gielo eterno;
- Così per mio conforto, e per tuo scherno,
- Quì del mio stratio, e del tuo fasto è ’l fine.
- Fà ’l tempo di tue glorie alte rapine,
- Tempo già fu (ahi! che in pensarlo ancora
- Sospira il cor) che idolatrò mia mente
- Di tue bellezze à la nascente Aurora.
- Tempo già fu (ahi! che in pensarlo ancora
- Hor su l’altar di questo seno ardente,
- Non più vittime havrai, che non adora,
- Se non folle idolatra, il Sol cadente.
- Hor su l’altar di questo seno ardente,
Le donne, che conoscono questo loro disavantaggio con gli uomini, per tenere in fede gli Amanti se gli tingono. E veramente con ingegno superiore all’humana conditione (alla barba de gli Alchimisti, che soffiano tutto l’anno nel fuoco per incenerire l’ali al fugace Mercurio) con ingegnosissima Alchimia, fissano in oro ondeggiante l’argento vivo d’una chioma canuta.
Le vanità de gli ornamenti donneschi (come tutte le altre di questo Mondo) altro non sono che ombra. Il crescimento dell’ombra è inditio che ’l Sole delle vostre bellezze, (gentilissime Dame) tramonta fra le ombre delle vostre pompe superflue:
- Senz’ornamento è ’l sole,
- Son semplici le stelle:
- Le vostre vanità vi fan men belle.
E forse, che gli sciocchi non istimano più le vesti, che l’animo. Le più ben vestite son tenute le più virtuose. Sciocca cosa dalla lunghezza dell’ombra fare argomento del valore d’un corpo.
Signori, il Discorso è finito senza haver data pure un’occhiata allo specchio, ed al liscio, principali stromenti delle pompe donnesche. Segno evidente, che ’l mio discorso non s’è lisciato, ne specchiato con il liscio dell’artificio allo specchio dell’eloquenza. Conveniva, che il discorso contro le pompe, comparisse senz’ornamento.
Quindi per avventura non haverò persuaso. Non m’apporta ciò maraviglia; la causa è disperata. Il ventre non hà orecchie: Proverbio antico contro la gola. Le vesti non hanno orecchie: Proverbio nuovo contro le pompe. Bisognerebbe che io havesse la voce d’Orfeo per animare queste vesti insensate. Dubito bene, che lo sdegno di queste Dame farà, che se io con Orfeo non hò comune la voce, habbi comune la morte. Vorrei con loro far la pace, percioche io mi reputo più sicuro frà le furie infernali che in mezzo à due donne sdegnate:
- Orfeo col proprio scempio
- Me n’addita l’esempio.
Servito da sassi, honorato dalle piante, seguitato dalle fiere, ammirato da’ mostri, reverito dalle furie, scampato da Tesifone, e da Megera (gran cosa!), fu lapidato dalle donne di Traccia. Le pietre animate pur dianzi dal canto, nelle mani di quelle donne ritornando alla propria natura, ingratamente crudeli diedero la morte a colui, dal quale havevano poco prima ricevuta la vita. E quella voce, che ammutolì li latrati di Cerbero, che esaudita nell’inferno, contro le leggi delle Parche, annodò il filo d’una vita già da esse troncato, che cancellando la sentenza di morte de’ Giudici severissimi dell’ombre ammollì i cuori di Minosso, e di Radamanto, indurando gli animi di quelle donne, morendo fece al mondo eterna testimonianza, esser più placabile l’Inferno, che un cuor di donna.
Hordove, se non per fuggir l’odio, che poco importa, almeno per assicurarmi dalle percosse ricovrarommi? Gli Allori d’Apolline non son sicuri da questi fulmini. Anzi l’Alloro, che fu già donna, per compiacere al suo sesso, prestaragli i suoi rami per fabricarne gli strali.
Sia dunque, Serenissimo Gran Duca, l’Altare della vostra gratia il ricovero del mio ingegno, il refrigerio del mio discorso.
- Da l’odio de le donne i nostri ingegni
- Sotto i tuoi Regij Allori, ò Sol Toscano,
- Si ricovrino à l’ombra, e spenti siano
- Nel mar de le tue grazie i loro sdegni.
IL FINE