Santippe/I
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SANTIPPE
I.
Ellade, giovinezza del mondo.
Nel tempo antichissimo, quando gli uomini erano molto occupati per popolare il mondo, ci fu come una piccola schiera di uomini che pervenne ad una piccola terra. Essa era ricamata dai mari, e pareva come l’umbelico del mondo. Era stagione di primavera e il mare mandava tutt’intorno i suoi effluvi.
Quegli uomini sostarono.
Si scoprivano di lassù i corsi degli astri; si vedevano le vie del mare. Allora essi scoprirono le vie della loro anima, ed una divina esaltazione li vinse. Rivaleggiarono con gli Dei immortali: crearono quelle multiformi opere che rimangono anche oggi come modelli, e non furono mai più superate in bellezza.
Questa piccola terra fu l’Ellade: quel piccolo popolo fu il popolo ellenico. La vita che esso visse si chiamò «giovinezza»!
Ma esso visse una breve vita; esso consumò, bruciò, — per così dire, — nel giro di qualche secolo l’ardore della sua vita, cinta di rose.
*
Più tardi, gli uomini ripresero ancora il loro viaggio; buttarono via le rose, e si coronarono di una corona di spine, anzi inalberarono per loro emblema una croce da cui pendeva un povero morto, che si chiamava Cristo.
Questa, probabilmente, era la verità più vera e le spine erano più vere delle rose.
Senonchè un bel giorno gli uomini si accorsero con terrore di una spaventosa cosa: che essi in questo modo anticipavano sotto il sole il regno delle tenebre.
Da allora serbarono per Cristo un culto di semplice simpatia: rifecero la loro strada, avanzarono ancora nei secoli, poi si moltiplicarono, coprirono anzi la faccia del mondo, e fecero infinite scoperte e progressi.
Siccome faceva molto freddo, inventarono anche il riscaldamento a termosifone: e similmente per rinfrescarsi, d’estate, crearono il ghiaccio artificiale. Innumerevoli, incredibili si susseguirono le creazioni dell’uomo; le macchine per correre, le macchine per cucire, le macchine per volare, le macchine per votare, le macchine per ammazzare, le macchine per cantare. Scoprirono i microbi, il colletto inamidato, il positivismo, il socialismo, la burocrazia, i campanelli elettrici: ma non rividero più la loro giovinezza.
Un cittadino nord-americano dei nostri tempi potrebbe ben far risuonare il suo grosso riso paragonando, ad esempio, il suo Mississipì ai fiumicelli dell’Attica, così poveri di acque che nell’estate non arrivavano al mare. Ma che nomi! L’Illisso, il Cefiso! I monti dell’Attica avrebbero fatto contorcere di sprezzo le labbra altezzose di un alpinista teutonico, che trasporta, come niente fosse, le sue scarpe ferrate e le penne di gallo cedrone sino in vetta al Cervino.
Senonchè quei monti avevano meravigliosi nomi, meravigliose virtù: dal Parnaso cantavano le Muse: Muse titaniche e severe — non come le odierne Muse che sembrano una troupe di malsane dame viennesi. Esse, figlie della memoria e del vaticinio, cantavano, non per facilitare la digestione, ma canti non più uditi cantavano per accompagnare ed aiutare il cammino della vita.
Un altro monte si chiamava l’Imetto. Intorno ad esso era tutto uno sciame di api scintillanti d’oro, e ne sgorgava il miele, che si trasfuse poi nel linguaggio; il più volubile, scorrevole, lieve linguaggio che mai sia stato parlato, senza bisogno di domandare ogni tanto: «Come si dice, signor grammatico? mi è lecito adoperare questa parola, signor accademico?».
Un altro monte si chiamava il Pentelico; ma la sua pietra bianca e immortale si plasmava docilmente sotto la divina forza dell’uomo, in quelle statue di cui qualcuna, mùtila ed esule, sotto la vôlta di qualche cimitero o museo, ancora e come prigioniera rimane.
Non che io, contemplando queste statue, mi sia messo a piangere come fece Arrigo Heine davanti alla Venere di Milo. Arrigo Heine, poveretto, era paralitico, allora, e può aver pianto anche in considerazione della sua esistenza finita; ma certo un gran fremito vinse me pure: «Oh, destatevi nude carni, ridonateci la giovinezza meravigliosa!» sospirai.
Qualche monte abbastanza alto e gelido lo avevano pur anche gli Elleni; ma ci collocavano gli Dei.
Del resto era un povero e sterile paese l’Ellade, tanto che ai suoi abitanti, per mangiare, conveniva navigare e combattere. Mancavano i cereali. Però dalla roccia calcarea balzava il tralcio della vite e sorgeva impetuoso, con le sue pallide chiome, l’ulivo.
Il mare che penetrava fra le terre, teneva in vibrazione gli spiriti, come in una azzurra irrequietudine: tutt’all’intorno poi fiorivano le viole, colore della morte e profumo della pura giovinezza, tanto che un poeta, come vinto da quella ebrietà, cantava: «O, Atene, splendida, gloriosa città, incoronata di viole, celebrata, sostegno della Grecia, demoniaca».1
Questo popolo ellenico fu come la cicala2 canora, come l’ape industre, che sono animali alati, asciutti, preziosi, irrequieti, diffonditori di armonie e di dolcezza: non fu come altri popoli, che hanno in loro qualcosa di pesante, di viscido, di adiposo, di strisciante, di tossico, da cui la mano delicata del filosofo rifugge. Questo popolo si affacciò in un mattino puro alla finestra della vita, e vide quelle cose della vita che hanno vero valore; e meravigliò non per le cose meccaniche, come noi meravigliamo, ma per le cose naturali, come fa la cortigiana Diotima quando dice: «Cosa divina è questa, e in creature mortali, cosa immortale: il concepire e il generare».
*
A noi la conoscenza di questo popolo è venuta attraverso il martirio della scuola, attraverso un nembo di parole irte, pungenti, con cui i greci mai non avrebbero tormentato la loro giovinezza.
A dispetto di queste memorie dolorose della scuola, la mia ammirazione per questo piccolo popolo ellenico mi è venuta crescendo quanto più mi apparvero piccoli i così detti popoli grandi.
Io lo ho ammirato nelle sue contraddizioni, nelle sue lotte fratricide e terribili, nella sua breve vita.
Soprattutto le sue contraddizioni! Esse sono il cuscino su cui qualche volta riposa la mia testa stanca. Pensare! un popolo che ha disputato di filosofia più che non cantassero le sue adorabili cicale, eppure non ha imposto un dogma, non ha avuto preti; un popolo che ha creato quel magnifico parlamento di Dei e di Dee sull’Olimpo, con tutti i vizi ed i servizi possibili: il nettare, l’ambrosia, Ebe, Ganimede, il meccanico Vulcano, Mercurio per i dispacci fra la terra ed il cielo; e poi un bel giorno se ne stancò dei suoi Numi! e: «Via, parassiti! — gridò — via oziosi! via crudeli! via buffoni!» E poi atterrì vedendo il vuoto nell’Olimpo gelido, e il vuoto nel suo cuore: un popolo che ebbe la magnifica impertinenza di chiamare barbare tutte le altre genti; che in politica ci lasciò questo terribile ammaestramento, che non è possibile vivere che, o sotto la tirannia di un individuo o sotto la tirannia della plebe: il demos e la tirannis, come la tragedia e la commedia: un popolo che adorò la sua minuscola città, la sua polis, ed ebbe per patria il mondo! Ma la patria, la patria, cioè il genio della stirpe, guai chi l’avesse obliata! guai all’infingardo che avesse scioperato nel divino lavoro, che avesse obliato la patria! E così Ulisse ai compagni, stanchi, strappa il dolce oblioso frutto del loto. «Via! via! il vile dolce frutto del loto, che fa obliare la patria!»
E guai a chi avesse disturbato questo popolo nel suo lavoro di creazione! Come l’ape s’avventa contro il nemico e infigge l’aculeo pur sapendo che ne morrà, così questo popolo s’avventava alla morte con l’asta e con lo scudo, nel divino impeto della sua Minerva guerriera, contro il barbaro disturbatore. E adorava la vita!
E sapeva che laggiù non era resurrezione dei morti. Sapeva? certamente sapeva che laggiù erano tenebre, e se anche era vita, era vita di tenebre, alcunchè di oscuro e di severo come l’aspetto di Tànatos, il melanconico iddio.
No, un popolo, così unico e savio, non era destinato nè a vivere a lungo, nè a formare una di quelle nazioni che oggi diciamo una grande nazione.
Esso fu dilaniato dalla forza contradditoria dello stesso suo genio: cadde in balìa di quei virtuosissimi ma pesantissimi Romani: forse anche con il suo esempio volle illustrare la verità della sua sentenza: che è meglio morire che vivere, e che ad ogni modo muore giovane chi è caro agli Dei.
*
Questa meravigliosa Ellade antica è oggi ai miei occhi come una necropoli bianca, una città morta piena di statue bianche, dai marmorei occhi vuoti.
Molte volte io, alquanto seccato dai fischi delle macchine, irritati i nervi dal sibilare delle sirene, nauseato anche un po’ dalle circolari, dagli avvisi fiscali di questa nostra civiltà, mi sono rifugiato per mio spirituale riposo in questa necropoli bianca dei grandi morti ellenici.
Quando voi siete ammalati di nervi, il medico vi dice: «Fate un bel viaggio!» Ma non tutti hanno la possibilità di fare un bel viaggio; ed è per questo che allora io viaggio per questa necropoli di morti; così imperturbabili in apparenza, così commossi in profondo.
*
Ora un giorno io stavo guardando Socrate, personaggio molto conosciuto, e lo guardavo non soltanto perchè lui fu, come tutti sanno, il fondatore di quella che si chiama filosofia morale; ma perchè lui spiccava assai brutto in mezzo a una corona di splendenti giovani. E come sotto la scrittura di un codice antico avviene di scoprire le tracce di una seconda scrittura, così io dietro Socrate vedevo accampare, entro contorni nebulosi, una figura enorme, rossiccia, quasi furiosa.
«Oh, ma chi è costei?» dissi prendendo la lente.
Non uno dei discepoli di Socrate, certamente!
Anzi i suoi discepoli, i bei giovani splendenti di giovinezza, si rivolgevano verso quella figura con un sentimento di dolore, di meraviglia o di riso.
Allora, dopo aver molto guardato, ben conobbi chi era colei: essa era Santippe, la mala femmina, rossa di pelo, la tormentatrice dell’eroe, la moglie di Socrate. Santippe, dico!
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Da quel tempo la mia ammirazione per il popolo ellenico è venuta crescendo.
Perchè è cosa nota che gli Elleni ci hanno lasciato anche i modelli più vari e straordinari del tipo femminile; da Elena, dalla chioma fiorita, per cui tanti eroi morirono volontieri; ad Aspasia, donna intellettuale che teneva un salotto e rovinò la politica del suo paese; a Penelope, straordinaria, che giunse ad ingannare gli amanti per mantenere fede al marito, il quale non soltanto era lontano, ma dicevano anzi che era morto.
Tutti i tipi, dico, ha fornito la Grecia, del furore guerriero, del furore erotico.... Clitennestra lorda di sangue e di lussuria ed Antigone, la santa della terra, più bella di Ofelia! Tutti i tipi; eppure io sentiva che mancava qualche cosa. Ora, trovata Santippe, non mancava più niente!
Ma mi pareva ben impossibile che i Greci avessero tralasciato di consegnare all’umanità uno dei modelli più comuni, come quello che anche oggi va sotto la denominazione di Santippe.
Ah, sì! Noi abbiamo fatto una grande scoperta viaggiando per la necropoli dei morti ellenici. Noi abbiamo scoperto la infame Santippe.
È strano però come gli eruditi non se ne siano accorti! Forse perchè non era nei codici.
E allora, benchè io sia uomo modesto, mi sono congratulato con me stesso della bella scoperta.
- ↑ Demoniaco: qui ha il senso antico, di sovrumano, ottimo, beato, non di sinistro o malefico.
- ↑ Cara fu la cicala ai Greci e giustamente piacevole il suo canto che a noi pare noioso. Dolce profetessa dell’estate. La vecchiaia non ti raggiunge, o cicaletta saggia, nobile, piena di canti e senza dolore. Così il vecchio Anacreonte. Ma la nostra età plutocratica e positiva chiama saggia la esosa formica.